La rapina del secolo: la riforma fiscale di Trump

Donald come Ronald.

A poco più di trent'anni dalla riforma fiscale attuata dal presidente repubblicano Reagan (1986) – ma con l'appoggio quasi senza eccezioni dei democratici – Trump ha voluto emulare il suo predecessore, varando uno dei più grandi tagli delle imposte nella storia degli Stati Uniti. Oggi, come allora, la motivazione di tale misura è la stessa ossia abbassare drasticamente le tasse, a cominciare da quelle sulle imprese, per liberare capitali e ricchezza dall'aspiratore fiscale, affinché possano rilanciare l'economia sotto forma di maggiori investimenti e maggiori consumi. Naturalmente, si deve premiare chi è più ricco, chi sta al vertice del sistema economico-sociale, perché in tal modo il denaro, affrancato dalle tasse, potrà “sgocciolare” (trickle down) dai piani alti a quelli bassi, riportando la vita nei meccanismi affannati dell'economia e gonfiando il portafoglio anche di chi fa una fatica enorme ad arrivare non a fine mese, ma alla seconda settimana. Insomma, una bella storia, che, visto il periodo, si potrebbe definire una storia di Natale alla Dickens; ma lo scrittore inglese era molto più bravo a intrattenerci e i suoi racconti erano dichiaratamente di fantasia. Con la riforma “trumpiana”, invece, siamo in presenza di quella che, con un'espressione alla moda, si può definire una “f_ake news_” o, più semplicemente, una balla spudorata di dimensioni epocali, perché sono appunto almeno trent'anni che la borghesia ce la propina, nonostante la realtà abbia dimostrato che solo di balla si tratta.

Benché i mezzi d'informazione abbiano abbondantemente illustrato i contenuti della riforma, è utile richiamare alcune di quelle “voci” che hanno inorgoglito lo speculatore edilizio domiciliato alla Casa Bianca.

Prima di tutto, va da sé, la sforbiciata netta all'aliquota sulle imprese, che cade dal 38% al 21%, con un leggero rialzo rispetto al 20% proposto inizialmente, forse per andare incontro ad alcune voci critiche dentro lo stesso partito repubblicano. C'è da dire che, non di rado, molte aziende pagano aliquote di gran lunga inferiori anche al 21% o beneficiano di sgravi fiscali offerti da singoli stati per attrarre le imprese, ma è indubbiamente un gran bel regalo per il mondo degli affari.

Secondo, un abbassamento delle tasse sulle persone fisiche, che però, a differenza del primo provvedimento, sarà temporaneo e scadrà nel 2025.

Terzo, un attacco diretto alla riforma sanitaria del 2010, l'Obamacare, che prevedeva l'obbligo dell'assicurazione sanitaria anche per chi non può permettersene una, obbligo assolto mediante sussidi federali, che, ora, verranno tagliati. L'amministrazione Trump prevede così di risparmiare in dieci anni 340 miliardi di dollari, da investire, dice, nella messa in sicurezza del paese ossia in infrastrutture e, inutile dirlo, in armamenti (su questo, nessun dubbio).

Quarto, ma non da ultimo, un mega condono fiscale sui profitti realizzati all'estero e rimpatriati al fine di rendere di nuovo grande l'America, per usare le parole della retorica presidenziale. Per inciso, le stime sui profitti esteri delle grandi corporations parlano di 2400 miliardi di dollari, il che costituisce indubbiamente un bel malloppo.

Una manovra fiscale in pompa magna, dunque, ma sulla cui efficacia si può, anzi, si deve nutrire più di un legittimo dubbio. O meglio, dubbi non ce ne sono, almeno su alcuni provvedimenti, se ci si mette nella giusta ottica.

