Il riformismo sovranista: sulla pelle della classe lavoratrice

Altre volte ci siamo occupati dell'onda nerastra che le fogne della borghesia, intasate dalla crisi, rigurgitano, ma approfondire l'analisi del cosiddetto sovranismo populista (l'onda...) riteniamo possa contribuire ad affinare le armi della critica contro il modo di produzione capitalistico, le cui convulsioni sono appunto all'origine del fenomeno. Un fenomeno che nelle elezioni europee ha raccolto meno di quanto si aspettasse, ma che rimane pur sempre rilevante e niente affatto sotto-valutabile, soprattutto per la presa che ha in strati significativi di proletariato.

Tra le diverse cause della sua crescita, indicate nei nostri articoli precedenti (a cui rimandiamo), su qualcuna non avevamo volutamente messo l'accento necessario, riservandoci di ritornarci su per verificare se e quanto il “riformismo sovranista” sia una realtà e non solo uno dei tanti sguaiati slogan delle eterne campagne elettorali dei sovranismi fascistoidi. Guardando a quello che succede in “casa nostra”, l'azione cosiddetta riformatrice del governo verde-giallo, sfrondata delle abbondanti mimetizzazioni con cui le televisioni e gli altri mezzi di (dis)informazione di massa (1) ne nascondono la natura, rimane poca cosa. Non solo non allevia – ammesso che possa alleviare -, se non in minima parte, la dura condizione proletaria sotto attacco del capitale da decenni, ma crea ulteriori problemi, la cui soluzione sarà fatta pagare, una volta di più, al proletariato e a strati sociali a esso vicini (2).

Se invece si va a guardare cosa succede in Polonia e in Ungheria, dove i “camerati” di Salvini sono stati riconfermati conquistando la netta maggioranza dell'elettorato – di quello che ha votato, al netto dunque dell'ampio astensionismo... - a prima vista sembrerebbe che là il riformismo, benché fortemente destrorso, sia una cosa seria e fattibile, a dispetto di chi, come noi, sostiene che la crisi pluridecennale del processo di accumulazione ha fortemente ristretto – quando va bene – gli spazi per interventi massicci a favore della classe lavoratrice. Una visione, la prima, che fa il paio con quella del riformismo sinistrorso, convinto che un po' più di lotta di classe (leggi: sindacal-economica) nei luoghi di lavoro potrebbe essere la levatrice di un governo di sinistra, che, a sua volta, metterebbe fine all'austerità “europea”, finanziando in deficit l'economia reale. A cascata, si avrebbe poi la crescita dell'occupazione, ma di un'occupazione sana - corredata cioè dei “diritti” cancellati dai diktat di Bruxelles - e, non da ultimo, i consumi, l'alfa e l'omega della teoria economica dominante, a destra e a sinistra. Fiabe autoconsolatorie, naturalmente, al massimo leggende, ma che, come tutte le leggende, hanno un fondo di verità.

E' risaputo che con la fine del “socialismo reale” (3), le debolezze delle economie dell'ex blocco sovietico – all'origine della fine stessa – emersero in maniera dirompente, abbattendosi su quelle società con una forza tale da ridurle in una situazione simile a quella di un dopoguerra. I dogmi del cosiddetto neoliberismo erano il faro che indicava la strada della ristrutturazione e del rilancio dell'economia, il quale presupponeva (e presuppone) la brutalizzazione delle condizioni di lavoro e di esistenza del proletariato. In altri termini, immiserimento della classe lavoratrice, intensificazione dello sfruttamento sotto ogni aspetto. Nella sostanza, lo stesso percorso intrapreso dagli altri segmenti nazionali della borghesia europea – e mondiale – ma nell'Est gli effetti sul corpo della classe sono stati più devastanti, per le caratteristiche proprie di quella parte d'Europa. Elemento non secondario, quasi sempre le “riforme” neoliberiste sono state fatte da governi detti liberal-democratici o di centro-sinistra, in ogni caso tutti convintamente europeisti. Dunque, in assenza della lotta di classe proletaria e di un riferimento politico-organizzativo rivoluzionario, le forze “sovraniste” hanno avuto – e finora hanno – buon gioco nel presentarsi come alternative a un indirizzo politico-sociale che a chi vive di salario chiede sacrifici e ancora sacrifici, senza dare nulla in cambio. Non a caso, sono andate al governo speculando sì sulle paure suscitate dalla crisi, deviando su di un falso nemico (l'immigrazione) la sacrosanta rabbia sociale contro un'Europa dalle misure economiche invariabilmente a sfavore della “gente comune”, promettendo invece riforme che, a dispetto della tecnocrazia di Bruxelles, avrebbero ridato un po' di respiro a chi sta nei gradini bassi della società. Dimenticarsi o sottovalutare questo elemento centrale nell'ascesa del sovranismo (o populismo) di estrema destra – come fanno, per esempio, tanti sinceri democratici – significa farsi un quadro parziale del fenomeno e quindi limitare l'efficacia dell'intervento politico rivoluzionario. Detto in altre parole, possiamo stramaledire Kaczynski, Orbàn e i loro omologhi “occidentali”, ma se pensiamo che una parte del proletariato polacco o ungherese li voti semplicemente perché preda di istinti bassamente egoistici e, idealisticamente, credessimo che si debba istillare un coscienza superiore appellandosi solamente ai sentimenti di umanità e fratellanza tra i popoli, non faremmo molta strada. I governi populisti sono il risultato distorto, come si è detto, di un malessere sociale che non si manifesta sul piano della lotta di classe, di una lotta di classe che non c'è stata realmente, ma che si esprime, per così dire, sul terreno autolesionistico del parlamentarismo borghese. Dunque, il personale politico populista, se non vuole perdere le poltrone, deve pur rispondere a chi l'ha messo su quelle poltrone, senza per questo intaccare gli interessi del capitale, al contrario tutelandoli e rafforzandoli. A volte, è vero, non è semplice comporre le dinamiche delle diverse bande borghesi, soprattutto oggi, perché la crisi che non passa complica ancor di più i giochi (4) e gli spazi per mantenere le mirabolanti promesse elettorali sono, nel complesso, davvero poca cosa. Ma, in apparenza, non dappertutto.

