La difficile strada dell'imperialismo europeo: un aggiornamento

Il 24 febbraio 2022 è iniziata la “campagna di Ucraina” da parte della Russia, “operazione speciale”, come la chiama Putin. In altre parti, (Prometeo 26) abbiamo spiegato le ragioni dell’intervento russo in Ucraina a seguito dell’accerchiamento Nato nei confronti della Russia. Abbiamo altresì spiegato che la guerra in atto combattuta da due proletariati che nulla hanno a che vedere con gli interessi nazionalistici delle rispettive borghesie, non è riducibile ad una scontro bellico tra Mosca e Kiev, ma ha una dimensione più ampia che coinvolge gli Usa, la Nato, l’Europa e la Russia, oltre ovviamente l’Ucraina. Detto questo, l’operazione militare, che secondo i calcoli russi si sarebbe conclusa in brevissimo tempo, sta durando da quasi un anno e non si vedono molti spiragli di una soluzione negoziale che fermi il conflitto.

Semplici le ragioni. In questo quadro di recessione economica, di stagflazione, di speculazione, di fuga di capitali, meglio sarebbe dire in termini più sintetici, di crisi permanente del sistema produttivo capitalistico, caratterizzato da una sempre maggiore difficoltà di valorizzazione dei capitali investiti nella economia reale e causa dei bassi saggi di profitto, le tensioni tra capitalismi e le loro “ambizioni” imperialistiche entrano in fibrillazione sino al punto di inscenare episodi di guerra guerreggiata in prima persona e non solo per procura.

Non avendo a disposizione una profetica boccia di cristallo, ci limitiamo a dire che la guerra in atto avrà tempi lunghi o comunque più lunghi del previsto. La Russia si è impantanata nell'acquitrino ucraino che, inizialmente, ha opposto una grande resistenza, e che poi ha addirittura organizzato azioni di contrattacco. Non per questo Mosca si è arresa né ha accettato un compromesso negoziale al ribasso, ha continuato il suo sforzo bellico a) per raggiungere gli obiettivi che erano alla base della “campagna” di Ucraina, ovvero abbattere il governo Zelenskj, non consentire il suo ingresso nella Nato, mantenere la penisola della Crimea, conquistare le regioni autonome del Donbas e, potendo, sottrarre a Kiev tutta la striscia litoranea del Mar Nero. b) per mettere le mani sulle ricchezze minerarie, non ultimi alcuni giacimenti di Terre rare. c) per non perdere la faccia di fronte agli avversari imperialisti e agli alleati di cui la Russia ha immenso bisogno, soprattutto in questa fase particolarmente delicata. Obiettivi sempre da raggiungere, a meno di una improbabile ma non impossibile “débâcle” economica e sociale, prima ancora di quella militare. Quindi per la Russia di soluzioni negoziali non se ne parla, per il momento, e dà la responsabilità all’Ucraina che, a sua volta, dichiara di non essere d’accordo per nessuna soluzione di “pace” o proposta negoziale, fino a quando le truppe russe di occupazione rimangono sul suo territorio.

