Progetto di tesi sulla tattica comunista nei paesi periferici

Presentazione

Lo scritto che segue è il progetto di tesi che il Partito Comunista Internazionalista ha presentato ai compagni del Bureau Internazionale per il Partito Rivoluzionario, per la adozione.

Su questo progetto è dunque aperta la discussione in seno al BIPR stesso, che ne pubblicherà la versione definitiva nella sua rivista internazionale. Il P.C.Int. la pubblicherà in italiano, come documento BIPR, in fascicolo a parte.

Il documento che presentiamo è costituito da tesi e da argomentazioni che le accompagnano, relativamente lunghe. Ciò è giustificato dalla necessità di trattare con una certa ampiezza temi al centro di lunghe discussioni e polemiche, in campo internazionale, disperse nelle collezioni di diverse singole testate. Si è voluto cioè, fornire un sommario delle molte argomentazioni e posizioni sostenute dal nostro partito nel corso degli ultimi decenni, a fronte delle più disparate posizioni opportuniste, che attaccavano in vari modi i principi ed il metodo marxista sull'argomento.

È in questa veste che il documento viene pubblicato quale contributo a Prometeo, rivista teorica del P.C.Int., per segnarne la sua vitalità sulla scena del dibattito teorico e politico marxista italiana, per altro piuttosto sonnacchiosa. Rimaniamo dunque in attesa di reazioni e prese di posizione su queste tesi anche da ambienti e compagni esterni al BIPR, se all'altezza di un dibattito tra marxisti.

Battaglia Comunista, mensile del P.C.Int., pubblicherà quelli che riterrà contributi positivi all'approfondimento e chiarimento delle posizioni o stimoli utili a tale chiarimento, con le nostre repliche.

Di converso, il BIPR potrà (e lo consigliamo) abbreviare e sintetizzare il testo delle argomentazioni in una agile redazione del documento che dovrà servire ad orientare la crescita e la maturazione di forze internazionaliste in tutti i paesi e che dovrà quindi essere tradotto in più lingue.

Preambolo

Il proletariato è classe mondiale quanto è mondiale il dominio del capitale sulla società. La internazionalità della classe proletaria si verifica in entrambe le sue connotazioni fondamentali. Come "classe in sé", cioè come elemento variabile del capitale nel suo stesso processo di produzione e riproduzione, il proletariato segue i destini internazionali del capitalismo, che - nella sua fase imperialista avanzata - ha ormai affermato il suo dominio assoluto in ogni angolo della Terra. Come "classe per sé", antagonista storico della classe dominante sul modo di produzione capitalista, il proletariato potrà affermare il proprio programma di emancipazione solamente a scala internazionale.

La tesi secondo cui "il socialismo o è internazionale o non è" appartiene al patrimonio inalienabile del movimento comunista, riaffermato e consolidato nelle battaglie della Sinistra Comunista (in particolare d'Italia), contro l'ondata controrivoluzionaria dell'ultimo sessantennio partita, sul terreno ideologico, dalla falsa e mistificatoria affermazione del "socialismo in un solo paese".

L'ipotesi di costruire il socialismo in un solo paese, nel mentre tradiva tutta l'impostazione metodologica e tutte le acquisizioni scientifiche del marxismo, di fatto doveva giustificare e coprire la ricostruzione economica dell'Unione Sovietica, dopo la guerra e la Rivoluzione, sulla base nazionale del capitalismo di Stato. Tale ricostruzione capitalista fu resa possibile dalla eliminazione rivoluzionaria delle deboli impalcature del potere economico borghese di stampo classico, privatistico, e fu facilitata dalla sconfitta della ondata rivoluzionaria europea degli anni Venti.

Alla internazionalità del proletariato e delle sue prospettive storiche, corrispondente alla internazionalità del comando capitalistico, si accompagna la unicità internazionale del programma storico del proletariato.

Una sola classe, un solo programma! dunque. Concretamente, ciò significa che respingiamo qualsiasi ipotesi politica che preveda il proletariato affiancare altre classi ed altri programmi, per la realizzazione di fasi economiche o formazioni sociali e statuali intermedie fra le attuali formazioni borghesi e la futura dittatura del proletariato, quale strumento operativo e condizione imprescindibile della costruzione del socialismo.

A questo principio metodologico segue l'altro grande problema sul quale il movimento comunista internazionale deve pronunciarsi risolutamente per sciogliere un vecchio equivoco. Ha senso la distinzione fra programma minimo e programma massimo?

Questa distinzione fra i programmi è stato il tratto distintivo della II Internazionale che - concentrando l'attenzione e gli sforzi delle sue organizzazioni nella realizzazione e nel consolidamento dei punti riguardanti il "programma minimo" - giunse ad allontanare talmente la prospettiva di realizzazione del "programma massimo" (il potere proletario e la costruzione del socialismo) da dimenticarlo prima e tradirlo apertamente poi.

La III Internazionale non giunse a sciogliere definitivamente l'equivoco. Sebbene il suo programma e la sua piattaforma fossero il programma e la piattaforma della rivoluzione socialista - contrapposta nei fatti a qualunque ipotesi riformista e di mediazione con le forze della borghesia - tuttavia la III Internazionale non giunse ad elaborare una tesi chiara e risolutiva su questo punto.

Sta allora al movimento comunista contemporaneo superare le antiche incongruenze affermando con chiarezza che il Partito Comunista ha un solo programma: la dittatura del proletariato e la costruzione del socialismo.

È questo suo programma che caratterizza il Partito Comunista, differenziandolo da tutti gli altri partiti e forze piccolo borghesi, o anche di "campo proletario", alle quali manca proprio la prospettiva ultimale del movimento di classe del proletariato. Ed è difendendo e perseguendo questo suo programma, che esso può garantire al proletariato il suo indispensabile strumento politico.

Agli obiettivi programmatici dovranno dunque essere subordinate le tattiche particolari che, volta per volta, situazione per situazione, il Partito Comunista si deve dare.

Gli "obiettivi" parziali, contingenti, giustamente tattici, non possono in alcun caso essere assimilati ad obiettivi programmatici del Partito Comunista. Ciò vale a dire che essi non possono e non devono in alcun caso entrare a far parte del programma comunista.

Per chiarire la tesi attraverso un esempio, ci possiamo riferire alla questione delle organizzazioni di base del proletariato. È nel programma comunista la centralizzazione nazionale e internazionale dei consigli proletari, sulla base delle unità produttive e territoriali, per la determinazione dei bisogni sociali, la direzione della produzione ad essi conseguente, il controllo della esecuzione ecc. Non fa parte, invece, del programma comunista - bensì della tattica comunista - la liberazione del proletariato dalle gabbie sindacali nella lotta contro il capitalismo attraverso la sua organizzazione autonoma nelle assemblee generali di fabbrica, coordinate e centralizzate attraverso delegati eletti e revocabili. Questa linea tattica trova la sua convalida nella esperienza storica e nelle tendenze già chiaramente espresse in grandi episodi di lotta di classe, ultimo dei quali l'agosto polacco 1980. Ma l'obiettivo tattico indicato non può essere considerato, di per sé, un passo in avanti, solidamente acquisibile nel processo rivoluzionario. La stessa esperienza polacca ha dimostrato al di là di ogni equivoco, che se il movimento proletario consegue quell'obiettivo indipendentemente da una strategia complessiva di attacco al potere borghese, esso viene rapidamente riassorbito dal suo stesso interno, rifluendo in una nuova esperienza di direzione socialdemocratica e borghese della classe operaia (dal coordinamento nazionale di Danzica, al sindacato cripto-cattolico di Solidarnosc).

Non inscriviamo, dunque, nel programma comunista le nostre tesi e linee tattiche, ma subordiniamo queste a quello, nella consapevolezza che l'esistenza e l'orientamento dei Soviet secondo il programma comunista, date le caratteristiche della formazione capitalistico-borghese avanzata, sono possibili solo a partire da queste acquisizioni tattiche.

Nel definire le linee tattiche generali della politica comunista nei paesi periferici dovremo fare i conti in primo luogo con le nuove forme dell'opportunismo riformista in veste "rivoluzionaria", che assegnano al partito comunista compiti programmatici diversi, arretrati e inferiori rispetto a quelli propriamente comunisti e che, quindi, sostituiscono al programma comunista programmi ancora borghesi.

Dovremo fare ciò non per il gusto estetico dell'ortodossia formale e linguistica ma nella consapevolezza che il programma di un partito è l'ossatura teorica sulla quale si formano e maturano i quadri e l'organizzazione, i quali ad esso si conformano e quello perseguono. Se e quando il programma non è il programma comunista, quadri ed organizzazioni non potranno muoversi su linee comuniste e nel momento in cui il loro programma contraddice nella attualità del movimento e dello scontro le linee di azione comunista, quadri e organizzazione seguiranno più facilmente quello che non queste.

Dovremo quindi rielaborare e definire i punti che la esperienza della III Internazionale lasciò irrisolti o equivoci.


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Nella ridda di definizioni applicate ai Paesi diversi dalle metropoli imperialiste (Paesi in via di sviluppo, Paesi sottosviluppati, Paesi dominati, Paesi del Terzo o Quarto Mondo, ecc.) si riflette la molteplicità delle risposte ideologiche della borghesia e della piccola borghesia al problema di definire la collocazione di questi paesi nel complessivo quadro del mondo contemporaneo.

Paesi del Terzo Mondo: è la definizione di quanti, direttamente o indirettamente legati alla ideologia borghese più corrente, considerano il mondo diviso in tre grandi campi: quello capitalista (o capitalista avanzato), quello socialista e quello dei paesi né capitalisti (avanzati) né socialisti. Una amplissima letteratura di sinistra comunista ha già in più occasioni fatto giustizia di questa concezione vistosamente ideologica (nel senso peggiore del termine) e tipicamente borghese. Che essa ispiri allo e sia al contempo alimentata dallo stalinismo, è una ovvia verità che, qui, non merita se non la constatazione.