Per cominciare da un'ovvietà, si tratta di un gigantesco regalo agli strati sociali superiori, ai ricchi e in primo luogo ai ricchissimi, il famigerato 1% (o 0,1%) della popolazione. La riduzione dell'equivalente, grosso modo, dell'Irpef, oltre a essere temporanea (1), come s'è detto, farà sentire veramente i suoi effetti su coloro che hanno i redditi più alti: «In cifre, rispetto ai 60 dollari dei più poveri, lo 0,1% più abbiente riceverà quasi 200.000 dollari e oltre il 50% dei benefit sarà appannaggio del 10% al top» (2). Insomma, agli strati più miseri del proletariato neanche mezzo caffè al giorno, mentre per il cosiddetto ceto medio, quello che viene collocato nella fascia di reddito tra i 20.000 e i 100.000 dollari (3), sono calcolate alcune centinaia di dollari, che crescono o calano a seconda appunto del reddito. Ma in certi stati le tasse potrebbero anche salire, dato che la riforma elimina le detrazioni per le tasse locali, più alte, guarda caso, in alcuni stati governati dai democratici, come la California e New York. La cosa, però, non finisce qui, perché la manomissione dell'Obamacare (già di per sé insufficiente e parziale) si prevede che produrrà da qui a dieci anni la fuoriuscita dall'Obamacare di tredici milioni di persone e l'innalzamento del costo dell'assicurazione sanitaria, calmierato finora dalla garanzia dei sussidi statali. Chi ha anche solo una vaga idea delle spese da fronteggiare per prestazioni mediche qui considerate di routine, si rende conto che questo probabilmente si tradurrà non solo in un ulteriore immiserimento per milioni di individui, ma in gravissime difficoltà sul piano della salute, che possono significare anche la morte. Inoltre, poiché tra tagli e sconti (il maxicondono sui profitti esteri) il disavanzo federale probabilmente supererà i 1500 miliardi (4), allora bisognerà tagliare nuovamente il poco che resta del welfare state (“stato sociale”) e, in particolare, i programmi Medicaid e Medicare per gli anziani e i più poveri della nostra classe.

Quindi, che la riforma abbia una sua efficacia è certo, purché si specifichi per chi e che si tratta di una “rapina del secolo” ai danni del proletariato, i cui esecutori agiscono però a volto scoperto e si chiamano borghesia.

Nessun dubbio nemmeno sul fatto che l'abbattimento delle aliquote fiscali sulle imprese non solo non rivitalizzerà l'economia (quella detta reale) degli States, ma anzi incoraggerà ancora di più il circolo vizioso in cui si è infilato il sistema capitalistico mondiale da oltre quarant'anni, quello del parossismo speculativo, dunque, in sostanza, della crisi. Da decenni, appunto, il cosiddetto neoliberismo, ideologia che negli anni del boom economico ('50-'60 del '900) era prerogativa dei settori più reazionari della borghesia statunitense (Goldwater, per fare un nome), ci racconta la panzana che maggiore libertà per i capitali, meno lacci nella gestione degli affari e della manodopera (traduzione: sfruttamento senza freni) sono la strada sicura per incoraggiare gli investimenti e ridistribuire in tal modo a tutti la ricchezza così prodotta. Invece, è esattamente l'opposto. Di fronte alla crisi del ciclo di accumulazione causata dalla caduta del saggio del profitto, la cura “neoliberista” ha, naturalmente, abbondantemente fallito, per quanto riguarda il ristabilimento di un ciclo economico ascendente, anche se sta riempendo di denaro le tasche della speculazione finanziaria. Il punto è che per quanto lo sfruttamento della forza lavoro e la predazione siano cresciuti sotto ogni punto di vista, i profitti così ottenuti non vengono investiti nel processo produttivo, perché il profitto atteso non è sufficientemente “attraente” rispetto ai capitali da impegnare nel processo medesimo (5). Detto in altri termini, il plusvalore estorto, benché in aumento, non è adeguato alla composizione organica del capitale odierna. E' un fenomeno che, seppure con altre parole e altre prospettive, è rilevato da diversi “osservatori” dell'intellighenzia borghese. Una voce, tra le tante: «Dall'inizio degli anni 2000, i soldi rimasti nelle casse delle aziende USA, anche dopo aver pagato le tasse, sono raddoppiati: dal 5 al 10 per cento del Pil […] E gli investimenti? Non si è mossa una foglia» (6). In Gran Bretagna, nello stesso periodo, dove la tassazione sulle aziende è calata dal 30% al 19%, «il tasso di investimenti netti, rileva il Financial Times_, si è dimezzato_» (7). Stesso discorso per la “locomotiva” tedesca, per non dire della “carrozza” italiana. La montagna di soldi intascata dalle imprese va a gonfiare il parassitismo finanziario e le bolle speculative che inevitabilmente prima o poi scoppiano, con ricadute devastanti sull'economia reale, da cui si origina ogni movimento del mondo economico. Non c'è riforma fiscale regressiva (meno si ha, più si paga), non c'è denaro a buon mercato (Quantitive easing) che tengano, se la produzione vera della ricchezza è intaccata dal cancro della caduta del saggio medio del profitto.

