Saggio del profitto e composizione di classe

I cicli dell’accumulazione capitalista

Il capitalismo è un modo di produzione fortemente dinamico:

La borghesia non può esistere senza rivoluzionare continuamente gli strumenti di produzione, dunque i rapporti di produzione, dunque tutti i rapporti sociali (1).

L’evoluzione della struttura produttiva capitalista genera il continuo mutare della formazione sociale e, di conseguenza, della forma che assumono le classi sociali e i loro reciproci rapporti, il tutto fermo restando il rapporto fondamentale sul quale si fonda l’intero ordinamento capitalista, il rapporto capitale/lavoro.

Partiamo dal concetto di ciclo di accumulazione.

Grafico dell’andamento del saggio del profitto nei principali paesi capitalistici, da Esteban Ezequel Maito “The historical transience of capital”.

Un ciclo di accumulazione è dato dalla crescente accumulazione, aumento, di capitale. Il volume e il ritmo di tale accumulazione è dato dalla massa dei capitali investiti moltiplicati per il saggio di profitto che ne caratterizza il livello di valorizzazione. Il saggio del profitto esprime in quale misura il capitale investito si valorizzerà nel ciclo D-M-D’, ossia di quanto D’ sarà maggiore di D. La formula del saggio del profitto è data dal rapporto tra il plusvalore estorto e il capitale complessivo investito: pv/C. Per motivi che toccheremo più avanti, e che sono approfonditi altrove(2), il saggio del profitto è oggetto di una caduta tendenziale dovuta allo sviluppo delle forze produttive, ossia al progressivo aumentare della composizione organica del capitale Cc/Cv, che esprime il crescere della componente costante in misura proporzionalmente maggiore rispetto alla componente variabile. Si tratta della legge più importante analizzata da Marx ne “Il capitale(3). Quando la caduta da tendenziale si rende reale, ovvero gli effetti della legge iniziano a manifestarsi in maniera irreversibile, i profitti cadono al di sotto di quello che viene ritenuto il livello accettabile, “normale”, ossia il livello di saggio del profitto che ha caratterizzato l’esordio del ciclo di accumulazione. Quando questo accade il ciclo di accumulazione inizia a rallentare: si apre la fase della crisi strutturale di ciclo.

Detto in altri termini, un ciclo di accumulazione capitalista sussiste nella sua fase espansiva fintanto che il processo di accumulazione è in grado di realizzare saggi del profitto tali da superare le periodiche crisi congiunturali che lo attraversano, riattestando il saggio a livelli “normali”. A differenza della crisi strutturale (del ciclo di accumulazione), che ha dimensione storica e caratterizza la vita del capitale per decenni, le crisi congiunturali (commerciali, finanziarie) hanno la durata breve di pochi anni o mesi e dopo una certa distruzione di capitali (Capitale costante - Cc: fallimenti, riduzione dei prezzi dei macchinari e delle materie prime; e di Capitale variabile - Cv, svalutazione della forza-lavoro, licenziamenti, etc.) lasciano spazio a nuove fasi di crescita. Ma quando il capitale nel suo complesso non è più in grado di uscire dalle sue crisi congiunturali rianimando il saggio del profitto, che invece continua a cadere, ossia quando tutte le controtendenze poste in essere hanno difficoltà a ristabilire saggi soddisfacenti, allora il ciclo di accumulazione volge alla sua china discendente, in essa le crisi congiunturali continuano ad aggravare le condizioni proletarie, l’inevitabile sbocco di tale china – prima o dopo – è la guerra generalizzata: la guerra generalizzata è la grande livellatrice che azzerando masse immani di capitali e forze produttive (impianti, infrastrutture, forze-lavoro “in eccesso”) crea la condizione necessaria e sufficiente all’avviamento di un nuovo ciclo di accumulazione. Il nuovo ciclo vivrà a sua volta una fase di espansione caratterizzata da saggi di profitto più stabili ed elevati, fino ad entrare in una nuova fase di crisi.