Paesi in via di sviluppo o sottosviluppati: è la definizione che danno quanti, animati da un rassicurante progressismo borghese, considerano l'insieme dei popoli come una collettività che marcia sulle medesime linee di sviluppo e con gli stessi, identici obiettivi, ma in modo differenziato quanto alle velocità di marcia. Il concetto della diversità di storie, di formazioni economiche e sociali di origine, e il concetto di subordinazione imposta dal di fuori da parte del modo di produzione capitalistico giunto alla sua fase imperialista, non sfiorano neppure i sostenitori di questa definizione. Sicuramente, comunque, questi concetti non fanno parte né del loro bagaglio metodologico, né del loro patrimonio teorico, cosicché essi scrivono e parlano, sfornando dati e cifre, di paesi in via di sviluppo premettendo l'ipotesi (per loro l'assioma) che un domani l'Uganda possa divenire quel che è oggi l'Australia.

Paesi dominati: è la definizione invece di coloro i quali, partendo da premesse prese a prestito dal marxismo, sviluppano in modo pericolosamente unilaterale certi concetti di per sé validi (quale il dominio appunto che l'imperialismo esercita su questi paesi) per giungere a conclusioni errate e fuorvianti. Dalla definizione di paesi dominati essi giungono ad ipotizzare la liberazione da quel dominio indipendentemente - almeno per un certo tempo, non è detto quanto lungo - dalla rivoluzione proletaria. Il concetto di paese dominato implica necessariamente quello di paese dominante. Ma una simile dicotomia così delineata, dovrebbe implicare una rigida definizione di attributi, applicati i quali sia meccanicamente riconoscibile e distinguibile il paese dominato e il paese dominante. Ora, se è abbastanza facile definire gli USA o l'URSS paesi dominanti, non altrettanto avviene per paesi come l'Italia, o il Sudafrica.

Sulla base degli stessi argomenti sostenuti dai teorici dei "paesi dominati", esiste un lungo elenco di paesi (dal Venezuela al Brasile, dall'India alla Corea del Sud, dalla Spagna al Sudafrica) per i quali varrebbero entrambe le definizioni: paese dominato dalla centrale imperialista di appartenenza, ma dominante su altri in quanto partecipe alla rete finanziaria internazionale che internazionalmente opera e in quanto possessore di un vasto apparato industriale ad alta composizione organica di capitale.

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Ogni definizione dunque non può essere comprensiva delle molteplicità e complessità dei fenomeni che insieme determinano l'essere di questi paesi. La definizione potrà invece, e dovrà, esprimere solo in linea generale la posizione di questi paesi rispetto alle cittadelle dell'imperialismo. Starà poi alla disamina di questi fenomeni stabilire quali sono i più caratterizzanti la posizione di ciascun paese e quanto pesano sulla loro dinamica economica e sociale e sulla conseguente linea tattica comunista.

Adottiamo la definizione generale di paesi della periferia capitalista, dunque, per distinguerli in linea generale e tutti insieme dai paesi metropolitani e per lasciare così aperta la possibilità di operare le necessarie distinzioni fra di loro, non potendosi certo considerare sovrapponibili le posizioni dell'India con quelle dell' Uganda.

Il concetto di centro e periferia implica ed esprime la concezione marxista del periodo storico attuale come di un periodo in cui l'imperialismo domina in ogni angolo più remoto del globo, avendo sovraimposto a formazioni economico-sociali diverse, genericamente precapitaliste, le leggi del suo mercato internazionale e i meccanismi economici che lo caratterizzano.

I rapporti di produzione all'interno delle piantagioni nigerine non sono ancora quelli tipici del capitalismo (rapporto salariato fra il "libero" lavoratore ed il possessore dei mezzi di produzione-capitali). Ma le piantagioni del Niger lavorano per il mercato capitalista internazionale e la popolazione vive di quanto può acquistare sul mercato capitalista internazionale. Siamo dunque in presenza di un dominio reale del capitalismo, che si esercita su una formazione sociale che non è quella tipica del capitalismo. Il Niger (e moltissimi altri paesi) sono dunque parte integrante del mercato capitalista mondiale, del mondo capitalista, ma sono la periferia di quel sistema che ha al suo centro paesi come gli USA o l'URSS.

La II Guerra mondiale ci ha lasciato in eredità due centri imperialisti: appunto gli USA e l'URSS. Altri paesi (non a caso da definirsi "centrali") aspirano al ruolo di centri autonomi, indipendentemente dalla possibilità di realizzare queste loro tendenze. La Cina appare esserci riuscita brillando quale stella senza pianeti (solo con la guerra mondiale potrà aspirare, dopo aver combattuto a fianco di uno o dell'altro blocco, a farsi centro di una vera periferia). Gli Stati Europei della CEE manifestano talvolta occasionali tendenze al loro interno verso l'autonomia come "terzo centro", con la benedizione della "nuova sinistra", per riconfermare subito nei fatti la loro appartenenza al blocco americano.

Per questo ciclo di accumulazione, giunto ormai al suo periodo conclusivo, i centri sono rimasti due. In preparazione della guerra si tratta, per molti paesi, di definire ancora la propria posizione "per il futuro", ma la loro dinamica sinora è stata interna a questo o quel sistema di relazioni fra centro e periferia.

Moltissimi paesi, quelli più periferici, proprio per questo loro essere periferici, hanno potuto giostrare fra questo e quel "centro" mantenendo una certa equidistanza fra i blocchi, prendendo e dando (soprattutto dando) di qui e di là. Ma sempre hanno mantenuto le loro caratteristiche posizioni nel sistema internazionale del capitalismo. Né l'equidistanza fra USA e URSS, né l'esportare materie prime dagli uni per comprare dagli altri, ha consentito loro di diventare centrali nel sistema mondiale del modo di produzione capitalista.

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La definizione di paesi periferici del sistema imperialista mondiale, consente di definire paese per paese, o gruppo di paesi per gruppo, le coordinate fondamentali per una analisi marxista.

Il centro del sistema capitalista attrae nella sua orbita quei paesi attraverso la esportazione delle merci e dei capitali, la importazione di materie prime e prodotti agricoli, la loro integrazione nel sistema internazionale della divisione del lavoro.

Nel mentre stesso inserisce ciascun paese nel ciclo complessivo di riproduzione e accumulazione di se stesso, il capitalismo esporta in quei paesi le sue proprie contraddizioni. Sovrapponendo se stesso e le sue leggi economiche a formazioni sociali diverse da sé e dalle sue stesse formazioni di origine, il capitalismo imperialista le immette direttamente nel ciclo della sua accumulazione e nell'intreccio delle sue contraddizioni economiche e dei suoi conflitti di classe, soggiogando ai suoi interessi e alla politica della propria conservazione i modi e i rapporti di produzione che trova e che marginalmente mantiene, e le stesse formazioni sociali e politiche che a quei rapporti di produzione tradizionalmente corrispondevano.

È questo meccanismo di dominazione reale del capitale e al contempo di conservazione di antichi e tradizionali modi di produzione e rapporti sociali che ha tratto in inganno intere generazioni di militanti anche di "alta scuola" (quali i bordighisti) facendo loro pensare che la rivoluzione borghese fosse ancora nel necessario divenire storico di molti paesi.

La tesi era che la permanenza di rapporti economici e sociali di tipo patriarcale o comunque precapitalistico in quei paesi significasse il loro mancato ingresso nel mondo del capitalismo e delle sue contraddizioni di classe e quindi la necessità di un appoggio da parte del debole proletariato locale alle rivoluzioni nazionali "antifeudali". Viceversa la permanenza di rapporti precapitalistici e di formazioni sociali e politiche "preborghesi" era necessaria da una parte e funzionale alla dominazione imperialista dall'altra. Necessaria nel senso che la sovrapposizione del capitalismo non è determinata da una pervicace volontà di dominazione politico sociale quanto dalle necessità genericamente economiche del capitale.

Le aree geopolitiche sottosviluppate sono fonte di materie prime e di mano d'opera a buon mercato prima e mercati di investimento di capitali (produttivi o parassitari) dopo. Ciò non poteva né può significare l'immediata borghesizzazione di quelle società, e la rapida trasformazione in senso capitalistico di tutte le attività produttive o genericamente lavorative di quei paesi.

Ma la permanenza di rapporti di produzione sociali e politici precapitalistici è anche funzionale alla dominazione del capitale imperialista perché nel contrasto di condizioni fra il proletariato industriale e le altre masse diseredate, esso si assicura la divisione di classe da un lato e lo scaricamento delle tensioni sociali e politiche sul terreno del progressismo borghese, dall'altro. Ciò significa che in questa apparente contraddizione fra un mondo precapitalista arretrato e un mondo capitalista avanzato il capitale internazionale trova le ragioni e gli strumenti della propria dominazione.

È soprattutto grazie alla permanenza di rapporti patriarcali e alla forza delle istituzioni politiche e amministrative legate alla tradizione sociale e civile di quei paesi, che il capitale internazionale si assicura la solidità del proprio dominio economico.

La graduale (o quando è necessario accelerata) conformazione delle composizioni sociali e delle istituzioni politiche agli schemi classici del capitalismo, è una conseguenza successiva al dominio reale economico del capitale e alla subordinazione delle economie di quei paesi alle leggi internazionali del mercato capitalista.

In conclusione la contraddizione fra dominio capitalista e permanenza di rapporti economici e formazioni sociali precapitalistici non esiste, è bensì condizione di quello stesso dominio.

Fa parte dei paradossi storici di certe forze politiche il fatto che fu proprio il "bordighismo" del 1919-20 a condurre una splendida battaglia - esattamente con queste armi - contro il gramscismo della "Questione meridionale" che vedeva nella permanenza di forme precapitaliste nel meridione d'Italia le ragioni di una politica di "completamento della rivoluzione borghese" che la borghesia italiana avrebbe lasciata incompiuta nelle guerre del 1848-71.