Per gli Usa, invece, che la guerra continui non è un mistero. A conforto di questa tesi non solo ci sono molte dichiarazioni di Biden “i russi se ne devono andare”, poi si vedrà. Sono solo dichiarazioni che valgono quello che valgono, ma quando dietro ci sono interessi strategici le cose cambiano, le parole diventano fatti e i fatti si trasformano in azioni. Biden ha tutto l’interesse che la guerra continui per una serie infinita di ragioni. Innanzitutto più l’evento bellico si allunga, grazie agli aiuti militari e finanziari di Washington e della Nato a Kiev, più l’apparato economico e bellico russo si indebolisce, e gli ultimi eventi militari in terra di Ucraina lo dimostrano. In seconda battuta, indebolendo le Russia, Biden spariglia le carte alla Cina. Il sogno dichiarato di Xi, di dare vita alla nuova via della seta, con la quale vorrebbe attestarsi a prima potenza mondiale sia in campo economico commerciale che in quello finanziario. Se il progetto dovesse partire, avrebbe come percorso quello di attraversare tutto il continente asiatico, arrivare in Europa, di cui una porta di accesso sarebbe proprio la Russia. Per cui indebolire uno dei terminali della via della seta sarebbe strategicamente importante per gli Usa per colpire contemporaneamente la Russia in maniera diretta e la Cina come conseguenza mediata, senza contare che Mosca rappresenta comunque per Biden il nemico N° 2. Nel perverso gioco imperialistico agli Usa non dà solo fastidio che la Cina abbia l’ambizione di salire al rango di prima potenza mondiale in termini commerciali, quello che più spaventa Wall Street è il tentativo di Xi di competere, con la sua divisa nazionale, contro il dollaro sui mercati monetari mondiali, nel ginepraio delle attività speculative e, non da ultimo, come moneta di rifugio. Ruolo che il dollaro ha sempre giocato e di cui gli Usa non possono fare a meno, se vogliono mantenere quel livello di superiorità monetaria e militare - dove la prima finanzia la seconda - di cui hanno goduto sino adesso e vorrebbero goderne anche per il futuro.

Che la nuova via della seta rimanga sulla carta come il disegno di un bambino fantasioso. Che parta, che si fermi a metà strada, o che non parta del tutto - benché Pechino si stia impegnando a fondo comprando porti, aeroporti, costruendo infrastrutture faraoniche ad hoc in molti paesi asiatici e non solo - non cambia l’atteggiamento americano. Indebolire Mosca è un modo per indebolire il progetto cinese e le sue ambizioni imperialistiche.

In aggiunta, vale un’altra considerazione: le sanzioni commerciali, tra le quali quelle sul gas e sul petrolio siberiani, quelle finanziarie sugli scambi tra le banche europee e russe, sugli interscambi tecnologici funzionali alla produzione non vengono pagati dagli Usa, nemmeno per un centesimo di dollaro, ma dai paesi europei. Il che, ancora una volta, consente agli Usa di mettere in crisi un alleato non più tanto affidabile, anche se per il momento allineato alle strategie della Casa Bianca. Consente a Biden di tenere la UE sotto il suo tallone in nome del “ruolo” dell’Occidente, della difesa della identità nazionale contro l’invasore russo e di rintuzzare le ambizioni dell'euro nei confronti del dollaro. In buona sostanza, anche l’Ucraina ha interesse a continuare la guerra, godendo dell’appoggio americano, può tirarla per le lunghe in attesa che i rapporti di forza cambino sul terreno dello scontro e, quindi, sul tavolo delle trattative. Mentre solo la Cina ha tutto l’interesse a perorare una soluzione negoziale, almeno con un cessate il fuoco, per arrivare al più presto ad un negoziato che “accontenti” le due parti e salvi il progetto della via della seta.

Stante questo clima di crisi e di guerra, di fame e di morte per milioni di proletari, la questione ucraina, nel medio periodo, è destinata a percorrere una strada già tracciata dagli interessi imperialistici internazionali. Questa strada si potrebbe improvvisamente interrompere per poi riprendere su spazi economici e militari più larghi. Potrebbe rimanere “isolata” così come fungere da acceleratore di scontro tra altri attori internazionali quali Usa e Cina, aprendo scenari di guerra ben più gravi nell’area dell'Indo-pacifico, sulla contestata isola di Taiwan o per il controllo delle isole Tonga, Figi e Salomone, dove la Cina si sta sostituendo agli imperialismi di Usa e Giappone.

