Iraq: si replica Desert Storm

La squallida pantomima degli ispettori Onu è giunta all'epilogo scontato.

"The game is over". Con questa dichiarazione il presidente Bush ha ritenuto di dover commentare l'improbabile versione della situazione in Iraq riguardo la presenza e la produzioni di armi nucleari, di distruzione di massa, e dei presunti collegamenti con Al Qaeda, come da relazione Powell. Ha invitato l'Onu a emettere una seconda risoluzione che soddisfi però le intenzioni bellicistiche degli Usa, ha insomma, dissotterrato l'ascia di guerra.

Una volta scremata la scena mediatica da tutte le menzogne che circondano la crisi irachena, sia di provenienza Usa che casalinga, rimane l'obiettivo unico, vero, che tutto fa muovere, eserciti compresi.

La questione è il controllo petrolifero dei giacimenti iracheni, la supremazia del dollaro negli scambi petroliferi, la rendita parassitaria legata ai prezzi di vendita, l'opportunità di condizionare le altre economie mondiali rispetto agli approvvigionamenti energetici e la gestione strategica di un'area che va dal Golfo Persico al Caspio e di cui l'Iraq è diventato la pedina strategica più importante.

Al riguardo l'aggressività dell'imperialismo americano è direttamente proporzionale alla gravità della sua situazione economica. Più la recessione interna mina i profitti e l'intero andamento economico con gli inevitabili riflessi sul terreno della competitività, più aggressiva si fa la politica estera americana. I dati della crisi sono impressionanti. La bilancia dei pagamenti con l'estero sfiora i 500 miliardi di dollari. L'indebitamento delle imprese è arrivato all'assurda cifra di 3000 miliardi di dollari. La borsa è in caduta libera, il Nasdaq ha perso due anni fa il 75% della sua capitalizzazione e non si è più ripreso. L'Old economy segna il passo in quasi tutti i settori della produzione. La crisi della new economy ha tradito le aspettative anche degli analisti più pessimisti. I consumi interni sono crollati, in aumento ci sono soltanto i disoccupati, l'indebitamento delle famiglie e la spesa militare. In un simile scenario solo l'uso della forza può salvare l'economia americana dallo sfascio. Dalla guerra del Golfo all'Afganistan, dalla guerra del Kosovo alla seconda edizione del conflitto iracheno, l'operatività Usa ha come obiettivo dichiarato quello di estendere la propria supremazia in tutte quelle aree interessanti per le questioni energetiche, determinanti per quelle commerciali e indispensabili per quelle strategiche. Ad aggravare la situazione ci si sono messi due eventi, per così dire, inaspettati. Il primo riguarda il venire meno, anche se soltanto parziale, di un alleato importante quale l'Arabia saudita, gendarme e socio degli Usa nella prima guerra del Golfo Persico, il secondo è la perdurante instabilità dell'Afganistan, nonostante una guerra e la nascita di un governo di comodo che avrebbe dovuto creare le condizioni per lo sfruttamento e la commercializzazione del petrolio caspico.

Proprio per queste ragioni la permanenza al potere in Iraq di Saddam Hussein, voluta dagli stessi Usa a giustificazione della loro permanenza militare nell'area del Golfo, sta diventando inopportuna. Per cui la soluzione bellica contro il regime di Baghdad è diventato un imperativo da risolvere al più presto da soli, o in compagnia di compiacenti compagni di strada.

Inizialmente la risposta dei 15 paesi Ue è stata decisamente contraria. Era palese sino all'evidenza quale fosse la posta in gioco, e l'Europa non poteva permettersi il lusso di lasciare, per l'ennesima volta, mano libera agli interessi energetici americani, anche perché se questa operazione andasse in porto, sarebbe a totale detrimento degli interessi europei. Costringerebbe l'Europa a passare sotto il controllo americano, sia in termini di prezzi che di quantità di petrolio estratto, e, non ultimo, ad accettare la supremazia del dollaro, dovendosene servire per ll'acquisto del petrolio necessario per il loro approvvigionamento energetico, come un dato intangibile dell'attuale quadro delle gerarchie economiche, finanziarie, politiche e militari.

La vera questione, dunque, non è guerra si o guerra no, aggressione militare o pacifismo, né se sono cosa lecita una guerra preventiva e la decisione unilaterale da parte degli Usa di usare la forza contro Saddam Hussein, o la ridicola pantomima sulla ricerca di armi all'interno degli arsenali iracheni. Se le cose stessero in questi termini, la risposta alle prime due domande sarebbe ovviamente negativa, per la terza occorrerebbe affermare che: le uniche armi chimiche di distruzione di massa che il regime iracheno ha avuto a disposizione e che ha usato contro i suoi avversari interni ed esterni sono state fornite, ai tempi della guerra contro l'Iran, dai laboratori inglesi e americani. Il tutto è stato distrutto nel corso della prima guerra del Golfo e non se n'è avuta traccia sino al 1998. Da allora ad oggi è assolutamente impensabile che il regime iracheno, sotto assoluto embargo da quasi 12 anni, con un'economia in sfacelo, senza la possibilità d'importare nemmeno le aspirine, possa aver ricostruito un apparato bellico di una qualche rilevanza. E se, per un'improbabile ipotesi, ciò fosse accaduto, il problema da parte della "Comunità internazionale" sarebbe solo quello di individuarne i nascondigli e di distruggere le armi, punto e basta.