L'eventuale obiezione che in Italia c'era comunque stata una rivoluzione borghese, che aveva soggiogato al dominio della borghesia del Nord lo sviluppo economico del Sud, di fatto impedendo e legando la borghesia agraria del Sud ai meccanismi di valorizzazione complessivi del capitale - mentre nei paesi periferici sarebbe mancata questa rivoluzione borghese - non regge. Il capitalismo imperialista non aspetta le rivoluzioni borghesi per affermare il suo dominio sui paesi periferici. Non sarebbe capitalismo imperialista, non avrebbe, cioè, ancora maturato le condizioni della propria espansione a scala planetaria e non sarebbe ancora entrato nella sua fase storica decadente, poiché avrebbe ancora dinanzi a sé lunghi periodi di espansione; avrebbe ancora davanti a sé il compito storico di "conquistare il mondo".

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Il mantenimento dei vecchi rapporti economici e sociali e la loro subordinazione agli interessi di dominio del capitale imperialista internazionale nei paesi periferici, significa diversità delle loro formazioni sociali e politiche rispetto alle cittadelle metropolitane.

Questa diversità riguarda la composizione delle fasce sociali intermedie fra le due classi fondamentali. Non è diversità delle classi fondamentali e storicamente antagoniste ovunque: proletariato e borghesia.

La diversità delle formazioni sociali è dunque diversità delle forme di dominio e di oppressione della borghesia sul proletariato e sull'intera collettività, ma non nega la presenza delle due classi.

È indubbio che in paesi come il Niger o la Bolivia, non esistono solo il proletariato moderno e la borghesia, esistono bensì altre stratificazioni sociali e di classe, ereditate dalle formazioni sociali precedenti la dominazione imperialista e corrispondenti a diversi modi di produzione precedentemente dominanti (modo di produzione tributario e mercantile semplice). Ma ciò non significa affatto che gli eventuali antagonismi contingenti fra queste stratificazioni e la classe dominante con il suo regime possano far passare in secondo piano l'antagonismo storico fa proletariato e borghesia, nel quale si esprime appunto il dominio del capitale sulla società.

Anche nell'impero zarista russo nel 1917 il proletariato industriale era classe numericamente minoritaria. Ma nessun comunista arrivò a dire (come invece arrivarono i socialdemocratici menscevichi) che per questa ragione la classe proletaria non era ancora classe storicamente fondamentale in quanto antagonista del capitale. Dal punto di vista meramente quantitativo la composizione sociale della Russia zarista era a prevalenza contadina. Ma fu proprio Lenin a dimostrare che lo stesso mondo contadino era ormai del tutto subordinato al capitalismo, essendosi addirittura trasformato nella "sua base più profonda e più salda" ("Lo sviluppo del capitalismo in Russia", Opere Complete, vol. 3, pag. 161).

Tutta la ricerca economica e sociologica anche borghese, indica con chiarezza che le stratificazioni sociali e di classe diverse da quelle tipiche del capitalismo, sopravvivono ma in condizioni di disfacimento tendenziale, in fase per così dire agonica. Ciò che invece tende ad allargarsi è la "miseria e proletarizzazione di strati precedentemente occupati in economie tradizionali di sussistenza o mercantili locali", (vedi: Tendenze generali alla composizione di classe, "Prometeo" n. 8, pag. 8).

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La diversità delle formazioni sociali, il fatto che il modo di produzione capitalista nei paesi periferici si è imposto sconvolgendo i vecchi equilibri e che la sua conservazione si fonda e si traduce in miseria crescente per masse crescenti di proletarizzati e diseredati, l'oppressione politica e la repressione che sono quindi necessarie perché le masse subiscano quei rapporti, tutto ciò determina nei paesi periferici un potenziale di radicalizzazione delle coscienze più alto che nelle formazioni sociali delle metropoli.

Il dominio del capitale in quei paesi non è ancora quel dominio totale sulla collettività, non si esprime nella sussunzione dell'intera società alle leggi e all'ideologia del capitale, come avviene invece nei paesi metropolitani. L'integrazione ideologica e politica dell'individuo alla società capitalista non è, in quei paesi, il fenomeno di massa che è invece nei paesi metropolitani, perché l'individuo sfruttato, immiserito e oppresso non è ancora l'individuo-cittadino delle formazioni capitaliste centrali e originarie.

Questo, a differenza dei paesi metropolitani, rende possibile l'esistenza e la operatività di organizzazioni comuniste di massa.

È ormai consolidata nel patrimonio comunista la tesi che nei centri di originaria formazione capitalista, cioè nei centri metropolitani, il partito comunista, nelle fasi non rivoluzionarie, non può che essere di esigua minoranza.

Il processo controrivoluzionario seguito alla rivoluzione russa e alla ondata rivoluzionaria degli anni 1820 in Europa, trascinando dietro di sé i partiti comunisti e le masse ad essi legate, ha consolidato sul terreno ideologico e politico il dominio del capitale, affermandolo sin sulle coscienze individuali del proletariato, cosicché il capitale, anche nei momenti di crisi del suo ciclo di accumulazione, come l'attuale, trascina la propria, precaria esistenza economica, mantenendo ancora salde le impalcature sociali, politiche, ideologiche entro cui ha ingabbiato l'intera collettività.

I fenomeni di "integrazione" del proletariato, sventolati dai teorici piccolo-borghesi alla Marcuse sin dagli anni Sessanta, altro non sono che le manifestazioni del dominio reale e totale del capitale sulle società avanzate, che, lungi dal cancellare l'esistenza storica della classe e del suo antagonismo, esprimono però la forza della borghesia nell'arte del dominio e della corruzione ideologico-politica.

A voler andare in fondo, i partiti comunisti alla nascita, nel momento cioè della loro rottura con i vecchi partiti socialdemocratici, furono tanto di massa quanto erano espressione di una montata rivoluzionaria nella società.

Non potevano restare di massa e restare rivoluzionari, nella ritirata. Restarono di massa a prezzo della loro stessa ritirata su un piano riformistico ed opportunista.

La parola d'ordine "alle masse", presupposto e base "teorica" dell'immediatamente successivo Fronte Unico, fu lanciata proprio all'inizio della ritirata del proletariato europeo e dovette essere modellata, nelle sue implicazioni politiche, ad essa. Il programma rivoluzionario veniva gradualmente, ma inesorabilmente, abbandonato per un programma riformista, diverso dagli altri solo in quanto si riferiva e si appoggiava al modello e allo Stato russi.

Il rientrare dell'ondata rivoluzionaria significava il rientro del proletariato sotto la direzione ideologica e politica della borghesia. La ripresa della iniziativa di classe dovrà storicamente coincidere con il crollo delle impalcature strutturali e sovrastrutturali della borghesia, in un processo di "ionizzazione sociale" all'interno del quale soltanto si renderà possibile la polarizzazione di classe sul programma comunista.

Questa stessa polarizzazione potrà avvenire alla sola condizione che sia presente ed operante il polo politico ed organizzativo del Partito Comunista, che - proprio per questo - deve strutturarsi ed iniziare ad agire sin d'ora.

Ma tutto questo è anche la ragione per la quale il partito comunista non potrà che essere partito di quadri, di minoranza.

Diverse sono le condizioni dei paesi periferici, dove il capitale non può esprimere il proprio dominio nelle medesime forme in cui lo esercita nelle sue culle, nei suoi centri metropolitani.

Per le ragioni viste ai punti precedenti, la democrazia borghese, l'"arma più efficace della conservazione capitalista", ha, nei paesi periferici, vita precaria e comunque "diversa". Non è l'oppio democratico ad agire sulle masse, nel tenerle ferme e sottomesse, ma la durezza della repressione. Le condizioni materiali di esistenza sono dunque tali da favorire la radicalizzazione delle coscienze e delle stesse lotte, quando si verificano.

Tale potenziale di radicalizzazione facilita la circolazione del programma comunista rivoluzionario. Ciò, ovviamente, non significa identità fra radicalizzazione e coscienza comunista rivoluzionaria, è bene sottolinearlo. Ma resta il fatto che la circolazione del programma comunista all'interno delle masse è più facile e più alto è il "livello di attenzione" riscosso dai comunisti rivoluzionari, rispetto alle formazioni sociali del capitalismo avanzato.

Tali "migliori" condizioni si traducono nella possibilità di organizzare attorno al partito rivoluzionario masse di proletari certamente maggiori di quanto non sia possibile nei paesi centrali.

Organizzare attorno al partito significa costituire organizzazioni di lotta, di intervento, di agitazione, politicamente dirette dal partito comunista e dalle quali il partito comunista trae i suoi quadri militanti e delle quali si serve per la organizzazione e la direzione delle lotte di massa.

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La possibilità di organizzazioni "di massa" dirette dai comunisti non è possibilità di direzione rivoluzionaria sui sindacati in quanto tali. E non deve nemmeno tradursi nella massificazione dei partiti comunisti stessi.

Sarà invece utilizzata per la organizzazione di forti gruppi sui posti di lavoro e sul territorio, diretti dal partito comunista come suoi strumenti di agitazione di intervento e di lotta.

I sindacati, in quanto organi di contrattazione del prezzo e delle condizioni di vendita della forza lavoro sul mercato capitalista, mantengono anche nei paesi periferici le loro caratteristiche generali e storiche.

Pur restando dunque uno degli spazi in cui i comunisti lavorano, intervengono, fanno propaganda e agitazione, - perché in essi è raccolta una massa significativa e considerevole di proletari - non sono e non saranno mai strumenti di attacco rivoluzionario. Non è dunque la loro direzione che interessa ai comunisti, ma la preparazione - dentro e fuori di essi - del loro superamento quali organizzazioni di massa del proletariato, in preparazione dell'assalto al capitalismo.