E’ pur vero che ufficiosamente si stanno tenendo tentativi di accordo tra Usa e Russia e tra Usa e Ucraina per arrivare ad una soluzione negoziale usufruendo della forza della resistenza Ucraina (peraltro finanziata dagli Usa-Nato, come s'è detto) e della debolezza russa, anche se supportata tecnologicamente dalla Cina, sia in termini militari che diplomatici, ma è anche vero che gli spazi sono, al momento, molto ristretti. Di fatto la guerra continua, la sua fine, se ci sarà, avrà i tempi e i modi degli interessi imperialistici in gioco che, al caso, potrebbero dilatare lo scontro entrando in uno scenario di guerra molto più ampio.

PS. il 15 novembre si è aperto a Bali il 20 congresso del G.20. Grandi le aspettative dell’opinione politica internazionale per vedere all’opera i due paesi imperialisti più potenti. Nella fase preliminare tante sono state le promesse da ambo le parti per una “sana” cooperazione tra Cina e USA. A sentire Biden e Xi sembrava di essere in un clima surreale di comunanza di intenti sulla pace in Ucraina. Mai uso delle atomiche in quel conflitto. Sforzi congiunti per addivenire al più presto ad una pace definitiva che accontenti entrambe le parti. Baci e abbracci e brindisi a tarallucci e vino. Poi sono uscite le prime vere intenzioni sempre però infiorate da un “volemose bene” che pronosticava una sorta di dualismo imperialista basato sulla comune lotta per un ambiente più sano - detto per inciso i due paesi sono i primi inquinatori al mondo - per una corretta cooperazione in tutti i campi della produzione tecnologica e del commercio estero, ovvero una distensione a 360 gradi. Ne usciva, inizialmente, una sorta di dichiarata spartizione del mondo sulla base di interessi comuni ai due imperialismi come se il mondo, una volta fatti i “giusti” patti tra Washington e Pechino, fosse una riserva di caccia dedicata esclusivamente a loro stessi.

Più avanti però, sfrondati dagli scenografici accessori, i discorsi si sono fatti più concreti. Ha cominciato Biden a recriminare sugli aiuti cinesi alla Russia nella guerra in corso. Xi ha risposto che se l’alleato si trova in difficoltà militari lo deve al massiccio aiuto militare e finanziario che il Pentagono eroga da anni, anche prima dello scoppio della guerra, al governo di Kiev. In progressione, Biden ha accusato la Cina di oppressione etnica nello Xinjiang, in Tibet e a Hong Kong per poi arrivare al dunque, ovvero alla questione Taiwan. In questo caso i toni si sono accesi. Biden ha confermato che mai e poi mai gli Usa cambieranno l’atteggiamento indipendentista dell’isola sulla base del principio: due territori, due “Cine” e che se questo principio fosse messo in discussione, gli Usa sarebbero costretti a difendere il loro “storico” alleato. Xi è stato ancora più esplicito: l’unico principio valido è quello di una sola Cina e l’isola di Taiwan è la linea rossa che nessuno deve valicare. Parole chiare: in gioco c’è l’inevitabile scontro tra il giovane imperialismo che avanza e il vecchio imperialismo che non vuole arretrare nel bel mezzo di una crisi economica e finanziaria permanente in grado di aprire un altro fronte di guerra in Asia dopo averlo aperto nell’est dell’Europa.

Detto questo, passiamo ad un argomento solo apparentemente collaterale

All’interno di una simile prospettiva di guerra generalizzata, in ambito borghese, ma purtroppo non solo, la “guerra d’Ucraina” sta ponendo una serie di problemi tra i quali, il più pressante, risulta essere il ruolo che la UE gioca o dovrebbe giocare all’interno della guerra che si combatte ai suoi confini orientali e, più in generale sulle future guerre ovunque combattute.

“I borghesi benpensanti” di destra e di sinistra fanno a gara a chi si debba attribuire il merito per la primogenitura di un ruolo finalizzato alla costruzione di una vera Europa unita, unita non solo dalla moneta unica, l’euro, ma strutturata anche da un impianto fiscale comune, da una coesione in politica estera che la renda più credibile a livello internazionale e, non da ultimo, da un impianto militare moderno ed efficace che le permetta di essere autonoma nelle sue scelte strategiche e non debole pedina all’interno dell’arengo imperialistico internazionale.