Vediamo nel grafico (Fig. 1) come la caduta del saggio da tendenziale si è resa reale, incapace cioè a riportarlo ai livelli precedenti, in tre momenti storici: alla metà degli anni 1880, nel 1929, alla fine degli anni ‘60, periodi che segnano l’apertura delle crisi strutturali del primo, secondo e terzo ciclo di accumulazione. Notiamo ancora come solo le Guerre Mondiali apertesi nel 1914 e nel 1939 siano riuscite a rianimare il saggio in maniera importante e come una ripresa, minimale, del saggio sia avvenuta nel terzo ciclo a partire dai primi anni ‘80.

Nella fase di apertura della crisi strutturale del ciclo la caduta del saggio del profitto da tendenziale diventa reale, il saggio cioè cade senza riuscire a riprendersi in maniera significativa, senza riuscire a riportarsi ai livelli precedenti. Le controtendenze che il capitale pone in essere perdono parte della loro efficacia, ad ogni fase di ogni ciclo di accumulazione, inoltre, la società capitalista risulta fortemente modificata, come risulta modificata la specifica composizione della classe proletaria che di quella determinata fase è il prodotto.

Lo svilupparsi del modo di produzione capitalista è caratterizzato da cicli di accumulazione che percorrono le fasi di sviluppo (saggi di profitto elevati, “normali”), crisi (saggi di profitto che non riescono più a tornare ai livelli precedenti, “normali”), guerra generalizzata (distruzione generale di capitale variabile e costante), la parziale ripresa del saggio che avviene con la guerra apre le porte ad un nuovo ciclo di accumulazione.

L’accumulazione originaria

Il primo ciclo di accumulazione capitalista è nei fatti il proseguimento del lungo processo storico che prende il nome di accumulazione originaria. L’accumulazione del capitale presuppone il plusvalore e il plusvalore presuppone la produzione capitalistica; questa a sua volta presuppone la presenza di masse di capitale e di forza-lavoro di una considerevole entità in mano agli imprenditori produttori di merci. Da dove è nato il primo capitale e la prima massa di proletari che, venendo sfruttati, lo hanno prodotto? Il tutto origina da un accumulazione “originaria”, precedente l’accumulazione capitalistica stessa, un accumulazione che non è il risultato, ma il punto di partenza del modo di produzione capitalistica: del primo ciclo di accumulazione. (4)

In questo processo fanno epoca tutti i rivolgimenti che servono di leva alla classe dei capitalisti in formazione ma, sopratutto, i momenti nei quali grandi masse di uomini vengono staccate improvvisamente e con la forza dai loro mezzi di sussistenza e gettate sul mercato del lavoro come proletariato, uomini, donne, bambini, privi di alcuna proprietà al di fuori della propria forza lavorativa. L’Inghilterra fu il primo centro propulsore di questo processo. La classe dei lavoratori salariati, sorta già nella seconda metà del XIV secolo(5), formava allora e nel secolo successivo solo un elemento molto ristretto della popolazione. La subordinazione del lavoro al capitale era formale: al suo primo enuclearsi all’interno del modo di produzione feudale, il capitale sottomette i processi produttivi tradizionali - manifattura - senza dare ancora loro la forma specificamente capitalistica della grande industria. L’elemento variabile del capitale (il lavoro) qui prevale fortemente su quello costante (macchine). La composizione organica è molto bassa, gli alti saggi di profitto attirano nuovi investimenti di capitale che – in una società fondamentalmente contadina - reclamano nuove masse proletarie da sfruttare, così la richiesta di lavoro salariato cresce rapidamente ad ogni nuova accumulazione del capitale, mentre l’offerta di lavoro salariato segue solo lentamente, distaccando i contadini e gli artigiani dal possesso delle loro fonti di sostentamento.