D'altra parte, il partito comunista, per sua natura e per il suo ruolo, non può ridursi ad organizzazione di massa che, perché tale, esclude, nel regime capitalista, la omogeneità e preparazione, capacità, professionalità dei suoi militanti al livello richiesto. Il partito comunista resta l'avanguardia cosciente del proletariato, l'organizzazione che collettivamente elabora e traduce in indicazioni di azione l'intero programma comunista sulla scorta delle esperienze e delle acquisizioni dell'intero proletariato internazionale, utilizzando il metodo e la dottrina del marxismo.

Le sezioni nazionali nei paesi periferici sono sezioni della organizzazione internazionale, che collettivamente svolge il lavoro di elaborazione teorica e politica di definizione delle linee strategiche e tattiche del movimento; esse, quindi, partecipano a pari titolo e a pari livello delle sezioni dei paesi metropolitani, a tale lavoro. Ciò richiede la omogeneità di preparazione e di qualità dei quadri, che può esserci alla sola condizione che negli organismi di partito si concentrino solo le qualità migliori, i migliori e più preparati quadri del proletariato rivoluzionario.

L'adesione "politica" al programma rivoluzionario, vale a dire l'adesione alle prospettive e alle indicazioni del partito comunista che va oltre la contingenza della lotta e del forte movimento concreto, è la base necessaria alla maturazione degli elementi di avanguardia come quadri comunisti, ma non è di per sé sufficiente. L'orientamento generale verso il programma comunista non si identifica cioè con la qualità del quadro comunista.

È, in fondo, lo stesso problema che si presenta nei paesi avanzati e al quale la nostra corrente risponde con le sue tesi sui "gruppi di fabbrica" comunisti, che raccolgono attorno ai quadri del partito le avanguardie operaie orientate da esso e sotto la sua diretta influenza.

La particolarità dei paesi periferici sta nel fatto che tale condizione si presenta non solo nelle fabbriche e nella ristrettissima (per ora) area di operatività della minoranza rivoluzionaria, in periodo di pace sociale, bensì a scala più allargata sul territorio, nelle città e nelle campagne. In questi paesi per le ragioni viste, si rende dunque possibile la organizzazione di forti gruppi comunisti territoriali. Gruppi territoriali perché raccolgono in massa i proletari, i semiproletari, diseredati sotto la diretta influenza del partito comunista; comunisti perché appunto diretti dalle e secondo le linee comuniste, perché animati e guidati, cioè, dai quadri e dagli organismi di partito.

Coloro i quali pretendono di assimilare tutto nel partito, sono gli stessi che attribuiscono al partito anche il ruolo di costituente dello Stato di dittatura proletaria, sono coloro, cioè, che identificano la dittatura del proletariato con la dittatura del partito. Costoro hanno abbandonato il programma rivoluzionario e lo stesso abc del marxismo, nel momento in cui hanno negato che la rivoluzione proletaria sarà opera del proletariato stesso che non la delegherà a nessuno, neppure al suo partito di classe.

Il comunismo è la vera libertà, la coscienza collettiva delle collettive necessità sociali. È la gestione cosciente da parte delle masse della vita sociale. Le masse dunque lo devono costruire. Il partito le guida politicamente e culturalmente sino alle soglie del comunismo; mai le potrà sostituire né nelle avanzate cittadelle metropolitane né nelle più arretrate e maggioritarie aree periferiche.

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La "borghesia nazionale" di ciascun paese periferico è nazionale solo per l'anagrafe dei suoi membri e per il particolare tipo di istituzioni politiche oppressive di cui si dota contro la "sua" sezione nazionale di proletariato. Ma la borghesia dei paesi periferici rientra, come parte costitutiva, nella classe borghese internazionale, dominante nel sistema complessivo dello sfruttamento perché in possesso dei mezzi di produzione a scala internazionale. Come tale, ciascuna sezione nazionale della borghesia, partecipa alla spartizione del plusvalore internazionalmente estorto al proletariato, con pari responsabilità e pari destini storici, al di là dei rapporti quantitativi.

Volutamente diciamo "in possesso dei mezzi della produzione" e non "proprietaria" perché il termine proprietaria implica la nozione giuridica di proprietà, che può assumere varie forme sino ad apparire negata. E di fondamentale importanza osservare invece che la formale proprietà statale dei mezzi di produzione: a) non elimina i rapporti di sfruttamento capitalistici; b) non elimina la presenza di una classe che materialmente si appropria del plusvalore prodotto. Particolarmente in molti paesi periferici, le scarse industrie non di proprietà multinazionale, sono giuridicamente possedute dallo Stato. Ciò non sminuisce il fatto che esista una classe di capitalisti che dallo Stato riceve in forma di interessi sui conti bancari, consistenti quote del plusvalore prodotto in quelle industrie e che partecipa, con i suoi capitali finanziari, alle avventure del capitale internazionale nel mondo.

Gli sceicchi sauditi o i borghesi algerini, non sono i proprietari giuridici delle fabbriche nei rispettivi paesi, ma partecipano, come azionisti delle multinazionali, allo sfruttamento del proletariato internazionale e, ancora attraverso i propri capitali, reclamandone l'interesse, posseggono e dirigono di fatto le industrie del loro paese.

Inoltre, i capitalisti che in molti paesi periferici posseggono piantagioni e tenute agricole - all'interno delle quali, spesso, vigono ancora rapporti precapitalistici - che producono monocolturalmente per l'esportazione e dalla quali traggono ingenti profitti, pur non investendo nella produzione industriale del loro paese (alla faccia delle teorie mistificatorie sullo sviluppo industriale) partecipano invece al circuito internazionale del capitale finanziario. Essi investono infatti nelle banche e negli istituti finanziari internazionali che a loro volta opereranno nel campo della produzione industriale dove più alta è la redditività, avendo come campo di scelta l'intero pianeta. Questa "borghesia nazionale" é tanto interessata all'uscita dal sottosviluppo e dal dominio dell'imperialismo, quanto lo può essere la borghesia americana. I suoi contrasti (che pur esistono) con la borghesia, per esempio americana, sono di carattere del tutto borghese, nel senso che riguardano le quote e i termini in cui partecipa alla spartizione internazionale dei profitti e degli extraprofitti. Il dissenso fra la borghesia di un paese periferico e la borghesia metropolitana riguarda le condizioni alle quali entrambe partecipano alla spartizione del plusvalore e gli eventuali balzelli che una deve pagare all'altra per sedere al banco di spartizione del bottino. Contrasti ed eventuali conflitti non riguardano e non riguarderanno mai la sostanza dei rapporti di sfruttamento fra lavoro e capitale, che anzi, insieme difendono contro il pericolo rappresentato dal proletariato.

La natura periferica dei paesi, comporta la natura periferica delle rispettive borghesie rispetto alle concentrazioni di capitale metropolitano. Ciò si traduce in una sorta di subordinazione delle une rispetto alle altre e quindi una ovvia tendenza a riscattare la propria condizione, modificando o ribaltando i ruoli. Ma questi ruoli sono pur sempre quelli di sfruttamento del proletariato.

Fino alla seconda guerra mondiale i centri maggiori dell'imperialismo erano in Europa (Gran Bretagna, Francia e Germania). Dalla loro frizione scaturì la scintilla della conflagrazione mondiale. Gli esiti della guerra hanno spostato i centri attorno ai quali gravitano gli intressi imperialisti. Attorno ai due maggiori vincitori (USA e URSS) si é ricostruita la rete dei mille fili che lega ogni paese agli altri, ogni mercato agli altri, ogni borghesia nazionale alle altre, in un unico blocco di interessi. Gli Stati Uniti - in virtù della forza economica accumulata precedentemente, del ruolo di ricostruttori dell'economia occidentale dopo le distruzioni della guerra, della possibilità quindi di rilanciare attorno a sé la rete dei rapporti commerciali ed industriali, - sono ascesi dalla condizione di paese forte, ma non ancora "il più forte", a quella di perno della economia occidentale, che si erge a dominatore del mondo contro il suo concorrente russo, beneficiato nello stesso modo dalla guerra per le aree in cui domina. I rapporti fra la borghesia europea e la borghesia statunitense sono oggi ribaltati rispetto al periodo fra le due guerre. Ma ciò non ha cambiato di una virgola i loro rapporti con il proletariato dei rispettivi paesi ed internazionale. La diversità di rapporti fra queste borghesie e fra le borghesie dei paesi propriamente periferici e quelle metroplitane é puramente quantitativa, nel senso che la borghesia boliviana è molto più tributaria a quella statunitense di quanto non sia la borghesia europea. Ma ciò non toglie nulla al fatto che la borghesia boliviana è tanto interessata alla conservazione capitalista quanto lo é quella americana. Ed essere per la conservazione capitalista non può significare, nella fase imperialista del capitale, che essere per la conservazione dei rapporti imperialisti come tali, nel mondo. Non é interesse né del proletariato boliviano né di quello internazionale, battersi perché la borghesia boliviana, autonomizzandosi dal capitale imperialistico USA, cerchi la strada verso un proprio ruolo più elevato nella gerarchia mondiale.

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Le sezioni di "borghesia nazionale" che per la particolare propria debolezza economica, dovuta ai più diversi fattori, non sono ancora direttamente inserite nei circuiti internazionali del capitale, ovvero non partecipano ancora direttamente allo sfruttamento congiunto del proletariato internazionale, per questo, rivendicano spesso la propria salita al tavolo delle spartizioni. Tale rivendicazione può anche assumere la forma di opposizione al rapporto di dominio che il capitale metropolitano instaura sui loro paesi, in termini economici e quindi politici. Ma questa opposizione non può essere in alcun modo confusa con l'antagonismo storico che oppone proletarito e borghesia, né può in alcun modo essere utilizzata in termini di alleanze di classe nella lotta del proletariato contro il capitale e i suoi centri imperialistici.