In altri termini, le borghesie europee sia dell’area occidentale (Germania, Francia, Italia in primis) che orientale (Polonia, Ungheria, Romania, nonché le tre repubbliche baltiche, più la Finlandia e la Svezia) di fronte alla guerra si sono trovate come tanti vasetti di coccio in mezzo a taniche di acciaio come gli Usa e la Russia. Tutte prese nella morsa di interessi individuali, sia sul terreno dell'approvvigionamento energetico, dell’allineamento politico, che delle scelte strategiche militari, si sono sentite deboli e divise. Da qui la nascita del “pensiero forte”: o ci si costituisce come unità imperialistica salda ed autonoma in grado di giocare il proprio ruolo su qualsiasi fronte, oppure la UE rimarrà fuori dai giochi e succube - nonché ricattabile - del più forte imperialismo di turno, in questo caso americano.

Certamente, da un punto di vista borghese il problema esiste e non pochi sono i suoi sostenitori che senza timore sollevano quotidianamente la questione nel parlamento europeo e nelle sedi nazionali deputate.

Noi che apparteniamo a quel settore politico opposto, quello che non si pone la questione di come risolvere i problemi borghesi di una Europa unita, forte e imperialista, ma solo quelli del proletariato internazionale, al riguardo abbiamo un paio di rilievi da porre alla questione posta dalla guerra e dai fautori di un imperialismo europeo, forte, potente e autonomo.

Il primo riguarda le reali possibilità dei 27 paesi che formano la Comunità europea di imboccare la strada di una vera autonomia imperialista che li ponga sul medesimo livello, o quasi, delle altre potenze imperialiste quali la Russia, la Cina e gli Usa. In questa ambiziosa prospettiva, la UE ha però come primo ostacolo la ormai secolare dipendenza dalla superiorità finanziaria, politica, monetaria nonché militare degli Stati Uniti. Situazione che si è espressa da sempre, e ancora più recentemente, prima e durante il corso della guerra in Ucraina. Per sbarazzare il campo da equivoci e fraintendimenti, vanno subito chiarite alcune cose. Innanzitutto, nella fase storica del dominio imperialistico, qualunque atto di difesa o di attacco militare è interamente compreso nella logica della dinamica globale del sistema economico capitalistico, nelle sue sempre più profonde crisi economiche e finanziarie e nel crescere abnorme della speculazione. Secondo: tutto questo è originato dalla difficoltà dei capitali a realizzare saggi di profitto adeguati ai rischi degli investimenti produttivi, il che mette in crisi gli stessi meccanismi di valorizzazione del capitale che sono alla base dello sfruttamento della forza lavoro e, quindi, dell’esistenza del capitalismo stesso come forma produttiva, e denuncia la sua caducità storica. Terzo: le guerre, che siano “di attacco” o “di difesa”, sono spinte anche, e non da ultimo, dalla necessità di impadronirsi con la violenza dei mercati delle materie prime energetiche, di quelle funzionali alla produzione di plusvalore e di esportare capitali là dove il costo del lavoro è meno caro. In breve, le guerre sono sempre state “l'extrema ratio” alle contraddizioni del capitale, perché, oltre che razziare, distruggere significa creare le condizioni della ricostruzione e dare ossigeno agli asfittici polmoni di un capitalismo in decadenza.