Ancor meno vera, se possibile, è la pessima barzelletta secondo la quale lo “sgocciolamento” spalmerebbe uniformemente sulla società benessere e felicità. Da quando il boom espansivo del dopoguerra è arrivato al capolinea (primi anni '70), qualche tempo prima, quindi, che Reagan diventasse presidente e interprete del “trickle down”, la povertà negli USA ha smesso di arretrare e ha invertito una marcia che è andata via via accelerando. Oggi, nel paese più potente del mondo, ci sono (dati del 2014) venti milioni di persone in povertà estrema, cioè che vivono (si fa per dire) con «un reddito al di sotto della metà della soglia di povertà federale» (8), ma complessivamente «i_l numero dei poveri, ossia di coloro che fanno fatica a far fronte ai bisogni più elementari, raggiunge nello stesso anno le 105.303.000 anime_» (9). E' la conferma, una volta di più, che la critica marxiana dell'economia politica aveva visto giusto anche da questo punto di vista, quando rileva che la legge fondamentale dell'accumulazione capitalista – giunta, quest'ultima, a un certo livello – comporta il peggioramento progressivo delle condizioni di esistenza della classe lavoratrice, indipendentemente dal grado di “benessere” raggiunto, e che le crisi sono precedute da periodi di alti salari, a dispetto del feticismo riformista sull'aumento salariale quale soluzione alla crisi. Negli anni '60-'70 i salari erano mediamente – e spesso significativamente – più alti di quelli attuali, lo “stato sociale” (nient'altro che salario indiretto e differito) ben più robusto, eppure la crisi è puntualmente arrivata a ricordare, dopo le illusioni del boom, che il capitalismo non può aggirare all'infinito le proprie contraddizioni insuperabili, le devastazioni sociali (oggi anche ambientali) e le guerre che quelle necessariamente innescano.

Essere coscienti di tutto ciò è necessario, ma non sufficiente, se a questa coscienza non si dà forma organizzata, alimentata dalla classe e dalle sue lotte, per farla finita, una volta per tutte, con la borghesia, con il suo mondo.

CB

(1) Poi, aumenterà, tranne che per i più ricchi.

(2) M. Valsania, Il fisco USA premia le imprese, Il Sole 24 ore, 21 dicembre 2017.

(3) E' una forbice molto, troppo ampia per essere utilizzata analiticamente, in quanto mette nello stesso sacco ampi settori di proletariato e la piccola borghesia benestante.

(4) Si prevede che il buco sarà non meno di 1400 miliardi di dollari, ma se l'economia non ripartirà con la spinta auspicata dai ciarlatani sostenitori del trickle down, com'è molto probabile (per usare un eufemismo), potrebbe sforare i 1500 miliardi.

(5) Detto in termini molto semplici, il guadagno previsto è troppo piccolo rispetto alla quantità di denaro investita in macchinari, materie prime, energia, spese varie e, naturalmente, forza lavoro.

(6) M. Ricci, Lo strabismo della riforma fiscale USA..., Repubblica on-line, 24 dicembre 2017. Vedi anche V. Comito, Aspettando il Minsky moment, Sbilanciamoci, 12 dicembre 2017, M. Wolf, Una riforma fiscale costruita su misura per i plutocrati, Il Sole 24 ore, 23 novembre 2017.

(7) M. Ricci, cit.

(8) Elisabetta Grande, Guai ai poveri. La faccia triste dell'America, Edizioni Gruppo Abele, 2017, pag. 13. Libro interessante per quanto riguarda i dati, ma impregnato di un riformismo quasi sconcertante.

(9) E. Grande, cit., pag. 25.

Lunedì, January 1, 2018