Le frizioni e le discordie ad uno schieramento possono essere utilizzate dallo schieramento avversario, in una guerra fra due contendenti; ma ciò non significa alleanza, neppure temporanea, fra un fronte ed una sezione dell'altro. Così i dissidi interni allo schieramento di classe della borghesia nel mondo possono facilitare la lotta del proletariato - nel senso di un relativo indebolimento del nemico in certe congiunture storiche. Ma solo degli opportunisti controrivoluzionari possono pensare che la tattica del proletariato possa consistere nell'alleanza con una parte per sconfiggere l'insieme della classe avversaria. Simili "tattiche" altro non sono che l'asservimento del proletariato agli interessi di una sezione della borghesia, in una dinamica complessiva di conservazione e di rafforzamento del modo di produzione capitalista.

È emblematica, da questo punto di vista la vicenda del Nicaragua. In questo paese le fasce superiori della borghesia erano strette alleate della centrale imperialista americana e perfettamente integrate ai suoi meccanismi di dominio nel Nicaragua e di banditesco sfruttamento nel mondo (i pingui conti nelle banche statunitensi partecipano al pari di tutti gli altri alle banditesche avventure del capitale finanziario nel mondo). Larghi strati di piccola borghesia imprenditoriale, artigiana e intellettuale, vivevano invece in condizione di subordine rispetto al capitale imperialistico americano, al quale pagavano pesanti tributi, in termini di interessi sui crediti privati e di Stato e di sacrifici e autolimitazioni. Per rendersi conto della situazione, basti pensare che il 50% delle azioni del cementificio del Nicaragua, della industria monopolistica dei fiammiferi (Momotombo), la proprietà della maggior parte delle segherie del paese, di 51 allevamenti di bestiame di 46 piantagioni di caffé, dell'impianto di pastorizzazione di Managua e molte altre proprietà erano nelle mani della famiglia di Somoza.

Era dunque naturale che la piccola borghesia nicaraguegna si sentisse oppressa e soffocata nelle sue stesse istanze imprenditoriali dallo strapotere di poche famiglie legate a doppio filo col capitale nordamericano ed operasse quindi per liberarsi dalle une per allentare la morsa dell'altro. Il movimento sandinista fruì in un primo momento dell'appoggio di tutte le fasce di piccola e media borghesia, contro lo strapotere dei Somoza e poté così prendere il potere. Ma per fare cosa? Per tentare una impossibile ricostruzione economica che ridesse fiato allo sviluppo nazionale degli investimenti e della produzione. Tale ricostruzione, tale sviluppo era ormai precluso, senza l'intervento di crediti finanziari e di forniture di tecnologia dai centri metropolitani. Il primo tentativo di rivolgersi all'URSS è fallito, per le oggettive difficoltà sovietiche ad intervenire in quell'area e per i pericoli di scontro diretto con gli USA che ciò avrebbe determinato. Il sostegno di Cuba, non era certo un'alternativa seria, dato lo stato di forte indebitamento dell'isola e la sua stessa condizione di vassallaggio rispetto all'URSS.

La politica sandinista non poteva dunque mantenere compatti dietro di sé i tradizionali partiti in cui si divide la borghesia nicaraguegna: il liberale e il conservatore. Di qui l'inizio delle dissociazioni, prima e delle opposizioni dirette poi, al governo sandinista, e le relative guerriglie aiutate dagli USA. Di qui anche i più recenti tentativi di ripresa di un "dialogo" con il gigante nordamericano. Quel che potrà seguire per il proletariato, ancora una volta, sono solo lacrime e sangue. Esso é stato condotto a sostenere il movimento prima ed il governo sandinista poi, sulla spinta della ribellione alle spaventose condizioni di vita e di lavoro e al regime di feroce oppressione. Ma é stato condotto a sostenere col proprio sangue gli interessi e i programmi di una frazione della borghesia (maggioritaria, almeno nel numero) contro un'altra. Con ciò, in base ai meccanismi citati, é stato oggettivamente condotto anche a servire gli interessi di un fronte imperialista - quello russo - contro l'altro. L'imperialismo, ovvero i rapporti capitalistici giunti alla loro fase ultimale nel mondo, non sono stati neppure scalfiti, né é mutata in alcun modo il rapporto di produzione fra le classi in Nicaragua.

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La tattica del proletariato in fase imperialista esclude dunque nel modo più assoluto qualsiasi alleanza, anche temporanea, con qualunque frazione della borghesia non riconoscendo a nessuna di esse il carattere "progressista" o anti-imperialista, che altre volte è stato addoto a giustificare tattiche di fronte unico.

Già le Tesi del II Congresso dell'Internazionale Comunista, pur affermando che la "politica dell'Internazionale Comunista deve assumere come base principalmente l'unione dei proletari e di tutte le masse lavoratrici di ogni nazione e paese in una comune lotta rivoluzionaria per abbattere i proprietari fondiari e la borghesia" (Tesi 4), quando poi trattano i rapporti reciproci fra l'I.C. e il movimento rivoluzionario nei paesi arretrati e dominati, affermano che:

per l'abbattimento del capitalismo straniero, che costituisce il primo passo verso la rivoluzione nelle colonie, la cooperazione degli elementi rivoluzionari nazionalisti borghesi é utile.

Tesi integrativa 7 - Tesi e tesi integrative sulla questione nazionale e coloniale del Il Congresso dell'I.C., 28 luglio 1920

Con ciò, come é universalmente riconosciuto da tutte le correnti che in un modo o nell'altro si richiamano alla III Internazionale, le tesi affermano con chiarezza la necessità della alleanza o della collaborazione del proletariato con le forze della borghesia nazionale rivoluzionaria. Fu Lenin a chiarire in sede di Il Congresso le idee direttive delle Tesi:

1. L'idea della distinzione, della divisione dei popoli in popoli oppressi e popoli oppressori ispira tutte le nostre tesi...
2. La seconda idea direttiva delle nostre tesi é la seguente: nella presente situazione internazionale, dopo la guerra imperialistica, i rapporti reciproci fra ipopoli, l'intero sistema mondiale degli Stati sono determinati dalla lotta di un piccolo gruppo di nazioni imperialistiche contro il movimento sovietico e contro gli Stati sovietici, alla testa dei quali si trova la Russia sovietica. Se perderemo di vista questo fatto, non potremo impostare giustamente nessuna questione nazionale o coloniale...
3. La questione del movimento democratico borghese nei paesi arretrati. È appunto questo il problema che ha suscitato qualche dissenso. Abbiamo discusso se sia o non sia giusto affermare sul piano teorico, sul piano dei principi, che l'Internazionale e i partiti comunisti devono appoggiare il movimento democratico borghese nei paesi arretrati. Per effetto di questa discussione abbiamo deciso all'unanimità di non parlare di movimento “democratico borghese”, ma di movimento rivoluzionario nazionale...

Rapporto della Commissione sulle questioni nazionale e coloniale, Op. Compl., vol. 31

La prima "idea direttiva" risponde a criteri propagandistici, in sé certamente validi, che non forniscono però elementi di analisi e di chiarimento dei rapporti specifici fra paesi. La seconda "idea direttiva" é invece quella centrale che consente, proprio nella formulazione che ne dà Lenin, di comprendere lo spirito complessivo delle Tesi, fermo restando il fatto che queste lasciano sostanzialmente irrisolti i problemi centrali. Nello stesso discorso, infatti, Lenin chiarì la prospettiva:

Se il proletariato vittorioso svolgerà fra questi popoli una propaganda metodica, e i governi sovietici verranno loro in aiuto con tutti i mezzi di cui dispongono, é sbagliato supporre che la fase capitalista di sviluppo sia inevitabile per tali popoli. In tutte le colonie e in tutti i paesi arretrati non dobbiamo creare soltanto quadri autonomi di combattenti, organizzazioni di partito, non dobbiamo soltanto svolgere la propaganda per la creazione di soviet contadini e adoperarci per adattarli alle condizioni precapitaliste, no, l'Internazionale comunista deve anche fissare e motivare teoricamente la tesi che i paesi arretrati, con l'aiuto del proletariato dei paesi progrediti, possono passare al sistema sovietico e, attraverso determinate fasi di sviluppo, giungere al comunismo, scavalcando la fase del capitalismo.

L'Internazionale né fissò né motivò più teoricamente una tale tesi, ma é evidente che lo spirito in cui lavorò il II Congresso dell'Internazionale era proprio quello dell'ipotesi di aggancio ai moti di liberazione nazionale da parte dello Stato Operaio russo e della stessa Internazionale in una strategia complessiva (di sostegno economico, politico, ecc. che li mantenesse staccati dal circuito imperialista mondiale) mirante alla loro maturazione in senso socialista. Il fatto stesso di essere aiutati economicamente dallo Stato di dittatura proletaria (la Russia sovietica ed eventuali altri stati progrediti in cui la rivoluzione nel frattempo avesse vinto) e quindi materialmente sostenuti nella lotta contro l'imperialismo, ne avrebbe fatto delle reali forze antimperialiste nella strategia globale della rivoluzione socialista internazionale. È dunque molto vero ciò che sostiene Lenin e cioè che al di fuori della chiara considerazione dell'esistenza della Russia sovietica in lotta contro tutti gli stati capitalisti, non si può "impostare giustamente nessuna questione nazionale". Quantomeno, non è certo possibile pervenire alle conclusioni di quel congresso.

Né va dimenticato che al tempo del Secondo congresso dell'I.C. era assoluta la fiducia nella imminenza della rivoluzione proletaria, perlomeno in Europa. È questa fiducia, presto amaramente delusa, che ispirava a Lenin una tattica così "spinta" da ammettere temporanee alleanze con la borghesia nazionale, nella lotta contro gli stati capitalisti europei: sarebbero state forze in più per l'attacco frontale al capitalismo occidentale che sarebbero presto divenute facili avversari della marcia internazionale al socialismo "scavalcando - appunto - la fase del capitalismo" nei paesi arretrati.