Detto questo, la “guerra d’Ucraina”, provocata inizialmente dall'accerchiamento NATO alla Russia e impugnato da Mosca come pretesto all’invasione dell’Ucraina, viene combattuta in Europa con una serie di conseguenze che, facilitando Washington, penalizzano la UE, costringendola a subire ancora di più i diktat americani su tutti i fronti. Infatti, Biden ha preteso e ottenuto una “unità” da parte dei paesi europei, fatte salve alcune eccezioni e molti malumori, che non hanno rafforzato la UE, anzi hanno messo in evidenza la sua debolezza e l’emergere e l'acuirsi di interessi nazionali contrastanti. Sempre da un punto di vista capitalistico, chi sta pagando il prezzo delle sanzioni alla Russia è l’Europa e non certamente l'America, innanzitutto sul piano energetico, ma non solo: il discorso vale gli scambi commerciali,per le transazioni finanziarie, per l’agricoltura, per la logistica ecc... I rifornimenti russi sono stati messi in discussione e Mosca, per ritorsione, ha inizialmente ridotto del 30% le forniture di gas alla Germania e all’Italia per poi chiudere i rubinetti, mettendo in difficoltà le due economie europee più forti, accanto a quella francese che, nonostante gli sforzi di mediazione di Macron - “non umiliamo la Russia” - farà la stessa fine.

Come primo effetto, si è assistito ad una corsa in ordine sparso dei maggiori paesi europei alla ricerca di possibili alternative. I governi europei si sono proposti come domanda energetica, che assomiglia più ad una questua, verso paesi del basso Mediterraneo, come l’Algeria, la Tunisia e del centro Africa nonché agli Emirati, con il risultato di pagare gas e petrolio più cari, ricevendo in cambio un prodotto energetico che, molto spesso, è di un terzo meno efficace di quello russo. Da un punto di vista commerciale, le sanzioni si abbattono ancora una volta sulle economie europee e sui suoi abitanti, proletariati inclusi. Il vertiginoso aumento del prezzo del grano e dei fertilizzanti sta mettendo in ginocchio un settore, quello dell’agricoltura, già penalizzato dai cambiamenti climatici che, inflazione a parte, rischia di affamare centinaia di milioni persone non solo in Europa ma in tutto il mondo. Sempre a proposito delle conseguenze della guerra, va aggiunto come il conflitto contribuisca, sul mercato monetario mondiale, ad avvantaggiare il dollaro sull’euro, che dall’inizio della guerra ha perso quasi il 30%.

Tutto ciò non solo non ha consentito all’Unione Europea di rafforzarsi al suo interno ma, perlomeno sino ad oggi, ha favorito il suo contrario. Ovvero una ulteriore debolezza economica e finanziaria a vantaggio degli USA, con l’inevitabile risultato che ogni singolo paese membro sta cercando “soluzioni” individuali, molto spesso in concorrenza con quei partner europei con i quali dovrebbe collaborare. Alcuni esempi: Italia e Francia sono in acerrima concorrenza per il petrolio libico, anche se oggi hanno dovuto lasciare il tanto agognato business in mano a Russia e Turchia. Gli stessi paesi litigano sullo “smaltimento” di migliaia di profughi sulla linea di confine di Ventimiglia, dando vita a una delle più squallide rappresentazioni di egoismo nazionale. Per non parlare del Gruppo di Visegrad che di profughi non ne vuol nemmeno sentir parlare. L’asse Berlino-Parigi, che sarebbe dovuto essere la locomotiva economico-politica del futuro imperialismo europeo, si sta sgretolando sotto i colpi della crisi. Germania e Francia si stanno inoltre confrontando sulla complessa questione della leadership europea e sulla spinosissima prospettiva del riarmo tedesco, che rischia di spaccare l’Europa più che di unirla sul terreno militare.

Macron, forte del fatto di essere, dopo l’uscita della GB dalla UE, l’unico paese nucleare in Europa, ritiene che, qualora il vecchio continente dovesse imboccare la strada di un riarmo collettivo in funzione di una più efficace postura imperialistica, la Francia ne dovrà essere il pivot attorno al quale gli altri 26 paesi dovrebbero ruotare. Il presidente francese dimentica però che un processo di questo genere troverebbe almeno due ostacoli pressoché insormontabili. Il primo consisterebbe nella difficoltà economica che molti paesi membri avrebbero nel contribuire al finanziamento di un simile progetto nel quale entrerebbero sì, come piccoli cofinanziatori, ma con un ruolo da comparse sotto l'egemonia di Parigi. Come al solito, finirebbero per prevalere gli interessi nazionali che mal si concilierebbero con quelli velleitari di un esercito comune peraltro a guida francese. Il secondo ostacolo, ben più grave, verrebbe inevitabilmente dall’ostruzionismo di Scholz, che mai lascerebbe nelle mani dell’alleato-avversario un simile obiettivo strategico.