Per esempio, in Polonia il governo del PiS ha fatto dello smantellamento della riforma pensionistica attuata dalla precedente colazione governativa liberal-democratica (5) uno dei suoi cavalli di battaglia e la cosa ha pagato, dal punto di vista elettorale. L'età della pensione è stata portata a 65 anni per gli uomini e a 60 per le donne benché – se le nostre informazioni sono corrette – con penalizzazioni, come la Quota 100. Prima delle elezioni è stato promesso l'aumento della pensione minima ed è stato previsto un extra di 250 euro all'anno: una sorta di tredicesima. Viene inoltre concesso un “bonus bebé” di 116 euro dal secondogenito in poi, ma le famiglie particolarmente povere possono riceverlo dal primo figlio (6), nonché sgravi fiscali per i giovani; in questo caso, probabilmente non prima delle elezioni politiche dell'autunno prossimo. Anche in Ungheria il governo ha predisposto aiuti, per lo più sotto forma di sgravi fiscali alle famiglie, con lo scopo di incrementare le nascite (7), a cui ha affiancato la flat tax al 16%, sempre con lo scopo di aumentare i consumi oltre che, con la tassa piatta, di attrarre investimenti dall'estero. Il risultato, dicono i fan di Kaczynski e Orbàn, ma anche, tra i denti, i sovranisti “di sinistra” (8), è che l'economia dei loro paesi sta crescendo del 4-5% all'anno, contro i ritmi molto più fiacchi, quando non negativi, degli atri stati della UE. Vero, la dinamica del Pil di Polonia e Ungheria non è paragonabile a quella, per esempio, dell'Italia, ma c'è un “ma”, anzi, più di uno.

Tanto per cominciare, il debito pubblico pubblico è il 50% e 70% dei rispettivi Pil, così come il deficit sta sotto i famigerati parametri e si prospetta in calo. Banale osservare, poi, che il rapporto debito/Pil è appunto un rapporto, per cui se il Pil sale, si abbassa percentualmente la quota del debito; a meno, naturalmente, di una corsa sfrenata all'indebitamento, ma non è questo il caso. Se il vento gonfia le vele di quelle economie, non è però in massima parte merito della flat tax o dei consumi graziosamente concessi al “popolo”; il merito, se così vogliamo chiamarlo, va ascritto a due fattori. Primo, il grande flusso di investimenti esteri, a cominciare da quelli tedeschi, che dal crollo del “comunismo” si è diretto in Europa orientale, dove le condizioni erano – e nella sostanza lo sono ancora – particolarmente vantaggiose per capitali in cerca di masse e saggi di profitto più interessanti di quelli esistenti nei paesi d'origine. Negli stati dell'ex Patto di Varsavia esisteva un tessuto industriale che, benché sorpassato e poi dunque dismesso, offriva pur sempre una forza lavoro “abituata” al lavoro di fabbrica e quindi riconvertibile senza grosse difficoltà ai processi produttivi basate sulle nuove tecnologie.