Questa fiducia nella imminente rivoluzione europea, questa sicuramente audace e tagliente prospettiva tattica di Lenin, spiega coerentemente la terza "idea guida" delle tesi congressuali.

Al II Congresso, infatti, la discussione avviata in sede di commissione fra le tesi di Lenin e quelle dell'indiano Roy (che insisteva sulla distinzione fra il movimento nazionalista democratico borghese e "la lotta dei contadini senza terra contro ogni forma di sfruttamento") fu superata attraverso un artificio verbale. L'espressione "democratico-borghesi" originariamente usata da Lenin in riferimento ai movimenti di liberazione nazionale, fu sostituita con quella di "rivoluzionari". A seguito della discussione, é lo stesso Lenin a dire che:

abbiamo deciso di non parlare di “movimento democratico borghese”, ma di movimento rivoluzionario nazionale.

Lenin riconosce implicitamente nello stesso discorso che forse non é corretto...

sul piano dei princìpi che l'Internazionale e i partiti comunisti devono appoggiare il movimento democratico borghese.

Ma l'urgenza "unanimamente" riconosciuta era di legare in qualche modo quei movimenti al processo rivoluzionario che si riteneva in atto e montante nei paesi avanzati. L'approfondimento teorico viene demandato dallo stesso Lenin a lavori successivi dell'Internazionale. La rivoluzione non ci fu. L'Unione Sovietica sviluppò una sua politica nazionalista sulla base del Capitalismo di Stato e piegò ai suoi interessi la sua politica internazionale e quella della stessa I.C.

Il III Congresso ignorò praticamente la questione. Il IV cominciò a consolidare invece il contenuto peggiore delle ambigue tesi del II Congresso, verso la tragedia cinese, verso la assiomatizzazione del "leninismo" e del sostegno a qualunque movimento nazionale in qualche modo funzionale agli interessi russi. Ciò che si avviò come una debolezza teorica, come un equivoco politico di prospettiva, si trasformò in una teoria a sostegno di una politica di conservazione imperialista. Il problema che si poneva allora rimase teoricamente irrisolto: può la "borghesia nazionale" nell'epoca dell'imperialismo e in paesi in cui il capitalismo é appunto "importato", svolgere un ruolo rivoluzionario in qualche modo inseribile nella strategia rivoluzionaria del proletariato internazionale? Sul piano politico concreto a tale quesito si rispose con un opportunistico "sì", in spregio al contenuto più valido delle tesi leniniste sull'imperialismo ("L'imperialismo fase suprema del capitalismo"). Queste tesi rispondono infatti "no". La borghesia nazionale dei "paesi arretrati" é tale proprio perché legata per mille fili alle centrali imperialiste e alle loro operazioni finanziarie, industriali e politiche nel mondo. La sua crescita dunque non può avvenire che all'interno della dinamica imperialista, non contro di essa. I suoi antagonismi con questo o quel fronte, con questo o quel paese imperialista, non sono antagonismi di classe, ma sono interni alla dinamica e coerenti alla logica capitaliste.

Le "rivoluzioni nazionali" sono dunque destinate a concludersi sul terreno degli equilibri interimperialistici, con l'assestamento di stati e di governi capitalistici, legati a questo o quel fronte dell'imperialismo. E proprio la Russia é oggi uno dei centri dell'imperialismo.

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Le forze comuniste internazionaliste considerano come avversarie da subito tutte quelle forze borghesi e piccolo borghesi che, in nome del progressismo, dello sviluppo economico o politico democratico, predicano e cercano di praticare l'alleanza di classe fra proletariato e borghesia, la conseguente pace sociale e il rinvio della lotta di classe proletaria.

Respingeranno quindi qualsiasi forma di alleanza o fronte unito, anche temporaneo, teso a raggiungere presunte fasi intermedie fra la attuale situazione di dominio capitalista e la dittatura del proletariato. In caso di sommovimenti che diano luogo a governi e regimi di cosiddetta "nuova democrazia" o "democrazia rivoluzionaria" manterranno il proprio programma comunista e il proprio ruolo antagonista rivoluzionario.

Esistono forze che richiamandosi a quel tipo di leninismo che abbiamo esaminato, sostengono la necessità di appoggiarsi in qualche modo alle frange "rivoluzionarie" della borghesia e della piccola borghesia per costruire una forma di Stato intermedio fra lo stato democratico borghese e la dittatura del proletariato. Esse giustificano tali tendenze, del tutto opportunistiche, con la tesi pretestuosa che il proletariato non sarebbe pronto, in quanto maturazione soggettiva e in base ai rapporti di forza, a svolgere il suo ruolo rivoluzionario autonomo con la sua dittatura di classe.

La nostra corrente ha già avuto modo di criticare e respingere queste posizioni, con le forze che hanno poi costituito il P.C. d'Iran e con quello stesso partito (vedi i documenti della IV Conferenza Internazionale, gli articoli su Battaglia Comunista, Prometeo 8, Workers Voice, Revoluctionary Perspectives, Communist Review, dedicati alla discussione con i compagni iraniani, alcuni dei quali articoli sono stati tradotti e pubblicati in Farsi).

Riportiamo qui solo i tratti essenziali della argomentazione internazionalista.

  1. Una ipotetica impreparazione del proletariato a svolgere il suo ruolo storico, non giustifica la alleanza della sua avanguardia politica con le forze della borghesia giacché tale alleanza non solo non facilita, ma addirittura ostacola la maturazione rivoluzionaria del proletariato.
  2. Lo stato che in caso di sommovimenti e insurrezioni venisse a costituirsi, non essendo Stato di dittatura proletaria, sarebbe uno Stato borghese, che come tale non consentirebbe il miglioramento delle condizioni di vita del proletariato se non per quel tanto che gli consenta di placare le tensioni sociali interne, ma chiedendo in cambio il raffreddamento o la cessazione appunto della lotta di classe, per garantire la continuità produttiva, i livelli di produttività e di redditività delle imprese e della economia in genere, adeguati alla sopravvivenza del paese nel mercato capitalistico mondiale. Tutte le forze politiche coinvolte nell'amministrazione e nella direzione di quello Stato porterebbero la responsabilità di quella politica, inequivocabilmente rivolta contro gli interessi della classe operaia nazionale ed internazionale. Alle forze di "sinistra", anche le più radicali, di quel regime spetterebbe il ruolo appunto di garanti della pace sociale, in nome di quelle stesse "conquiste" democratiche che quello Stato rappresenterebbe. Con ciò quelle forze si porrebbero dall'altra parte del fronte di classe, come vere e proprie forze controrivoluzionarie.
  3. La stessa "immaturità" del proletarito a svolgere il suo ruolo autonomo, significa in caso di una sua alleanza a frange "democratiche" o "rivoluzionarie" di borghesia, la sua subordinazione alla politica borghese stessa. In altri termini, una ipotetica capacità di condizionamento dall'interno del regime "intermedio" da parte delle forze politiche del proletariato non è pensabile se non sulla base di una forza dispiegata del proletariato che verrebbe così del tutto tradita e sviata dai suoi compiti storici rivoluzionari. O il proletariato é forte e fa la sua rivoluzione, o il proletariato é ancora debole oggettivamente e soggettivamente (non avendo ancora solidamente alla sua testa il suo partito) e allora le sue forze politiche operano per il suo rafforzamento nella lotta di classe contro gli Stati borghesi, qualunque forma essi assumano.
  4. Le tesi contrarie, che sostengono la possibilità da parte delle forze politiche di classe di favorire la maturazione delle condizioni rivoluzionarie dall'interno del regime statuale borghese, rientrano del tutto nella impostazione gradualista, sostanzialmente riformista della II Internazionale e del peggiore nazional-comunismo. Non importa quante parole o frasi rivoluzionarie esse pronuncino, le forze che sostengono quelle tesi sono forze opportuniste oggi, scopertamente controrivoluzionarie nel vivo dei movimenti insurrezionali e nei momenti cruciali delle situazioni politiche che si dovessero verificare nei paesi periferici.
  5. Le forze comuniste internazionaliste considerano come proprio compito prioritario la preparazione sul terreno politico ed organizzativo dell'assalto di classe al capitalismo, su scala nazionale in ciascun paese in cui operano, ma nell'ambito di una strategia che veda il proletariato internazionale come il vero soggetto antagonista del capitalismo, capace di abbatterne il dominio per la costruzione della società socialista. Non possono quindi concepire nessun piano tattico che preveda fasi intermedie del processo rivoluzionario verso la dittatura del proletariato in un paese, che prescindano dai rapporti di forza fra le classi a scala internazionale. In una situazione ancora internazionalmente sfavorevole, l'unica "fase intermedia" (che é e deve essere invece dato permanente) è la lotta di classe. Situazioni più favorevoli che non mancheranno di verificarsi, nei rapporti di forza internazionali fra le classi, - nel senso di una dispiegata forza del proletariato impegnata contro la borghesia e i suoi apparati di dominio imperialisti - imporranno alle forze politiche del proletariato la tattica di assalto diretto per la instaurazione della dittatura proletaria.

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Respingere alleanze con le forze liberal-democratiche della borghesia per il mantenimento della più completa autonomia proletaria, verso la dittatura di classe, non significa ignorare o sottovalutare l'importanza delle istanze di libertà e democrazia che nei paesi periferici si levano da ogni strato della popolazione. La medesima condizione di paesi periferici, assegna al dominio del capitale forme e metodi diversi ma omogenei nella comune caratteristica della brutale oppressività. Il dominio del capitale in quei paesi si esprime e si mantiene attraverso l'esercizio della repressione violenta e della negazione delle libertà più elementari sulle quali il modo di produzione capitalista ha fondato la propria affermazione nelle sue metropoli di origine. La rivendicazione delle libertà elementari (di parola, di stampa, di organizzazione) e di forme di vita più democratica, sorgono naturalmente nel processo della vita sociale di quei paesi e come tali vanno dunque considerate.

