Le sentinelle del capitale

Siamo alle solite, quando all’inizio dell’anno facevamo la facile previsione che avremmo sentito parlare ancora di delocalizzazioni, non facevamo che scoprire l’acqua calda. Anche perché sempre la stessa acqua, ma fredda stavolta, scorre sempre più impetuosa trascinando e facendo macerie sul corpo martoriato del proletariato tutto. Ci sono attualmente aperti al Ministero dello sviluppo economico “73 tavoli di crisi, per complessivi 95 mila lavoratori”. La stragrande maggioranza di questi “tavoli” ha prospettive del tutto incerte che potrebbero risolversi con “drammatiche chiusure o licenziamenti collettivi”. Così ci informa il sito “Collettiva” della CGIL.

Ma, non è finita. Queste vertenze riguardano società con più di 250 dipendenti, al di sotto di questa soglia ci sono decine di vertenze che riguardano centinaia di migliaia di lavoratori che si trovano costantemente sull’orlo del baratro. Tra le vertenze della prima categoria quelle che più hanno fatto e stanno facendo rumore sono senza dubbio quelle della Qf (ex GKN), Wartsila e Whirlpool.

Cominciamo dall’ultima, che ha già chiuso (la CGIL molto più elegantemente usa il termine “dismesso”, oramai anche le parole non hanno più senso) lo stabilimento di Napoli. La Whirlpool è salita ulteriormente alla ribalta lo scorso 27 agosto, anche per via del premio di 3 milioni di euro al manager Gilles Morel, se riuscirà a chiudere le fabbriche in Europa e Medio Oriente entro il 2024. I soliti timorati di Dio saltano sul famoso divano (sì, quello sempre occupato dai fannulloni che spesso ci lasciano la pelle in qualche cantiere), scandalizzati da cotanto pelo sullo stomaco, anche se in cuor loro guardano con invidia il signor Morel, perché avrebbero voluto volentieri essere al suo posto.

Dovrebbero esserci altri 5 siti che operano in Italia, anche questi in procinto di passare sotto le forche caudine della multinazionale americana. Il condizionale è d’obbligo, perché a leggere le cronache dei soliti giornalisti, pare di trovarsi di fronte a dei prestigiatori bravissimi a far sparire stabilimenti e posti di lavoro. Prendiamo la stessa Whirlpool. Lo stabilimento di Napoli contava 420 dipendenti, prima della chiusura, ora i dipendenti da ricollocare sono 310.

Lo spartito è sempre lo stesso. La Qf (ex GKN). Anche qui all’inizio della crisi c’erano 422 dipendenti, adesso sono 370 (52 sono spariti nel nulla), sempre da ricollocare. Il nuovo padrone non ha fatto il miracolo. Se non c’è ancora riuscito San Gennaro sarà molto dura per gli altri santi. Il gruppo Borgomeo che ha rilevato la GKN, è specializzato, come denunciavamo già a inizio anno, nelle compravendite. Di qualsiasi tipo. Per loro non fa differenza alcuna sia un capannone, sia una macchina, sia un uomo o donna, purché sia merce buona che, rivenduta, dia il giusto guadagno. Ora, per dire, dopo aver comprato, è un eufemismo, l’azienda inglese la Qf chiede l’intervento di Invitalia, l’Agenzia per lo sviluppo d’impresa di proprietà del Ministero dell’Economia. Capito l’antifona? Ecco la tanto decantata libertà d’impresa: non ci mettono i soldi prima, neanche dopo, ma passano all’incasso.

Intanto, lo spettacolo continua. Saltimbanchi con grande maestria continuano a portare (prendere) in giro la classe operaia. Processioni con preti e vescovi, preghiere manifesta-zioni. Si invoca a gran voce l’intervento dello Stato. Oppure ci si affida alla magistratura come se fosse un corpo estraneo dello stesso Stato e non il Suo organo giuridico addetto a far rispettare la dura lex del capitale, seguendo passo passo le vicissitudini del mondo economico sovrastante e devastante. Per cui ci troviamo, come all’Italpizza, con le decisioni aberranti di un Gup? Niente affatto. Più semplicemente siamo di fronte a un giudice più realista del re che, annusata l’aria del cambiamento reazionario nei piani alti della macchina statale, subito si adegua. Anche perché all’orizzonte si intravedono uragani sempre più minacciosi e quindi bisogna attrezzarsi per tempo. Infatti nel 2023 le previsioni ci riportano in recessione, dopo il rimbalzo del Pil del 2021 e 2022, preceduto appunto da una crescita piatta del 2019 e da un tonfo del meno 8,9% del 2020. Sono stati, gli anni che ci lasciamo alle spalle, anni bui per il proletariato, saranno, quelli che verranno, anni ancora più bui.

