La guerra mancata

Premessa

Secondo la critica marxista dell'economia politica esiste una relazione strettissima fra le crisi del ciclo di accumulazione del capitale (1) e le guerre data dal fatto che a un certo punto di ogni ciclo di accumulazione, a causa della caduta del saggio medio del profitto, si determina una vera e propria sovraccumulazione di capitale la cui distruzione per mezzo della guerra si rende necessaria perché un nuovo ciclo di accumulazione possa ripartire.

Lo scoppio della prima guerra mondiale, a seguito della crisi degli ultimi anni 1990 del XIX secolo e della seconda guerra mondiale, dopo la grande crisi del 1929, hanno dato poi piena conferma alla critica marxista. Dopo la seconda guerra mondiale e fino a tutti gli anni 1960, però, il lungo e poderoso sviluppo economico registrato su scala mondiale, ha indotto a ritenere che l'adozione delle politiche economiche basate sul sostegno della domanda aggregata mediante il finanziamento in deficit della spesa pubblica e di controllo della produzione di capitale fittizio - così come suggerito da Keynes - avesse consentito al capitalismo di superare le contraddizioni da cui le crisi traevano origine e dunque anche la relazione fra esse e le guerre. Ma già alla fine degli anni 1960 i segni di una nuova crisi cominciarono a manifestarsi. I saggi medi del profitto cominciarono vistosamente a calare, i tassi di crescita del Pil mondiale si dimezzarono e la tendenza dei capitali a fuggire dalla produzione alla ricerca di extra-profitti di provenienza speculativa si intensificò. E rifece capolino, oltre i tassi ritenuti compatibili con l'adozione delle politiche di finanziamento in deficit della spesa pubblica, l'inflazione a due cifre come non si vedeva dai tempi della grande crisi del 1929. La crisi assunse poi un tale vigore da costringere - come è noto - gli Usa a denunciare gli accordi di Bretton Woods e di fatto a smantellare l'impalcatura su cui si erano fino ad allora retti il mercato finanziario internazionale e quello dei cambi.

Con questa nuova crisi si è avuta la conferma che le crisi cicliche sono il prodotto delle contraddizioni strutturali del sistema capitalistico e che perciò non possono essere in alcun modo evitate. Le politiche economiche di sostegno della domanda o - come poi si è fatto - dell'offerta possono avere efficacia per contenere e superare, evitando il loro avvitamento su se stesse, le crisi congiunturali, cioè quelle crisi generate da cause contingenti e settoriali, limitate nello spazio e nel tempo, ma mai quelle cicliche. Per queste solo la distruzione dei capitali in eccesso può consentire il loro temporaneo superamento, mentre la risoluzione definitiva delle contraddizioni che le genera può aver luogo solo mediante l'instaurazione di nuovi rapporti di produzione.

Guerra e rivoluzione mancata

Gli eventi successivi all'esplodere della nuova crisi diedero ulteriore forza all'idea che lo scontro fra i due maggiori blocchi imperialistici sarebbe prima o poi risultato inevitabile. Gli accordi di Yalta, che pur fra mille tensioni fino ad allora erano stati di fatto sempre rispettati, cominciarono a star stretti e le tensioni fra i due blocchi aumentarono considerevolmente.

Nel dicembre del 1979 l'esercito russo, per la prima volta dalla fine della seconda guerra mondiale, uscì dai confini della propria area di influenza e invase l'Afghanistan. L'orso sovietico da un lato temeva che l'insorgere del fonda-mentalismo islamico, dopo la vittoriosa rivoluzione di Komeini in Iran, potesse attestarsi ai suoi confini e destabilizzare le repubbliche islamiche del Caucaso ricchissime di petrolio e, dall'altro, avvertiva la necessità di costituire un avamposto verso l'area mediorientale la cui importanza strategica era con tutta evidenza destinata a crescere a dismisura con l'approfondirsi della crisi.

Lo scoppio di una infinità di guerre, apparentemente di tipo etnico e/o religioso, ma tutte in aree di importanza strategica per il controllo del mercato delle materie prime e in particolare del petrolio; la guerra delle Falkland tra Gran Bretagna e Argentina costituirono, poi, un'ulteriore conferma che la previsione a breve dello scoppio di una terza guerra mondiale con la possibilità dell'apertura di un nuovo ciclo della lotta di classe fino alla rivoluzione era tutt'altro che infondata.