Per di più la Germania di Scholz è la nazione europea con il maggior numero di basi nucleari americane in Europa. Il che la rende, al momento, un alleato militare più vicino agli Usa e alla NATO che non alla Francia e a un ipotetico esercito europeo con ambizioni autonome. Senza dimenticare che il riarmo tedesco deve necessariamente contare sulle forniture militari del Pentagono, come dimostra il recente accordo di Berlino con Washington per l’acquisto di caccia statunitensi F-35A. Per cui i 100 miliardi di euro che sono stati stanziati dal governo di Berlino per la ricostruzione militare tedesca, anche se questa prenderà comunque del tempo prima che si realizzi compiutamente, finirebbero per essere il raccordo tra l’ipotetico, quanto difficile, esercito UE e la Nato, con tanto di ben servito alle ambizioni francesi. Nemmeno sul terreno diplomatico la UE è riuscita a trovare unità e compattezza proponendosi come mediatore internazionale ai fini di una “soluzione” della guerra. Non tanto per un falso pacifismo, quanto per uscire dall’ombrello delle strategie americane, lasciando l’iniziativa all’opportunista Erdogan che, da imperialista di medio calibro, si è proposto come mediatore di livello internazionale. In realtà, agisce come interprete dei propri interessi e, in seconda battuta, di quelli nazionali di una Turchia in grave crisi economica, ma che vuole essere protagonista dei propri destini imperialisti sfruttando il decorso di un conflitto che è ancora molto lontano da una soluzione negoziale. Anzi...

Come si vede, la guerra, invece di creare le condizioni materiali per la costruzione di un imperialismo europeo unitario, con tanto di esercito comune, ha messo in evidenza la debolezza dei 27 paesi, i loro contrasti relativi alla leadership politica, la prevalenza degli interessi economici nazionali e l’assoluta incapacità di giocare il benché minimo ruolo in campo diplomatico e tanto meno militare. In compenso, ha reso il progetto di una UE forte, coesa sui terreni monetari, fiscali, commerciali e militari, una utopia che solo i borghesi più ingenui continuano a perseguire contro la realtà dei fatti. Intanto prosegue la GUERRA CON LA SUA RETORICA DI MORTE E DISTRUZIONE.

Il secondo rilievo ci pone in una prospettiva completamente diversa, opposta in termini di strategie e di atteggiamenti politici sia nei confronti della guerra che della nascita di un nuovo imperialismo come quello europeo che, se si concretizzasse come sperano i suoi borghesi sostenitori, non farebbe altro che aumentare la competitività internazionale, le frizioni imperialistiche, accelerando i meccanismi della guerra e restringendo gli ipotetici spazi di mediazione, sempre ammesso e non concesso, che a quel punto ci possa essere la volontà di sfruttarli.

Ma la cosa più importante che dobbiamo prendere in considerazione è la risposta che il proletariato, coinvolto direttamente nelle guerre o che ne subisca indirettamente le conseguenze, dovrebbe tenere, per difendere i propri interessi di classe. Interessi che per definizione sono opposti alla propria borghesia, inconciliabili sul piano economico come su quello politico e, meno che meno, su quello dello scontro bellico che coinvolge proletari contro proletari. Per facilità di discorso, prendiamo come esempio quello che sta succedendo in Ucraina al proletariato russo e a quello ucraino. Al momento, i due proletariati sono aggiogati alle rispettive borghesie, ne subiscono la logica politica, le giustificazioni per chi attacca o per chi si difende. Sono ostaggio dei rispettivi capitalismi, dei loro interessi nazionali presenti e futuri. All’interno di questa cornice bellica non solo i due proletariati non sono in grado di esprimere istanze di classe che in qualche modo possano essere un disturbo, se non un ostacolo ad una guerra che non è la loro, ma sono soltanto lo strumento attraverso il quale le rispettive borghesie tentano di raggiungere i propri obiettivi strategici, sia che siano di natura offensiva che difensiva.