I marxisti sanno distinguere, a differenza degli intellettuali radicali della piccola borghesia, fra movimenti sociali per le libertà e la democrazia, e forze politiche liberal-democratiche che di quei movimenti si servono per la conservazione del capitalismo. I movimenti di massa per la parità razziale, ad esempio, nel Sudafrica non sono dovuti alla presenza delle forze democratico-borghesi che, per ora, ancora li controllano. È vero bensì l'inverso: la forza e la capacità di presa delle forze politiche democratico-borghesi sono dovute all'esistenza di movimenti reali di massa che spontaneamente si esprimono contro il pesantissimo stato di oppressione razziale. Non é politica comunista ignorare questa elementare verità per condannare, insieme alla direzione politica, l'intero, materiale movimento sociale e le sue stesse rivendicazioni.

Non é da comunisti, dunque, ignorare nella agitazione, nella propaganda e nella lotta politica le rivendicazioni immediate che il proletariato dei paesi periferici esprime reagendo alla condizione materiale; così come non é da comunisti ignorare nei paesi metropolitani le rivendicazioni immediate, economiche del proletarito, con la scusa che non negano di per sé il modo di produzione capitalista.

Così come le rivendicazioni operaie, pur nella loro intrinseca natura tradeunionistica sono la condizione materiale in cui si rende possibile la crescita rivoluzionaria, così ogni lotta materiale che nei paesi periferici si determina in risposta alle condizioni concrete di vita sociale e civile può e deve essere il terreno di intervento e di lotta politica delle forze rivoluzionarie.

La natura "politica" delle istanze di libertà espresse dai movimenti di massa dei paesi periferici non significa l'iscrizione nel programma comunista di obiettivi politici democratici che rinvierebbero il contenuto vero del programma comunista e ricadrebbero nella politica opportunista sopra denunciata.

Ma non significa neppure che il partito politico del proletariato le debba ignorare escludendole dal proprio armamento tattico, di agitazione, di organizzazione e di lotta politica.

Le istanze e le rivendicazioni di libertà e di democrazia devono dunque essere considerate nella definizione di linee tattiche, delle parole d'ordine di lotta immediata, negli slogan agitatori verso la generalizzazione e la radicalizzazione delle lotte, in stretta connessione con rivendicazioni, linee tattiche e slogan agitatori della lotta economica, in modo da rendere materialmente praticabile la penetrazione e lo sviluppo del programma propriamente comunista all'interno delle masse proletarie e diseredate.

La libertà di circolazione, la parità di diritti fra le razze, la libertà di pensiero e stampa, non sono di per sé obiettivi dei comunisti. Esse sono obiettivi democratico-borghesi. Ma in quanto la loro mancanza grava pesantemente sulla condizione dei proletari, esse verranno agitate dai comunisti che denunceranno a tal proposito la verità: responsabile di quella mancanza di libertà é il capitalismo. È il dominio del capitalismo - liberale e democratico nelle sue metropoli - che nega libertà e democrazia nelle aree periferiche. Perché quelle libertà vengano solidamente e per sempre assicurate alle masse oggi sfruttate é necessario abbattere il capitalismo. Quindi:

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I comunisti internazionalisti nei paesi periferici non inscriveranno nel loro programma il raggiungimento di un regime che assicuri le libertà elementari e le forme di vita democratica, ma il raggiungimento della dittatura del proletariato, che supera quelle libertà borghesi per assegnare al proletariato organizzato nei suoi consigli il compito della emancipazione della intera società dalle catene del capitale.

Si faranno i difensori più decisi e conseguenti di quelle libertà, smascherando le forze borghesi e piccolo-borghesi che, agitandole per rivendicare un regime democratico borghese, si preparano a negarle subito dopo, negli interessi e secondo le necessità della dominazione del capitale nei paesi avanzati.

I casi dell'Iran e del Nicaragua sono significativi della fine che fanno le chiacchiere democratiche e liberaloidi delle forze nazionaliste, borghesi. In entrambi i casi, infatti, le forze attualmente al potere si sono servite di programmi democratici e liberali contro le precedenti dittature, dello scià e somozista, per costituire regimi borghesi che hanno immediatamente negato quelle libertà che promettevano, prima fra tutte quella del proletariato di difendere i suoi interessi contro il capitale.

Ciò era inevitabile, considerato che per reggersi in piedi dal punto di vista economico quei regimi dovevano continuare a garantire la spremitura del proletariato e il mantenimento della miseria delle restanti masse oppresse. Con quali capitali potevano garantirsi la continuità e lo sviluppo della produzione, se scoraggiavano i capitalisti dall'investire, con l'aumento dei salari, l'imposizione di condizioni di lavoro accettabili e di regolari misure di sicurezza? Con quali dollari potevano reggere i propri Stati senza garantire la continuità dei rapporti di scambio fra agricoltura e industria con il relativo affamamento dei piccoli contadini e le paghe da fame dei salariati agricoli e braccianti? E con quali mezzi se non con quelli della oppressione politica e della più dura repressione potevano garantire tutto ciò? La loro stessa natura borghese, la loro necessità e volontà di rimanere nel mercato imperialista mondiale, nega e negherà sempre nei fatti i programmi democratici delle forze nazionaliste-borghesi.

Le forze comuniste nel mentre stesso rivendicano le elementari libertà negate dai regimi dei paesi periferici, non promettono liste di diritti da conseguire attraverso l'instaurazione di "democrazie rivoluzionarie", "nuove democrazie" o qualunque altra formula che nasconda lo Stato borghese, né promettono "socialismi" in cui lo Stato, lungi dall'essere la centralizzazione della organizzazione di classe armata, si appropria dei mezzi della produzione per continuare ad amministrarli secondo gli stessi criteri dei privati capitalisti, pur sempre all'interno del mercato imperialista mondiale.

I comunisti internazionalisti propagandano, fanno circolare e rafforzano nella classe il programma della rivoluzione proletaria, indicano in esso solo la salvezza del proletariato e delle masse oppresse dalla fame, dalla miseria e dalla oppressione che la dominazione del capitale sulla società genera.

Sulla base di questa agitazione e di questa propaganda organizzano le avanguardie proletarie radicate nelle masse, le quali si porranno alla testa di tutti i movimenti di protesta e di lotta che l'oppressione stessa genera nella società, per guidarli verso la crescita e la maturazione rivoluzionaria in stretto coordinamento con le altre sezioni nazionali di classe, le loro espressioni politiche rivoluzionarie e la loro direzione internazionale.

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Di fronte ai residui movimenti propriamente nazionalistici, i comunisti distinguono l'espressione nazionalista del movimento dalle sue ragioni profonde, ancora una volta individuabili nello stato di profonda oppressione e miseria che la occupazione o la diretta dominazione straniera genera sulle masse.

Sulla base di questa distinzione, denunciano il carattere borghese del nazionalismo, la sua impotenza a risolvere la situazione di miseria e di supersfruttamento delle masse indigene proletarie e diseredate. Sulla base e a sostegno di quella denuncia, i comunisti internazionalisti agitano nelle masse la lotta concreta contro lo stato di oppressione e di supersfruttamento, in stretta sintonia con le generali rivendicazioni di classe operaia. Il lavoro di agitazione, propaganda e lotta politica su questi problemi porterà ad accentuare i caratteri di classe del movimento di lotta e quindi la sua unità di fondo con le lotte proletarie nei paesi oppressori, contro l'accentuazione impressa dalle forze borghesi sul nazionalismo e quindi l'intrinseco antagonismo fra interi popoli al di qua della loro divisione in classi.

Ancora una volta, i movimenti di massa nazionalistici non sono il portato dell'esistenza di forze borghesi nazionaliste (come quella dell'OLP e di un capitalista come Arafat) bensì sono dovute all'ampia disponibilità alla lotta delle masse oppresse, diseredate e supersfruttate sulla quale il nazionalismo borghese poggia la sua propaganda e il suo lavoro organizzativo per prenderne la direzione.

Le forze borghesi nazionaliste, nei loro programmi, indicano come soluzione ai drammatici problemi delle masse la conquista della propria identità nazionale e della propria sede territoriale, sulla quale garantire eguaglianza dei diritti, libertà di circolazione e in genere le libertà democratiche borghesi, che basterebbero, secondo loro, ad assicurare lo sviluppo e quindi il benessere per tutti.

Esse legano al proprio carro politico le stratificazioni sociali e politiche che vorrebbero lottare contro l'imperialismo, accentuando i toni della propaganda parolaia contro l'imperialismo, per alimentare l'illusione che la liberazione nazionale, o comunque il conseguimento degli obiettivi nazionalistici, mini in qualche modo le basi dell'imperialismo, indebolendolo nei rapporti complessivi con le forze rivoluzionarie.

Tale mistificazione poggia sulla tesi ideologica e controrivoluzionaria che l'imperialismo sia solo quello USA. Con ciò é giustificata anche l'alleanza (ovvero la subordinazione politica) all'altro schieramento dell'imperialismo: l'URSS e il suo "campo socialista". Ciò é dunque la copertura ideologica dell'inserimento di quei movimenti politici alla direzione dei movimenti sociali nella dinamica mondiale dei conflitti interimperialistici, nella quale tali movimenti fungono da pedine.

La soluzione nazionale, viceversa, non garantisce affatto la soluzione dei problemi ai quali rispondono i movimenti di massa in quei paesi.