Alla Wartsila di Trieste (multinazionale finlandese), invece i lavoratori si sono trovati di fronte un giudice più magnanimo che ha condannato l’azienda alla revoca dei 451 licenziamenti in base all’art. 28 dello Statuto dei lavoratori (condotta antisindacale). Un errore di procedura che non farà certamente desistere Wartsila dal riprovarci con le giuste procedure. Ciò non ha impedito dal far desistere l’USB di mostrare di che pasta è fatto. Una delle sentinelle del capitale al pari delle tre sorelle maggiori (CGIL,CISL e UIL). Esulta ed esalta il giudice per la decisione presa: “un chiaro segnale, anche politico nei confronti di questa vertenza e non solo” (dal sito USB). Certo, non solo perché “il tempo guadagnato (nella vertenza), non deve far rinunciare istituzioni locali e nazionali a trovare una soluzione che salvaguardi il sito produttivo, la vocazione industriale…” (Ibidem), e bla, bla, bla. Istituzioni! E che minchia sono le istituzioni a cui si ci genuflette? Borghesi, ovviamente. Vocazione! Un’altra minchia ci starebbe bene. E questi sarebbero i difensori della classe operaia. Più che altro sembra una congrega di seminaristi.

Non da meno è il Si Cobas, seppure con una spruzzata di radicalismo in più. Ogni volta che apri il loro sito c’è sempre qualche vittoria da festeggiare. Non siamo certo noi che possiamo dolerci se qua e là si migliorano le condizioni di lavoro, come nella fattispecie, al Salumificio San Carlo di Piacenza. Il Si Cobas sta firmando accordi a gogò “a beneficio della classe operaia e del benessere complessivo del territorio piacentino!” (Sic!). Ma ecco la degna conclusione: “Nel frattempo 80 lavoratori piacentini potranno brindare all’ennesima vittoria… avanti così!” Capito? “Ennesima vittoria”. Evidentemente il loro sguardo non va oltre Piacenza e dintorni. Stai a vedere che passeremo dal socialismo in un solo Paese (Unione Sovietica), al socialismo in una sola Provincia (Piacenza). Vai a dirglielo a quei 5,6 milioni di poveri (ultimo rapporto Caritas -17/10/2022) che hanno a malapena l’acqua da bere.

Altra situazione disastrosa dal futuro incerto, all’Ansaldo Energia di Genova (2900 addetti), che ha visto i lavoratori occupare l’aeroporto. Protesta bloccata subito da sindacati e autorità, con la promessa di ricapitalizzazione fatta da Cassa depositi e prestiti.

Sono questi solo alcuni esempi di una società in disfacimento. Dove tutto risulta capovolto. E allora capita di leggere, di sentire, di teorizzare le sentinelle del capitale, in tutte le salse, che lo sfruttamento è tale solo quando eccede determinati parametri. Quindi se il livello salariale è, poniamo, di 5 euro, c’è sfruttamento; se invece è di 10 lo sfruttamento diminuisce e così via, fino a sparire del tutto. Il Manifesto del 4 settembre mentre ci riporta la notizia di un imprenditore che prende a bastonate il suo bracciante che chiedeva di essere retribuito, evita quasi accuratamente di chiamarlo padrone. Solo quando la sua volontà diventa oppressiva e violenta, solo allora avviene il passaggio da imprenditore a padrone. Ma il nuovo s’avanza: “La sinistra sia quella del sorriso degli ultimi senza toglierlo a nessuno”. Cosi ci istruisce Aboubakar Soumahoro, appena eletto deputato nella lista Verdi-SI.

Ritornando alle delocalizzazioni, su cui abbiamo già scritto, vorremmo solo ricordare brevemente ai difensori, si fa per dire, del proletariato, che esiste anche il fenomeno inverso che in inglese si chiama “back reshoring”, ovvero rilocalizzazione, cioè il ritorno a casa di aziende italiane che erano andate all’estero. Che fine hanno fatto i proletari di quelle aziende? Se vi sforzate la risposta non è difficile. Non sembra che i sindacati italiani siano insorti per bloccarne i licenziamenti. Altro che solidarietà di classe!

Chiudiamo ricordando alle belle statuine che non è l’entità del salario che determina lo sfruttamento del lavoro: è il sistema salariale in quanto tale. Esso è la base del processo economico capitalista. È il sistema salariale che va abolito e non imbellettato, è lui il colpevole primo dello sfruttamento. Questo non significa negare le lotte per i miglioramenti salariali, anzi, soprattutto in questo momento storico, ma vuol dire che in ogni lotta, in ogni momento, in ogni sospiro, dobbiamo, sempre, porre innanzi a noi l’abbattimento del sistema salariale. L’alternativa è, per parafrasare Lenin, un passo avanti… dieci indietro.

AL
Venerdì, October 21, 2022