Il processo che crea il rapporto capitalistico non può essere null’altro che il processo di separazione del lavoratore dalla proprietà delle proprie condizioni di lavoro, processo che da una parte trasforma in capitale i mezzi sociali di sussistenza e di produzione, dall’altra trasforma i produttori diretti in operai salariati. Dunque l’accumulazione originaria non è altro che il processo storico di separazione del produttore dai mezzi di produzione. È la preistoria del capitale: l’espropriazione degli artigiani, dei produttori rurali, dei contadini, e loro espulsione dalle terre, costituisce il fondamento di tutto il processo.

Nel XVI secolo si ha in tutta l’Europa occidentale una legislazione sanguinaria contro il vagabondaggio dei padri dell’attuale classe lavoratrice. Da qui in poi lo sviluppo organizzato del processo di produzione capitalistico spezza ogni resistenza: la costante produzione di una sovrappopolazione relativa (forza lavoro in cerca di impiego) tiene la legge dell’offerta e della domanda di lavoro, e quindi il salario, entro un binario che corrisponde ai bisogni di valorizzazione del capitale; la silenziosa coazione dei rapporti economici appone il suggello al dominio del capitalista sull’operaio.

La prima grande rivoluzione borghese, che ben prima della Rivoluzione Francese pose le basi politiche per lo Stato borghese moderno, la “Glorious Revolution” (1688/89) portò al potere con Guglielmo III d’Orange, gli appropriatori di plusvalore, i proprietari fondiari e capitalisti, che inaugurarono l’era nuova esercitando su scala colossale il furto ai danni dei beni demaniali che, fino a quel momento, era stato perpetrato solo su scala modesta. Nel corso del XVIII secolo la rivoluzione industriale muove i suoi primi passi. Di fatto l’usurpazione delle terre comunali e la concomitante rivoluzione agricola ebbero un effetto così acuto sugli operai agricoli che fra il 1765 e il 1780 il loro salario cominciò a scendere al di sotto del minimo e ad esser integrato mediante l’assistenza ufficiale ai poveri. La coalizione fra operai viene trattata come delitto grave a partire dal secolo XIV fino al 1825, anno dell’abolizione delle leggi contro le coalizioni. Gli statuti operai del 1349 e successivi stabiliscono a nome dello Stato il massimo di salario, non uno minimo. Solo nel 1813 vengono abolite le leggi sulla regolamentazione (al ribasso) dei salari.

La borghesia, fin dal suo primo affermarsi come classe egemone, ha bisogno del potere dello Stato e ne fa uso, per “regolare” il salario, cioè per costringerlo entro limiti convenienti a chi vuol fare del plusvalore, per prolungare la giornata lavorativa e per mantenere l’operaio stesso a un grado normale di dipendenza.

Il periodo della manifattura in senso proprio non conduce a una trasformazione radicale del modo di produrre: il processo di valorizzazione del capitale (D-M-D’) si attua attraverso la sottomissione formale dei processi produttivi tradizionali per come erano configurati alla fine dell’epoca feudale. Solo la grande industria offrirà, con le macchine, la base per la sottomissione reale del proletariato al capitale, accelererà in maniera esponenziale l’espropriazione radicale dell’enorme maggioranza della popolazione rurale e porterà a compimento il distacco fra agricoltura e industria domestica rurale, strappando le radici di quest’ultima… la filatura e la tessitura domestiche.

La scoperta delle terre aurifere e argentifere in America, lo sterminio e la riduzione in schiavitù della popolazione indios seppellita nelle miniere, l’incipiente conquista e il saccheggio delle Indie Orientali, la trasformazione dell’Africa in una riserva di schiavi neri (si calcola che fino a inizio ‘800 ne siano stati deportati 11 milioni), sono i segni che contraddistinguono l'alba dell’era della produzione propriamente capitalistica. Questi processi fondamentali dell’accumulazione originaria sono seguiti dalla guerra commerciale delle nazioni europee in tutto l’orbe terraqueo. La guerra commerciale si apre con la secessione dei Paesi Bassi dalla Spagna, assume proporzioni gigantesche nella guerra antigiacobina dell’Inghilterra e continua ancora nelle guerre dell’oppio contro la Cina, etc.