L'errore non è consistito perciò tanto nel ritenere che da questa nuova crisi del ciclo di accumulazione avrebbe potuto scaturire una nuova guerra e/o una nuova fase rivoluzionaria ma che si sarebbe reiterato un processo simile o a quello della prima guerra mondiale, con un'eventuale rottura rivoluzionaria, o della seconda guerra mondiale con lo scontro diretto fra le due maggiori potenze e le distruzioni generalizzate che la caratterizzarono. In ogni caso con l'apertura certa di una fase di ripresa della lotta di classe su scala internazionale. Si è verificato, invece, che, per la prima volta nella storia del capitalismo moderno, uno dei due contendenti implodesse senza l'intermezzo di uno scontro e di una sconfitta militare e senza che si verificasse una generalizzata ripresa della lotta di classe.

Taluni pur di non ammettere il meccanicismo implicito in una previsione basata sulla ineluttabilità della riproposizione degli eventi, giunsero a vedere ogni sciopero, anche il più banale, come un attacco al Palazzo d'Inverno quale conferma della tesi che il ritardo o il mancato scoppio della guerra fossero dovuti alla strenua opposizione che il proletariato internazionale vi opponeva.

Altri, la maggioranza, ne hanno dedotto, invece, la prova che il capitalismo aveva subito una modificazione del suo Dna tale che la contraddizione tra capitale e lavoro, così come era stata colta e descritta da Marx, fosse stata definitivamente superata e con essa anche la relazione tra le crisi cicliche e le guerre e, ovviamente, che la storia avesse definitivamente sepolto Marx.

Una stessa causa per guerre diverse

In quanto astrazione determinata della realtà per coglierne il suo movimento depurato dai fenomeni contingenti che possono offuscarlo fino a renderlo inintelligibile, gli schemi sono un'ottima cosa. Il guaio è quando essi vengono assunti dimenticando che si tratta di un'astrazione e si confonde la descrizione delle linee di tendenza generali dei processi con i processi reali così come concretamente si sviluppano. Questo è un errore ricorrente anche negli ambienti della sinistra comunista ingenerato dal fraintendimento che il socialismo intanto può essere definito scientifico in quanto è capace di prevedere gli eventi con la stessa esattezza con cui, per esempio mediante il metodo sperimentale, è possibile definire le leggi che regolano la caduta dei gravi, con la pretesa di poter interpretare la storia come se si trattasse di risolvere un sistema di equazioni la cui incognita può essere determinato per mezzo del puro calcolo matematico. Purtroppo per loro la storia, in quanto prodotto, in ultima istanza, dell'agire degli uomini non ci sta e provvede sistematicamente a smentire tutte queste previsioni sedicenti scientifiche.

All'epoca, pur ritenendo anche noi molto probabile l'esplosione di un terzo conflitto mondiale, quando rispondevamo che nulla poteva essere dato per già scontato a chi dava per certa questa prospettiva e la riapertura di un nuovo corso rivoluzionario, venivamo accusati - come dire? - di opportunismo teorico; eppure sarebbe bastata una lettura più attenta delle stesse prime due guerre mondiali per rendersi conto quale madornale errore possa commettere chi, pur richiamandosi al materialismo storico, pensa di poter prevedere l'andamento dei processi storici reali derivandoli da schemi precostituiti scambiando così il Capitale di Marx con il manuale del geometra.

Benché entrambe figlie della crisi del ciclo di accumulazione capitalistica e perciò delle medesime contraddizioni, le prime due guerre mondiali, sotto qualunque aspetto si osservano, presentano fra loro tali e tante differenze da poter perfino apparire ognuna come il prodotto specifico del rispettivo periodo storico senza niente che le accomuni.

Dal punto di vista delle modalità militari, per esempio, la prima è stata una guerra di posizione con scarsissime conseguenze sulla popolazione civile e con uno scarso impatto distruttivo sugli apparati produttivi dei paesi belligeranti. Benché definita mondiale perché vi furono coinvolte tutte le maggiori potenze dell'epoca, in realtà il suo teatro fu quasi esclusivamente quello europeo.

La seconda, invece, ha fatto, per la prima volta nella storia, più vittime civili che militari e il suo teatro è stato, se si esclude il continente americano, il mondo intero. Con i bombardamenti aerei a tappeto è stato distrutta la gran parte dell'apparato produttivo mondiale senza contare le abitazioni e le infrastrutture civili.