IL PROLETARIATO E LA GUERRA

Il primo compito che un proletariato si trova a svolgere all’interno di un processo di lotta di classe, a maggior ragione se coinvolto in un conflitto, è sempre quello di combattere la propria borghesia. Il primo nemico da combattere è sempre in casa nostra, mai dimenticarlo. La propria borghesia, che sia belligerante o meno, è pur sempre l’avversario di classe, il nemico domestico che, in quanto tale, deve essere combattuto prima di ogni altro nemico.

Sostituire alla guerra la lotta di classe significa innanzitutto uscire dalle logiche borghesi del nazionalismo che altro non sono se non la difesa degli interessi capitalistici, la perpetuazione dello sfruttamento nazionale, anche a costo di costringere il proletariato a difendere con le armi quel regime che è alla base del suo schiavismo salariale.

Il che significa prendere le distanze dalla guerra non sul terreno di un imbelle pacifismo che, qualora riuscisse nel suo intento (cosa mai successa), lascerebbe le cose esattamente come prima, sia per la presenza del capitalismo – basato sullo sfruttamento della forza lavoro – sia per le crisi che, come da copione, sono le cause delle guerre.

In questo caso vale solo la diserzione, il disfattismo rivoluzionario ma non quelli, come pare sia avvenuto, anche se in minima parte tra le fila dei soldati russi che, disertando, sono passati dall’altra parte, quella ucraina. Perché così facendo si è passati dal servire una borghesia per aggregarsi agli interessi di un altra. In presenza di un moto di classe, anche se solo incipiente, la diserzione e il disfattismo rivoluzionario consistono nel passare dai ranghi dell’esercito nazionale a quelli proletari unendosi alle loro lotte.

Non solo, ma simili attacchi alla propria borghesia devono necessariamente essere accompagnati dallo sforzo di “esportarli” verso i proletari “dell’altra trincea”, in nome di un internazionalismo militante che unisca gli oppressi dal capitale contro l'imperialismo, le sue guerre e la barbarie che lo contraddistingue.

Per quei proletari che, pur non essendo direttamente chiamati alle armi, appartengono, con la loro borghesia, ad un fronte imperialistico che nella guerra ha interessi diretti, immediati o soltanto futuri, il discorso cambia, ma soltanto per lo scenario in cui sono sollecitati a muoversi. Ovvero solo per contingenze tattiche, ma non per quelle strategiche, che rimangono l’abbattimento rivoluzionario del capitalismo, la trasformazione della guerra, anche se non combattuta di persona, in guerra di classe.

A) Quindi, innanzitutto, va messo in evidenza come qualsiasi proletariato, pur non partecipando alla guerra, deve prendere posizione e mobilitarsi contro la sua borghesia la quale, appartenendo comunque ad un blocco imperialista, costringerebbe il suo proletariato - come tutti i proletariati europei ed americani legati alla Nato, o quelli legati al fronte imperialistico russo-cinese-iraniano - condizionandolo ideologicamente, politicamente in funzione di un possibile, prossimo, intervento bellico diretto.