Il debito pubblico diventa una delle leve più energiche dell’accumulazione originaria: ha fatto nascere le società per azioni, il commercio di effetti negoziabili di ogni specie, l’aggiotaggio, in una parola, ha fatto nascere il gioco di Borsa e la bancocrazia moderna sostenendo con mezzi e infrastrutture le imprese nazionali e globali dei rapaci capitalisti emergenti. Fin dalla nascita le grandi banche agghindate di denominazioni nazionali non sono state altro che società di speculatori privati che si affiancavano ai governi e, grazie ai privilegi ottenuti, erano in grado di anticipare loro denaro.

Il sistema protezionistico è stato un espediente per fabbricare fabbricanti, per espropriare lavoratori indipendenti, per capitalizzare i mezzi nazionali di produzione e di sussistenza, per abbreviare con la forza il trapasso dal modo di produzione feudale a quello moderno.

Alla fine del XVII secolo i differenti momenti dell’accumulazione originaria vengono combinati sistematicamente in Inghilterra in sistema coloniale, sistema del debito pubblico, sistema tributario e protezionistico moderni. Tutti questi metodi si servono del potere dello Stato, violenza concentrata e organizzata della società, per fomentare artificialmente il processo di trasformazione del modo di produzione feudale in modo di produzione capitalistico e per accorciarne i passaggi. La violenza è la levatrice di ogni vecchia società, gravida di una società nuova. È essa stessa una potenza economica.

Sistema coloniale, debito pubblico, peso fiscale, protezionismo, guerre commerciali, ecc., tutti questi rampolli del periodo della manifattura in senso proprio crescono come giganti nel periodo d’infanzia della grande industria. La nascita di quest’ultima viene celebrata nel sangue dello sfruttamento di massa e della grande strage degli operai bambini.

Alla fine del XVIII secolo il processo di accumulazione originaria, intrecciatosi con la rivoluzione industriale che si va sviluppandosi dalla metà del secolo, è fondamentalmente concluso lasciando al scena al vero e proprio…

Primo ciclo dell’accumulazione capitalista

Il primo ciclo di accumulazione è il più lungo: inizia alla fine del XVIII secolo e si conclude con il deflagrare della Prima Guerra Mondiale. Si apre con la manifattura e si sviluppa intrecciandosi con i prodotti della prima rivoluzione industriale che, nel giro di qualche decennio, trasformerà completamente culture, usi, ma, soprattutto, processi produttivi. Il passaggio dalla sottomissione formale a quella reale, per mezzo delle macchine e della grande industria, produrrà per la prima volta un proletariato di massa nella accezione moderna di “operaio di fabbrica”.

Questa fase fu attraversata da periodi di fortissime crisi economiche cicliche che caratterizzarono sopratutto gli anni tra il 1800 e il 1848 e tra il 1873 e il 1890 (Grande Depressione). Furono crisi durissime che gettarono, specie la prima, il proletariato al limite della sopravvivenza dando l’avvio alle migrazioni di massa moderne (tra il 1820 e il 1940, 60 milioni di europei migrano verso le Americhe e l’Australia) ma alle quali il giovane capitalismo rieuscì a sopravvivere senza cadere nella guerra generalizzata. L’incremento della produttività del lavoro e lo sviluppo delle forze produttive, pur innalzando la composizione organica del capitale, ossia l'incremento del numero di macchine e industrie sempre più “efficaci”, a fronte di un incremento più contenuto della forza lavoro, tende ad abbattere i saggi del profitto che però si mantennnero sufficientemente alti, l’espansione del capitalismo nel mondo e, sopratutto, la creazione di nuovi rami produttivi permisero l’avvio di nuove accumulazioni e fecero sì che il capitalismo potesse continuare ad espandersi.