Anche le linee di sviluppo delle crisi che le hanno precedute hanno poco in comune. La crisi del primo ciclo di accumulazione oggi ci apparirebbe addirittura settoriale tanto essa era legata alla crisi di un settore specifico, quello siderurgico, cha allora era però dominante e trainante. Quella del secondo è stata invece una crisi più sistemica che ben presto si è estesa all'intero sistema economico, produttivo e finanziario fino a bloccare la quasi totalità delle attività economiche e finanziarie. Ancor di più - e per noi è ciò che più conta - sono state diversissime le conseguenze dal punto di vista dello scontro sociale. Nella crisi che ha generato la prima guerra mondiale ha trovato alimento la più lunga ed estesa ondata rivoluzionaria del secolo scorso che ha avuto come protagonista il proletariato internazionale e quello russo in particolare, che nel 1917 riuscì ad abbattere il vecchio stato zarista e a dar vita al primo tentativo di edificazione di uno stato socialista.

Nella seconda guerra mondiale, nonostante la popolazione civile come mai prima sia stata direttamente coinvolta nella guerra, non solo non si sono verificati episodi rivoluzionari confrontabili con la rivoluzione russa del 1917, ma tutte le istanze di opposizione alla guerra stessa e al sistema capitalistico sono state, salvo che per alcune frange fortemente minoritarie, incanalate sul terreno del nazionalismo resistenziale e a sostegno dell'uno o dell'altro fronte imperialista. In realtà, il tempo e le guerre stesse non passano invano.

La guerra permanente

Senza rivoluzione socialista le contraddizioni strutturali del processo di accumulazione del capitale rimangono immutate e perciò periodicamente generano le crisi, ma ogni crisi, e le guerre che delle crisi sono il momento più drammatico e intenso, imprimono ai processi di modificazione che il capitalismo vive quotidianamente una tale accelerazione e forza da rendere del tutto impossibile nel successivo ciclo la riproposizione delle stesse forme di gestione sia della inevitabile crisi sia dei percorsi verso la sua soluzione qualunque essa sia. Mutano, per sottolineare solo qualcuno dei fattori da cui dipendono la gestione della crisi e i suoi esiti, il grado di concentrazione e centralizzazione dei capitali, il grado di sviluppo delle forze-produttive, quello tecnologico, ivi compreso quello militare, la composizione organica del capitale, l'organizzazione del lavoro e la sua divisione internazionale. Infine, ma non per importanza, muta il grado di sviluppo della coscienza di classe - che è a sua volta il prodotto di una numerosa serie di altri fattori - da cui discende la capacità del proletariato di difendersi dall'intensificazione degli attacchi che nelle fasi di crisi la borghesia è ineluttabilmente indotta ed eventualmente di contrattaccarla.

In particolare modo, il diverso grado di concentrazione e di centralizzazione dei capitali, per le modificazioni che comporta sia nella fase della produzione e distribuzione delle merci sia in quella della circolazione del capitale finanziario, è fondamentale nel determinare le forme di gestione della crisi, i tempi e lo spazio del suo sviluppo. Più è alto il grado di concentrazione dei mezzi di produzione più è possibile, per esempio, interferire sul processo di formazione dei prezzi e per questa via realizzare quota di extra profitto compensative della diminuzione del saggio medio del profitto. In poche parole, più è alta la concentrazione dei capitali e più i capitali più grandi possono, mediante il controllo monopolistico del prezzo, trasferire sui capitali a più bassa concentrazione e composizione organica i costi della crisi e favorirne la sua dilatazione nello spazio e nel tempo. Altresì, più è elevato il grado di centralizzazione dei capitali più è facile connettere i processi di appropriazione parassitaria di plusvalore mediante la distorsione monopolistica del prezzo con quelli di formazione e distribuzione della rendita finanziaria mediante l'intensificazione della produzione di capitale fittizio. Grazie a tale connessione, gli Usa in particolar modo hanno trasformato le variazioni del prezzo del petrolio e delle materie prime ritenute strategiche in una fonte inestimabile di rendita finanziaria.

Il dominio della finanza che si è determinato nel corso dell'attuale crisi ha trovato proprio in questa connessione e nel monopolio del dollaro quale mezzo di pagamento internazionale il suo trampolino di lancio (2). Ne è derivato uno sviluppo di forme di appropriazione parassitaria molto sofisticate ed efficaci e così intenso e diffuso che molti economisti borghesi hanno ritenuto di poter vedere in esso la definitiva conferma della falsa tesi che il plusvalore si genera nella fase della circolazione. E altri, anche di provenienza marxista, che il plusvalore non fosse più il prodotto dello sfruttamento della forza-lavoro. In realtà, come abbiamo visto più volte in precedenza su questa stessa rivista, si trattava - e si tratta - del più gigantesco trasferimento di plusvalore dall'intero sistema economico mondiale verso le concentrazioni capitalistiche maggiori mai verificatasi nella storia del capitalismo moderno.