Lo stesso capo degli ispettori Hans Blix, nella sua ambigua relazione, ha ammesso di non aver trovato traccia né di armamenti nucleari né di armi chimiche o batteriologiche di distruzione di massa. L'aspetto ambiguo sta nella seconda parte della relazione in cui si rovesciano i termini della questione quando si dichiara la poca collaborazione ricevuta, e che il governo iracheno non avrebbe dato sufficienti garanzie sul suo programma di disarmo. Tutto ciò il 27 di gennaio; tre giorni dopo, in una dichiarazione rilasciata al New York Times, si è lasciato scappare il commento che "nulla di quello che è stato trovato giustifica una guerra contro l'Iraq". E allora? La risposta è semplice. Per gli Usa portare la guerra nel Golfo per la seconda volta, da soli o a capo di una coalizione di capitalismi straccioni intimoriti dall'aggressività del governo americano, o preoccupati di rimanere esclusi anche dalle briciole del "business" petrolifero, significa avere l'opportunità di gestire tutta l'operazione in termini di quasi monopolio. Per i più importanti paesi europei e la Russia, ricondurre il contenzioso all'interno dell'Onu rappresenta la sola possibilità di contrapporsi allo strapotere Usa. Innanzitutto eviterebbero che l'aggressione all'Iraq, unilateralmente decisa e condotta, con tutti i vantaggi del caso, fosse appannaggio del solo capitalismo americano. In secondo luogo, se guerra deve essere, che sia, ma all'interno dell'Onu in modo che, finita la tragica farsa, anche lo sparpagliato imperialismo europeo possa avere accesso al petrolio iracheno, abbia l'opportunità di pagare in Euro, e soprattutto, sarebbe un'ottima occasione per rompere il monopolio americano nella gestione mondiale del petrolio, un primo passo per una ripresa delle ostilità sulla questione energetica su altri livelli di competizione. Per di più anche il blocco dei maggiori paesi europei non gode di buona salute economica. Ma la lotta tra il grande imperialismo americano e quello europeo, ancora da costruire, è difficile oltre che impari, e la Russia, che al momento funge da terzo incomodo nel processo di riaggregazione imperialistica dopo il crollo dell'Urss, ha già fatto passi significativi per raggranellare qualcosa. In previsione di un attacco, consapevole della debolezza europea in termini di compattezza e peso decisionale, il 18 gennaio ha firmato un accordo con l'Iraq per lo sfruttamento di due pozzi petroliferi in zona curda. Francia e Germania per il momento tengono duro, le altre piccole borghesie europee come quella italiana, spagnola e portoghese saliranno sul carro del vincitore mendicando le briciole del grande affare, per gli altri che nulla contano, nulla avranno.

In compenso tutti hanno coscienza dell'immane tragedia che si sta preparando. Già la popolazione irachena, dopo più di un decennio d'embargo, vive in condizioni tremende. Un milione e mezzo di morti per epidemie, mancanza di medicine, leucemie e tumori dovuti alle scorie delle bombe all'uranio impoverito. Sedici milioni di persone vivono sotto la soglia di povertà, la disoccupazione è al 40% e l'inflazione all'800%. In caso di guerra - secondo l'Onu - ci saranno almeno 500 mila vittime civili e un esodo di un milione di profughi. L'altro rischio, paventato da tutti i governi islamici, dal Marocco all'Arabia Saudita, dall'Egitto all'Oman, Turchia compresa, che invocano una moderazione della bellicosità di Bush, è che nell'area si configuri uno scenario di tensioni e guerre civili appannaggio della ultra conservatorismo dei partiti integralisti con danni economici e politici per le già martoriate popolazioni arabe.

Siamo come sempre nella logica del capitalismo, della sua espressione imperialistica, senza remissioni di sorta. Allo sfruttamento quotidiano, reso più duro dalle inderogabili esigenze del capitalismo in crisi, si sommano l'oppressione e l'arroganza. Le guerre di rapina s'inanellano una dietro l'altra senza soluzione di continuità. La conquista dei mercati energetici e di quelli finanziari, la difesa dei mercati commerciali, il sostegno alle leggi che regolano la produzione e la realizzazione dei profitti e l'avidità della speculazione finanziaria sono obiettivi che vengono perseguiti sul terreno della forza con l'uso permanente della violenza bellica. Siamo entrati nell'epoca storica della barbarie economica e sociale, questo, e solo questo, può dare il capitalismo moderno.

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.