B) L’attuale crisi bellica sta imponendo immani sacrifici, non solo ai proletariati impegnati come carne da macello nel conflitto in atto, ma anche ai proletariati di mezzo mondo. Le sanzione economiche, commerciali e finanziarie colpiscono anche i paesi che le praticano e non solo quelli che le subiscono. La conseguenza è l’incrudimento della crisi economica, l’aumento dell’inflazione, l’abnorme rincaro dei prezzi dei beni energetici che si scaricano sui beni di consumo ovvero sulle necessità prioritarie dei proletari e delle loro famiglie. Tra i rincari c’è anche, lo ricordiamo, quello del grano, della soia e di molti beni agricoli e dei fertilizzanti che, ancora una volta, si scaricano sui lavoratori quali primi destinatari delle conseguenza della guerra sotto forma di una inflazione insostenibile dei beni alimentari. Già la soglia della povertà si è abbassata per centinaia di milioni di lavoratori e per le loro famiglie, sia in Europa che nel resto del mondo.

C) Non solo. La crisi bellica va a colpire anche le imprese, con la conseguente chiusura di migliaia di piccole-medie attività economiche. Il che significa possibili (ma in parte già in atto) licenziamenti per milioni di lavoratori europei. Salari già bassi che perdono ulteriormente potere d’acquisto con l’inflazione e contratti a termine che rendono la precarietà lavorativa e sociale sempre di più come “normale” modello di vita imposto dal capitalismo. Non da ultimo, l’aumento dei tassi d’interesse, partito ancora una volta dagli USA, devasta il complesso dei debiti contratti dalle famiglie per far studiare i figli, i mutui per l’acquisto della casa dopo una vita di risparmi, senza tralasciare la difficoltà di accedere a prestiti bancari per le cosiddette spese eccezionali, che molto spesso tali non sono, come le cure mediche, il ricorso necessario alle assicurazioni, o qualsiasi imprevisto che comporti un esborso economico straordinario ecc.

D) In questo tragico scenario, ai margini di quello ancora più devastante della guerra, un primo passo che il proletariato dovrebbe fare, fuori e contro ogni ideologia borghese di denuncia dell’aggressore o di sostegno armato all’aggredito, è quello di opporsi con tutte le forze disponibili all’economia di guerra, ai sacrifici che i massacri bellici impongono anche ai proletari non direttamente coinvolti. La lotta all’economia di guerra non solo è un momento di non accettazione dei sacrifici che essa impone, ma è anche un primo elemento di presa di coscienza nei confronti delle cause delle guerre e della necessità del loro superamento.

E) Un esempio concreto sarebbe quello di vedere lavoratori che operano nel settore della produzione di armi, incrociare le braccia in segno di protesta e di rifiuto a produrre materiale bellico da vendere sul mercato della morte, gestito dagli imperialismi di ogni genere, se non addirittura dal proprio. Un altro esempio sarebbe quello della logistica di supporto militare che dovrebbe rendere difficile o addirittura sabotare, con lo sciopero, il trasporto di munizioni e di attrezzature complementari.

F) Fantasie, utopie da rivoluzionari frustrati? No perché è già successo nel passato e qualche piccolo, ma significativo episodio, si è verificato anche recentemente nel corso dell’attuale guerra.

Tutto questo può accadere, e su scala ben più grande, a condizione che la ripresa della lotta di classe ricominci a montare, uscendo progressivamente da tutte le trappole che le borghesie imperialiste mettono in atto per contenerla all’interno delle compatibilità del sistema sul piano economico, e per condizionarla ideologicamente su quello nazionalistico del “Justum bellum”, ovvero della giusta guerra. Ovviamente, qualsiasi episodio che dovesse porsi sul terreno della “lotta alla guerra per la lotta di classe” se non ha una tattica sul come contrapporsi all’imperialismo, una strategia che indichi la strada per il superamento del capitalismo e la consapevolezza del comunismo quale unica alternativa, sarebbe destinato alla sconfitta. Solo la presenza del partito rivoluzionario internazionale può e deve essere lo strumento politico di questo processo sociale contro lo sfruttamento, il capitalismo, la sua inevitabile espressione imperialista. Contro le sue crisi economiche e finanziarie, contro le guerre e tutte le ideologie “dominanti”, che distolgono il proletariato internazionale dai suoi veri obiettivi trascinandolo nel baratro della barbarie.FD

18 novembre 2022

Domenica, November 20, 2022