A margine del 4 novembre

In questi giorni di retorica gerrafondaia e patriottarda, nel pieno di una guerra imperialista dentro l'Europa, riceviamo e pubblichiamo questa corrispondenza di un compagno

Nei giorni da cui la "patria" esce vittoriosa, diventa facile anche per chi dovrebbe appartenere al fronte di quelli che in quanto rivoluzionari la patria la rinnegano, celebrare in cuor suo il trionfo delle armi italiane. Tutt'a un tratto, ci si sente non più proletari ma parte di un unica comunità nazionale con comuni basi linguistiche, storiche e culturali nella quale le disuguaglianze di classe scompaiono o vengono ignorate. Ci si scopre improvvisamente italiani, come quando la nazionale gioca ai Mondiali. Perfino il tuo padrone lo puoi sentire come fratello per il solo fatto che parla la tua stessa lingua, che è nato nel tuo stesso paese o che in tasca ha il tuo stesso passaporto. Chi se ne frega se ti sfrutta come un cane.

Oggi ci sono sigle e soggetti politici che si autodefiniscono comunisti che, alla faccia dei proletari disertori fucilati da Cadorna e da Diaz, rivendicano orgogliosamente l'interventismo nella Grande Guerra. E quindi, consapevolmente o meno, rivendicano i fiumi di sangue che col pretesto di Trento e Trieste italiane, sono scorsi per ingrassare i pescecani - dispregiativo con cui vennero giustamente chiamati gli industriali che producevano armi o che in un modo o nell'altro specularono sul conflitto - sull'Isonzo, sulle pietraie del Carso, a Gorizia, a Caporetto, sul Piave, sull'Adamello, sulla Marmolada, a Vittorio Veneto. Una carneficina di 650 000 morti.

Rivendicare l'interventismo guerrafondaio che portò l'Italia a scendere in campo il 24 maggio 1915 fino alla sconfitta degli imperi centrali il 4 novembre 1918, é voltare le spalle alla causa proletaria, è sputare sulla bandiera rossa, è rinnegare le radici del campo di classe al quale si dice di appartenere. È gettare palate di fango sugli insegnamenti di Lenin, che sulla sua bandiera aveva inciso le parole d'ordine di diserzione, disfattismo rivoluzionario, rifiuto di ogni sciovinismo per la rivoluzione proletaria internazionale.

Un proletario di qualsiasi origine, che le patrie le dovrebbe volere cancellare tutte in nome di una sola di queste - il mondo - e che come unico governo riconosce solo i consigli operai dei suoi fratelli di classe, dovrebbe accogliere la vittoria o la sconfitta del suo paese in una guerra imperialista con una sola reazione: l'indifferenza. Perché che il “suo paese” vinca acquisendo territori o perda cedendone, nei suoi compiti non cambia niente. La priorità rimane sempre il rovesciamento del capitalismo e la soppressione di quegli stessi confini che vittorie e sconfitte di ogni guerra spostano da una parte o dall'altra sulla carta geografica. Per lui non fa differenza se il fronte degli oppressori coi loro apparati di terrore e le loro istituzioni, sia composto da suoi connazionali o da "invasori", per lui il nemico è identificabile dalla sua appartenenza alla (o dal suo sostegno della) classe sfruttatrice.

Ricorrenze come quella di oggi sono quanto di più distante dal nostro dna e dal nostro patrimonio storico e politico, e vanno smascherate per quello che sono: manifestazioni del più lercio e schifoso nazionalismo.

Le quali contribuiscono a portare acqua al mulino di chi, facendoci credere che i nostri interessi coincidano con quelli di chi ci opprime solo perché come lui siamo nati nello stesso paese, in nome dell'italianità vorrebbe anche farci scordare quello che ha veramente un peso determinante sulla nostra vita, sicuramente molto più delle origini geografiche: l'appartenenza a una classe sociale - quella degli sfruttati - e la sua subordinazione nei rapporti di produzione, nei confronti di quella di chi ci sfrutta.

Sabato, November 5, 2022