Secondo, ma non per importanza, il costo bassissimo della forza lavoro: una trentina di anni fa, il salario di un operaio polacco o ungherese era fino a dieci volte più basso di quello di un operaio berlinese. Oggi, conformemente alla legge individuata da Marx, secondo la quale il salario deve in qualche modo seguire – benché mai nella stessa misura – l'aumento della produttività, per ricostituire le maggiori energie fisico-mentali spese nell'attività lavorativa (9), lo stipendio di un operaio polacco è un quarto di quello berlinese (10), ma rimane sempre più conveniente per il capitale, visto che la classe operaia dei paesi di Visegrad (11) lavora nelle fabbriche della Volkswagen o della Daimler-Benz con la stessa tecnologia su cui faticano i suoi compagni di classe a Wolsburg o a Stoccarda (se non ancor più avanzata). Questo spiega il trasferimento a Est di migliaia di imprese dell'Europa occidentale, non la flat tax in sé: regalo sempre gradito alla borghesia, certo, purché i maggiori costi derivanti per l'amministrazione del suo stato vengano scaricati, come d'abitudine, sul proletariato, attraverso l'aumento, per esempio, dell'IVA e la predazione ossia il taglio dello “stato sociale”; cose puntualmente avvenute nei paesi governati dal sovranismo d'estrema destra. Se più investimenti, soprattutto esteri, significano tendenzialmente più occupazione, aumento della massa salariale e quindi maggior consumo, rimane il fatto che nel “gruppo di Visegrad” le disuguaglianze sociali, dopo venticinque anni di cosiddetto sviluppo, sono rimaste, ben che vada, stabili, mentre in Ungheria sono aumentate. In questo paese, secondo alcuni studi, anche di natura sindacale, su dieci milioni di abitanti quasi cinque sarebbero a rischio o sotto la soglia di povertà, un gran numero di medici e infermieri avrebbe lasciato gli ospedali per emigrare all'estero e le cure contro il cancro sarebbero negate a chi ha più di settantacinque anni. A questo si aggiunge una legge che considera un reato l'essere senza fissa dimora, accompagnata da un'altra che per combattere, si dice, la disoccupazione, ha istituito

programmi di lavori pubblici – obbligatori per chi cerca lavoro o percepisce un sussidio di disoccupazione e con stipendi più bassi di quelli minimi per legge (12).

Siamo dunque nella stessa logica del “Reddito di Cittadinanza” e delle leggi analoghe vigenti in altri paesi europei che, in cambio dell'erogazione di un reddito – in sé insufficiente per vivere – impongono la costrizione al lavoro salariato in condizioni non certo vantaggiose per i percettori del reddito medesimo. E' quello che viene definito il passaggio dal welfare al workfare, versione moderna delle spietate leggi contro i poveri “oziosi” che hanno scandito la nascita e lo sviluppo del capitalismo.

Naturalmente, il peloso riformismo sovranista affianca all'assistenzialismo leggi tendenti a rafforzare il dominio padronale – né più né meno dei governi liberal-democratici – ad avvicinare le condizioni della classe lavoratrice a quelle vigenti in un campo di lavoro forzato: nessun “diritto”, ma solo il duro “dovere”. Infatti, giusto per fare un esempio, in Polonia il PiS non si sogna nemmeno di cancellare le “riforme” in materia di mercato del lavoro fatte dai governi liberal-democratici, che accentuano la precarizzazione del lavoro (13) assieme ad altre infamie antiproletarie, e, nel dicembre 2018, il parlamento ungherese ha approvato la “legge schiavitù”, secondo la quale la soglia massima delle ore straordinarie viene portata da 250 a 400 all'anno e il pagamento delle stesse può essere ritardato di tre anni. Questo è uno dei risultati, e non il minore, della laida retorica anti-immigrati (14), cavallo di battaglia di Orbàn. L'Ungheria, segnata da anni di forte emigrazione verso la UE, da rigidissime leggi contro l'immigrazione, si trova a corto di forza lavoro e in un modo o nell'altro deve garantire la continuità del processo produttivo, non da ultimo alle imprese “occidentali” che hanno trovato nel paese un piccolo-grande Eldorado. Se non ci sono gli immigrati a riempire i vuoti, qualcuno deve diventare “immigrato” (15) e il “prima gli ungheresi” si rivela essere quello che è: un infame strumento per stordire le coscienze proletarie, per dividere, dunque indebolire, la classe nel suo insieme, indipendentemente dalle sue sfumature “etniche”.

Ma in un altro modo ancora la classe salariata paga il riformismo sovranista, assicurandone i trionfi elettorali: i contributi che l'Unione Europea destina ai paesi membri, perché è il proletariato che fornisce il grosso delle entrate fiscali, agendo quindi da principale finanziatore della “cassa” dell'Unione. Per quanto riguarda la Polonia

Nel 2017 il suo contributo complessivo al bilancio comunitario è stato di 3,048 miliardi di euro, mentre la spesa totale della Ue in Polonia è stata di 11,9 miliardi_ [invece l'Ungheria] Nel 2017 ha contribuito al bilancio Ue con 821 milioni di euro e ha incassato fondi per 4,049 miliardi di eurogithub.com (16).