  1. La creazione di uno Stato nazionale a carattere borghese, ripropone i medesimi problemi. Continua infatti il doppio sfruttamento al quale reagiscono le masse in lotta: non più nelle forme distinte di dominio e sfruttamento economico della forza di occupazione o di dominazione politica e sfruttamento diretto dei capitalisti in quanto agenti del capitale - bensì nella forma unificata di sfruttamento delle masse operaie e contadine da parte di un capitale ora in veste nazionale, ma che continua ad obbedire alle leggi della divisione internazionale del lavoro e del mercato internazionale del capitale finanziario.
  2. La creazione di uno stato nazionale, proprio perché avviene sotto l'egida e col sostegno di uno dei fronti dell'imperialismo, non ne mina affatto le basi e non ne modifica i rapporti di forza col proletariato internazionale.
    Al contrario, l'unità delle masse sotto la bandiera nazionalista e dietro le direzioni politiche nazionali alleatesi con una o l'altra delle centrali imperialiste, rinforza il dominio imperialista stesso, in quanto sottrae al loro ruolo di antagoniste del capitale intere sezioni nazionali di classe proletaria. Ciò è tanto più vero in quanto all'obiettivo nazionalista vengono subordinati tutti gli aspetti del movimento di massa, negando spazi e diritti alla lotta proletaria contro i capitalisti e l'immediato sfruttamento borghese.
  3. La soluzione nazionale di per sé, con la creazione di uno Stato non importa quanto democratico, nel mentre cozza con gli interessi dello Stato precedentemente occupante o dominante, favorisce gli Stati avversari sul piano della concorrenza imperialista per la spartizione del mondo in zone di influenza economica e politica. L'uscita dalla periferia di un blocco, se indebolisce questo, rafforza quello avversario, che immetterà il nuovo Stato nelle proprie orbite periferiche.
    Quanto é avvenuto nei più recenti decenni in Estremo Oriente, come in Africa e in Sud America é di monito agli internazionalisti d'oggi e ai "rivoluzionari" di ieri che ora ripercorrono per la Palestina le tappe percorse dai "gauchistes" per il Viet-Nam o per Cuba.

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Le organizzazioni comuniste nei paesi in cui è ancora vivo il "problema nazionale" non utilizzeranno dunque le rivendicazioni nazionali nella loro tattica di agitazione e propaganda, ma riprenderanno, anche nel lancio delle parole d'ordine e delle indicazioni di lotta, i problemi di fondo, legati alla condizione materiale delle masse oppresse, che le forze politiche nazionalistico-borghesi strumentalizzano ai loro fini controrivoluzionari.

Ai proletari e ai diseredati ai quali l'occupazione straniera appare come la causa dei loro mali, i comunisti non indicheranno la conquista dello stato nazionale bensì la conquista di più umane condizioni di vita e di lavoro, l'unità di classe con i proletari di lutti i paesi, verso il comune obiettivo della dittatura del proletariato e del socialismo internazionale.

La questione palestinese, è quella sulla quale sono definitivamente inciampati i rivoluzionari equivoci di ieri, ormai caduti nella palude del più classico opportunismo. Ai gruppi e correnti che hanno definitivamente abbandonato l'internazionalismo per aderire al nazionalismo borghese, è apparso che il problema centrale in Palestina fosse la riconquista dello stato nazionale per i palestinesi, alla quale subordinare tattiche, parole d'ordine, indicazioni politiche e alleanze.

Alla loro ideologia e mentalità idealista, è sembrato che la solidarietà attiva con le masse palestinesi disperse e diseredate dei proletari europei, attraverso la lotta contro le operazioni economiche, politiche e militari condotte dagli Stati occidentali, dovesse significare adesione ai programmi nazionalistici delle forze dirigenti palestinesi (salvo le critiche di facciata che ingenuamente ancora rivolgono). Con ciò hanno posto la "distruzione dello Stato di Israele" come obiettivo irrinunciabile alla lotta comunista in quelle zone.

L'esame marxista dei fatti, delle forze in campo e delle linee di tendenza, indica invece che:

  1. La formazione di uno Stato palestinese autonomo presuppone l'esistenza delle forze economiche e finanziarie autonome. Al di là della ricchezza finanziaria della borghesia palestinese, queste forze non esistono. Si pensi per esempio alla necessità di un apparato industriale e alle relative tecnologie in una condizione geografica e sociale quella palestinese. Tali forze andrebbero quindi cercate presso chi ne dispone: l'uno o l'altro dei fronti imperialisti. Di qui discende l'impossibilità dell'autonomia e l'asservimento all'uno o all'altro fronte dell'imperialismo.
  2. La distruzione dello stato di Israele non é possibile a meno di uno sconvolgimento degli equilibri interimperialistici, con l'intervento diretto dell'URSS, che porterebbe direttamente alla Terza Guerra Mondiale (e non è escluso che questa parta proprio da quelle zone e a partire da simili iniziative).
  3. Una simile "tattica" é subordinata non alla strategia rivoluzionaria del proletariato, dunque, bensì alla strategia di conservazione capitalista e alla dinamica dei conflitti interimperialistici verso il terzo conflitto mondiale.
  4. A quella "tattica" sono invece subordinate le possibili e necessarie lotte dei proletari palestinesi, dispersi nel mondo arabo, nel senso che esse vengono indirizzate nel raggiungimento dell'obiettivo nazionalista, in linea con gli interessi dei paesi arabi nemici dell'espansionismo sionista e ben lieti di evitare al proprio interno quelle lotte operaie e proletarie che la presenza palestinese, invece, con la sua carica di disperazione e di rivolta, spesso determina.
  5. Tale "tattica" dunque, nel mentre nega di fatto lo spiegamento di forze nella battaglia contro lo sfruttamento capitalista delle masse palestinesi - che i rivoluzionari possono coordinare con quelle analoghe del proletariato israeliano oppresso dal peso economico della crisi mondiale e dalla guerra permanente - subordina la forza e la capacità di lotta delle masse palestinesi agli interessi microimperialistici, di egemonia regionale, degli Stati arabi e delle rispettive borghesie.
  6. È invece possibile, ed è dovere dei comunisti internazionalisti, combattere lo stato di miseria e di super-sfruttamento della diaspora palestinese, guidandone le lotte contro il vero responsabile, il modo di produzione capitalista giunto alla sua fase imperialista e decadente.

Nei diversi paesi arabi, come nella stessa Israele, i palestinesi vivono le più drammatiche condizioni di sfruttamento e di oppressione imposte dal capitale in tutte le sue espressioni nazionali.

L'indubbia natura brigantesca dello stato di Israele, artificiosamente creato dall'imperialismo occidentale all'uscita della seconda guerra mondiale, non lo rende uniclassista: anche in Israele il proletariato vive in condizioni di sfruttamento e di oppressione crescente in proporzione al crescere della crisi internazionale. Le lotte dei proletari israeliani (arabi e non) e le lotte dei lavoratori palestinesi immigrati nei vicini stati arabi, sono le lotte di una medesima classe contro una medesima classe borghese.

Su questa unità materialmente data, si può e si deve costruire l'unità politica dei rivoluzionari, delle avanguardie di classe, per guidare all'unità delle masse proletarie per l'assalto al capitale e ai suoi Stati.


A quanti volessero accusare queste posizioni di socialsciovinismo, eurocentrismo, o simili calunnie, ricordiamo che i comunisti non cessano un solo momento di lottare contro la propria borghesia e le sue operazioni imperialistiche nel mondo. Ma la lotta contro la borghesia metropolitana e le sue avventure, la denuncia e la opposizione di lotta alle operazioni politiche e militari contro le nazionalità oppresse, non deve mai significare la solidarietà con le forze politiche nazionaliste.

Quegli stessi che sproloquiano di diversità delle tattiche per giungere alla solidarietà con i movimenti nazionalisti palestinesi e all'OLP, non capiscono cosa significhi proprio la diversità delle tattiche. La loro diversità di tattiche si trasforma in diversità di strategia, ovvero in confusionismo opportunista.

La strategia comunista é invece unica: abbattimento del capitalismo, instaurazione della dittatura del proletariato, costruzione del socialismo. Le tattiche concrete possono apparire diverse, perché diverse sono le condizioni materiali in cui si lotta e diversi sono i rapporti di forza fra gli stati in cui si opera. Diciamo che possono apparire, perché in sostanza anche le tattiche sono uguali, in quanto uguale è l'opposizione al nazionalismo, comunque si presenti.

Nei paesi metropolitani opposizione alla propria borghesia non può non significare opposizione alle sue operazioni imperialistiche nel mondo; così come, nei paesi periferici, opposizione alla propria borghesia non può non significare opposizione alle sue mire nazionalistiche, alle quali vuole subordinare il proletariato. Contro le spedizioni in Libano sono gli internazionalisti di Gran Bretagna, Italia o USA, come gli internazionalisti libanesi.

Né per gli internazionalisti occidentali né per quelli arabi, l'obiettivo é la distruzione dello Stato di Israele per la costruzione di uno Stato palestinese. Ma per gli internazionalisti europei si tratterà di negare con la lotta il diritto della borghesia metropolitana di regolare con le armi i suoi interessi imperialistici; per gli internazionalisti arabi si tratterà di negare alle borghesie locali di servirsi delle armi occidentali per regolare i suoi rapporti interni, di denunciare quindi tali manovre per volgere la lotta contro l'intera borghesia, a partire dalle rivendicazioni immediate di classe, evitando l'impegno diretto nella guerra interborghese.

Sarà compito delle forze internazionaliste definire nei particolari, a fronte della concreta situazione e delle sue dinamiche reali, le linee di agitazione, di intervento e di lotta, che potranno non escludere il ricorso a forme di lotta armata contro questa o quella presenza borghese in quella tormentata zona.

Ma é certo che quelle tattiche non volgeranno alla conquista dello Stato palestinese a vantaggio dei ricchi borghesi dell'OLP, bensì al rafforzamento del proletariato, nella sua completa autonomia di classe, contro il dominio del capitale in tutte le sue manifestazioni economiche, politiche e statuali, per il comunismo.

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Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.