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Home ›Sul vertice di Barcellona
Le bugie della “sinistra”
In occasione del vertice di Barcellona dell'Unione Europea, conclusosi il 17 marzo scorso, Cofferati ha dichiarato che:
è indispensabile che si consolidi il modello sociale europeo.
il Manifesto, 15-3-02
Infatti, all'ordine del giorno, oltre alla contrastata questione della liberalizzazione del settore energetico (in primo luogo dell'elettricità) c'era anche quella del mercato del lavoro, vale a dire l'obiettivo di uniformare la legislazione europea riguardante il lavoro dipendente. Anche su questo aspetto si sarebbe manifestata, se non proprio uno scontro, almeno una notevole divergenza di opinioni tra l'ala neoliberista (Spagna, Italia, Gran Bretagna) e quella “sociale”, più attenta - così si pretende - ai diritti dei lavoratori e dunque più cauta nel dosare la medicina economica diretta a sviluppare più flessibilità, più produttività, più rispondenza alle esigenze dell'impresa, la cui traduzione, come ben si sa, vuol dire precarietà, insicurezza, abbassamento dei salari, taglio delle pensioni. In realtà, le indicazioni di politica sociale uscite dalla città spagnola, a parte una del tutto ininfluente diversità di toni, sono ben chiare e concordi nel loro carattere nettamente antiproletario, come, del resto, era assolutamente ovvio che fosse.
Il capitalismo europeo, al di là delle scontate particolarità regionali, è impegnato in una più o meno sorda, ma acutissima, lotta concorrenziale coi suoi diretti avversari, cioè, in primo luogo, col capitalismo made in USA, che prima degli altri ha devastato la propria classe operaia con licenziamenti massicci e un'altrettanto massiccia precarietà data dal dilagare dei bad jobs (cattivi lavori: bassi salari, orari impossibili, incertezza del domani, strapotere padronale). Non solo, ma il padronato europeo - ossia l'UE - ha molto meno spazio di manovra nell'appropriazione parassitaria della ricchezza mondiale di quanto ne abbia invece il capitale yankee, grazie al dollaro e al suo enorme arsenale militare. Da qui, dunque, la necessità di accelerare l'americanizzazione della forza-lavoro europea, spogliandola di quelle sia pur deboli tutele frutto dell'epoca storica - ormai tramontata - di espansione del capitalismo mondiale.
Quali sono, infatti, le raccomandazioni partorite a Barcellona?
- Sviluppare la contrattazione territoriale e locale per tenere conto delle diversità dei vari mercati del lavoro; legare gli aumenti salariali alla produttività dell'impresa.
- “Scoraggiare” - come recita l'ipocrita linguaggio borghese - l'uscita anticipata dal lavoro degli occupati più anziani, vale a dire elevare l'età pensionabile.
- Dare più spazio alla “formazione permanente”, ritenuta l'asso di briscola per quei lavoratori che non vogliono trascorrere una vita da “perdenti” in un mondo che richiederebbe capacità di adattamento, autoimprenditorialità, disponibilità al cambiamento, e via mistificando...
Come si può notare, è esattamente quello che i governi europei, nessuno escluso, stanno facendo da parecchi anni a questa parte e, se mai, le differenze nelle politiche del lavoro riguardano più la forma, i tempi di attuazione delle misure antioperaie che non la sostanza. Infatti, basta dare un'occhiata, sia pure veloce, a quanto sta accadendo oltre le Alpi per rendersi conto che l'idea di un'Europa “sociale” da contrapporre orgogliosamente agli Stati Uniti ha sempre meno a che vedere con la realtà vera (ammesso che prima lo sia stata; ma questo è un altro discorso ancora) grazie anche al contributo determinate dei sindacati.
Lasciando da parte i governi schierati più apertamente col cosiddetto fronte liberista, guidato però dal laburista Blair tanto ammirato dal D'Alema presidente del consiglio (non era stato D'Alema a dire “scordatevi il posto fisso!” o “l'art. 18 si può modificare”?), è proprio il paese capofila della sedicente Europa “sociale” - la Francia - a confermare come il capitalismo per poter sopravvivere non possa fare altro che andare all'attacco delle condizioni di esistenza della forza-lavoro. Anche quei provvedimenti che in apparenza vanno incontro alle più elementari esigenze di chi lavora, in realtà comportano tali e tante contropartite che, come si usa dire, la cura risulta peggiore del male. Ci stiamo riferendo alla legge sulle 35 ore varate dal governo del socialista Jospin, il governo della cosiddetta “sinistra plurale”, che manda i suoi rappresentanti al Forum Sociale Mondiale di Porto Alegre ed è guardato con interesse dai neo-rivoluzionari (si scherza, naturalmente) di Rifondazione. A qualche anno dall'entrata in vigore, ancora non interessa tutti i lavoratori dipendenti, ma, in compenso, ha introdotto, come prevedono gli accordi, più flessibilità e concorre a produrre una stagnazione o un abbassamento dei salari, grazie, in gran parte, all'annualizzazione dell'orario di lavoro. Per chi non ci legge abitualmente, è utile ricordare che l'annualizzazione è uno dei sistemi più efficaci escogitati dai padroni per migliorare il rendimento aziendale, cioè per “ottimizzare” lo sfruttamento della forza-lavoro. L'orario di lavoro è calcolato su base annua, per cui può capitare che un mese si lavori dieci ore al giorno, sabato compreso, e un altro - quando il mercato è fiacco - si lavori fino al venerdì per sei ore giornaliere; l'importante è che in un anno venga raggiunto quel determinato numero di ore, pagate però sempre allo stesso modo. Scompaiono così le maggiori spese dovute allo straordinario (ma non lo straordinario, che, anzi può essere legalmente aumentato) e il padrone può allargare o restringere l'orario a suo piacimento, evitando ingolfamenti o, al contrario, giri a vuoto del flusso produttivo. Ma non è finita qui. Il governo finanzia le 35 ore con sgravi fiscali e incentivi vari a favore delle imprese, per un ammontare di 15 miliardi di euro all'anno (c'è chi dice 5 miliardi). In pratica, il proletariato francese, tramite le tasse, sovvenziona di tasca propria la riduzione d'orario che, tra l'altro, ha prodotto un numero di nuovi posti di lavoro molto al di sotto delle aspettative della “sinistra plurale”. A questo aggiungiamo che anche in Francia, ormai, si sta imponendo una drastica revisione dei criteri con cui vengono assegnati i sussidi di disoccupazione, anzi, della gestione stessa della disoccupazione, con il cosiddetto sistema del workfare, in vigore da tempo in Gran Bretagna e indicato dagli ideologi della borghesia come la bacchetta magica per scuotere dalla “pigrizia” i disoccupati. Finora la legge francese prevede che il sussidio cali progressivamente man mano che si allunga il tempo di disoccupazione; chi non vuole vedersi ridurre l'assegno mensile firma un contratto con il quale si impegna ad accettare qualsiasi lavoro gli venga offerto, anche molto distante da dove vive, né, tantomeno, della stessa qualifica o livello salariale che aveva in precedenza.
È evidente che si tratta di un altro modo per contribuire a ridurre il monte salari complessivo, alla faccia, per altro, della tanto sbandierata formazione e qualificazione professionale.
Insomma, se il proletario spagnolo o inglese piange, il suo compagno francese non è che abbia tanti motivi in più per ridere, anche se la “sinistra” e le sue appendici sindacali fanno di tutto per addolcirgli le pillole amare che gli fanno ingoiare, chiamate col nome di “Europa sociale”.
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