Quella montagna di denaro, oltre a ingrassare politicanti e parassiti in genere, è fondamentale al fine di rendere ancora più “accogliente” il clima per il capitale e in particolare per gli investimenti esteri. Vie di comunicazione e infrastrutture varie spuntano come funghi nei paesi dell'Europa orientale beneficiari dei contributi Ue, il che significa, in ultima istanza, quell'aumento dei consumi da tutti indicato come la formula magica per far crescere l'economia. E' ovvio che la “gente” in questo contesto spenda di più (con moderazione, se si parla del proletariato...), ma la maggiore spesa è appunto finanziata... a spese della classe lavoratrice europea, autoctona o immigrata che sia. Si conferma così che nella nostra epoca, anche in quelle aree teatro di performances straordinarie (rispetto alla media) il capitale non può fare a meno dello stato-badante - evoluzione, se vogliamo, del capitalismo di stato classico – e di un'estorsione permanente ai danni del mondo proletario dentro – il che è scontato – ma anche fuori i luoghi di lavoro.

I latrati rabbiosi contro la UE, le rampogne europeiste rivolte al sovranismo, pur esprimendo tensioni interborghesi reali, alla fine si ricompongono, per così dire, in una specie di equilibrio precario, in cui ognuno cerca di portare a casa il miglior risultato possibile, sulle spalle del proletariato che vive e lavora in Europa.

CB

(1) Per non dire dei “social”, ampiamente usati dai politicanti, in primis sovranisti, che sono tutto fuorché l'espressione spontanea della “gente”, vista la manipolazione degli interventi operata da veri e propri professionisti al servizio della propaganda falsificatrice.

(2) Per Quota 100, Decreto dignità e Reddito di Cittadinanza, rimandiamo agli articoli presenti sul sito.

(3) Cioè del capitalismo di stato contrabbandato per socialismo.

(4) Il caso più esemplare è probabilmente la Brexit.

(5) Una specie di legge Fornero, che innalzava l'età pensionabile a sessantasette anni per uomini e donne.

(6) In pratica, vengono fatti interventi “a favore” della famiglia che in molti paesi sono presenti da tempo.

(7) Sia in Polonia che in Ungheria, i vari bonus non hanno però invertito il calo demografico, perché occorrerebbero misure di ben altra portata finanziaria, il che, appunto, in questa fase storica si rivelano impossibili.

(8) Questi ultimi cascami dello stalinismo pullulano, letteralmente, sul sito Sinistrainrete, che, per l'appunto, non si perita di ospitare regolarmente interventi di un sottosegretario leghista del governo verde-giallo. La feccia stalinista ottant'anni fa calunniava i nostri compagni accusandoli di essere agenti del nazifascismo, ma chi sta realmente fiancheggiando oggi il sovranismo fascistoide sono, senza sorprese, proprio i nipoti di chi firmava accordi imperialisti col nazismo (Patto Molotov-Ribbentrop, 1939) o tendeva una mano ai fascisti (Togliatti, Appello ai fascisti del 1936).

(9) Ammesso che, va da sé, la classe lavoratrici lotti sul terreno economico, cosa che, con maggiore o minore intensità, prima o poi generalmente avviene.

(10) Il dato si riferisce al 2010, ma rimane indicativo. Vedi P. Rimbert, Il Sacro impero economico tedesco, Le Monde diplomatique-il manifesto, febbraio 2018. Per fare un paragone con l'Italia, secondo il sito Forex Trading Italia, visitato ai primi di giugno, in Polonia il salario mensile medio è di 776,59 euro, cioè 622 euro più basso di quello italiano (sempre per Forex); in Ungheria è di 617,33 euro ossia 781 in meno. Certo, bisognerebbe poi capire i criteri con cui è stata effettuata la media, ma i numeri sono comunque orientativi.

(11) Comprende Polonia, Cekia, Slovacchia e Ungheria.

(12) Vedi il sito www.ilpost.it visitato il 13 aprile 2019 e P. Alfieri, Boom economico e no all'immigrazione: il dilemma di Orbàn, Avvenire del 5 aprile 2019.

(13) Vedi leftcom.org

(14) In un paese che ne ha poche migliaia...

(15) Però, nonostante la retorica della propaganda, il governo ungherese sollecita il reclutamento di manodopera dalla Bielorussia e dall'Ucraina, che ha il vantaggio, oltre a quello di costare ancora meno di quella autoctona, di essere di “cultura” europea, foglia di fico dell'ipocrita coscienza sovranista.

(16) M. Gabanelli e M.S. Natale, I paesi sovranisti prendono i soldi dall'Unione europea violandone i principi, Corriere della Sera, 5 maggio 2019.

Sabato, June 22, 2019