La possibilità di spostare plusvalore da un'area all'altra del pianeta ha reso il controllo sistematico e permanente delle fonti di produzione e delle vie di distribuzione del petrolio e delle materie prime strategiche prevalente su ogni altra cosa, per cui è stato necessario modificare anche le modalità, le strategie, gli obbiettivi della guerra e l'organizzazione degli eserciti.

Se nella seconda guerra mondiale l'obbiettivo principale è stato la distruzione dell'apparato produttivo del nemico per aprire nuovi spazi di mercato al proprio e in tal modo distruggere anche i capitali in eccesso, oggi è fondamentale la difesa e l'allargamento del processo di produzione e distribuzione della rendita finanziaria. La guerra pertanto da evento eccezionale e straordinario è divenuta un'esigenza permanente. Per questa ragione il suo potenziale distruttivo, benché accresciuto in termini assoluti, è divenuto molto selettivo e tale da poter dispiegare i suoi nefasti effetti concentrati di volta in volta in una determinata area e reiterabili in altre aree e nel corso del tempo. L'esistenza di una sola superpotenza militare, inoltre, rendendo - almeno fino ad oggi - pressoché impossibile uno scontro militare diretto fra i diversi poli imperialistici, ha favorito il dilagare della cosiddetta guerra asimmetrica combattuta, a seconda delle necessità e dell'importanza della posta in gioco, in prima o per interposta persona quando non addirittura con eserciti mercenari, cosicché l'intero pianeta è devastato in permanenza dalla guerra imperialista senza che di essa se ne abbia una percezione netta.

Pur non eliminando la possibilità dello scontro diretto perché questo tipo di guerra non recide alla radice le contraddizioni da cui trae origine, essa favorisce comunque il prolungamento nel tempo della fase discendente della crisi.

Nell'agevolarne il suo prolungamento non ha però minor peso anche la tuttora irrilevante, quando non del tutto inesistente, opposizione del proletariato internazionale.

Disarmato ideologicamente dallo stalinismo e dal suo crollo e stretto nella morsa dei sindacati, trasformatisi nel corso del tempo in uno dei pilastri della conservazione capitalistica, il proletariato internazionale ha subito e subisce i costi della guerra e un altrettanto permanente processo di spoliazione che lo ha ormai già privato di qualunque forma di salario indiretto e abbassa costantemente il valore della forza lavoro e del salario diretto.

La combinazione fra guerra permanente, da un lato, e l'impoverimento del proletariato e l'emarginazione crescente degli strati sociali più poveri, dall'altro, hanno consentito finora al meccanismo dell'appropriazione parassitaria di plusvalore finalizzato alla compensazione della riduzione del saggio medio del profitto, di funzionare e di espandersi e al ciclo di accumulazione di protrarsi più di quanto non sia accaduto nelle crisi del passato. Negli ultimi tempi, però, il sistema ha dato segnali di cedimento. Scricchiolii si avvertono con sempre maggiore frequenza e le controfigure tendono ad uscire dalla scena della guerra per lasciare il posto agli attori protagonisti. Molto probabilmente sono i segnali che la prima, lunga fase della crisi si è conclusa e un'altra ancora più violenta si è aperta. Ma sarebbe un grave errore dedurre che questi segnali costituiscono il sicuro preludio dello scoppio della guerra generalizzata e/o della rivoluzione. Fra i suoi esiti possibili vi può essere, infatti, sia un nuovo crollo per implosione di uno dei poli imperialistici sia la guerra e/o la rivoluzione. Quest'ultima però a condizione che il proletariato e le sue sparute avanguardie avranno nel frattempo saputo costruire il loro partito rivoluzionario sulla base di una puntuale critica del capitalismo moderno. Peraltro, il marxismo rivoluzionario oggi, contrariamente alle apparenze, la facilita a condizione, però, che non lo si riduca a una formula matematica o un modello statistico; senza dimenticare che Marx, che di materialismo storico se ne intendeva, già nel Manifesto, non a caso, ammetteva come possibile non solo"la trasformazione rivoluzionaria di tutta la società" ma anche "la comune rovina delle classi in lotta".

Giorgio Paolucci

(1) Per una più articolata e puntuale definizione della crisi di ciclo vedi Crisi del ciclo di accumulazione del capitale e crisi congiunturali - Lorenzo Procopio - Prometeo n.6 serie VI. Qui, invece, ci riferiamo sempre alle crisi del ciclo di accumulazione.

(2) A tale proposito vedi in Prometeo n.4 serie V - Il dominio della finanza.

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.