La prima rivoluzione industriale prende piede in Inghilterra tra la fine del XVIII e l'inizio del XIX secolo. Fu trainata dalla macchina a vapore e dalla costruzione di una imponente rete ferroviaria, coincise con il diffondersi del macchinismo e della grande industria, rese arcaiche molte attività produttive ereditate dal feudalesimo ma aprì importanti nuovi settori produttivi che occuparono masse enormi di operai produttori di valore come nella siderurgia, nella meccanica, nell’estrazione carbonifera, etc.

Nel corso dell’800 le grandi masse di operai divennero preponderanti rispetto agli artigiani e si manifestarono i primi grandi episodi rivoluzionari (1848, 1871), sebbene ancora ai tempi della prima Internazionale la maggior parte dei suoi membri fossero operai qualificati e artigiani. Alla fine del XIX secolo in tutti i paesi europei nacquero i partiti socialdemocratici come rappresentanza ufficiale di questa classe in costante ascesa, se non altro numerica, sempre più assimilabile ai moderni operai. Il secolare processo di accumulazione iniziò però a rallentare fortemente al chiudersi del XIX secolo: la conquista di nuovi mercati, lo svilupparsi di nuove branche produttive, e tutte le controtendenze alla caduta del saggio poste in essere, non furono più sufficienti a far tornare i livelli di remunerazione del capitale a misure paragonabili a quelli che caratterizzarono un secolo di intensa industrializzazione e accumulazione capitalista. L’avvio della seconda rivoluzione industriale non riuscì ad invertire il corso degli eventi con un saggio del profitto che continuò a cadere. Conseguenza di questo processo storico fu che le potenze affermatesi a fine ‘800 videro crescere a tal punto la concorrenza tra loro che questa sfociò nell’imperialismo che garantì loro l’accesso a nuovi mercati di vendita per i prodotti nazionali e di accaparrarsi materie prime e risorse energetiche a basso costo_._ Tuttavia questi fattori non furono sufficienti, dimostrando nei fatti come il motore della crisi capitalista non sta nella limitatezza dei mercati di sbocco delle merci, ma nei saggi di profitto che ne regolano la produzione. La crisi strutturale del primo ciclo di accumulazione del capitale si chiuse con la Prima Guerra Mondiale e i suoi quasi 20 milioni di morti.

La prima guerra mondiale rappresentò la conclusione del primo ciclo di accumulazione capitalista. La classe lavoratrice vi era entrata come massa di lavoratori manifatturieri semi-feudali, uscendone un secolo dopo come proletari dipendenti di gigantesche industrie che occupavano migliaia e migliaia di lavoratori irreggimentati dal regime di fabbrica, pronti ad essere mobilitati a milioni in tempo di guerra.

Il secondo ciclo di accumulazione capitalista

Il secondo ciclo di accumulazione è brevissimo e porta rapidamente al massimo sviluppo le contraddizioni lasciate fondamentalmente irrisolte dal primo conflitto mondiale. Innanzi tutto vi è stata la Rivoluzione Russa che ha riempito di terrore la borghesia internazionale pronta a tutto pur di non rischiare di perdere il proprio privilegio economico e sociale.

Nei paesi dove il movimento dei lavoratori è stato più forte, come in Italia e Germania, non si farà scrupoli nel finanziare i nascenti fascismi in chiave anti-comunista. Nel periodo tra le due guerre in Europa, Stati Uniti e Russia i processi di concentrazione e centralizzazione del capitale (che dettero vita all’imperialismo di fine XIX secolo) trovano una spinta favolosa con l’enorme incremento dell’influenza dello Stato borghese nel controllo delle variabili economiche e la diffusione di spazi di vero e proprio capitalismo di stato (per altro il modello economico che soffocherà il proletariato rivoluzionario in Russia). Purtuttavia la maggior parte dell'economia mondiale rimaneva ancora soggetta alle leggi del libero-scambismo. Il secondo ciclo di accumulazione si intreccia strettamente con il definitivo affermarsi, in tutte le sue implicazioni, della seconda rivoluzione industriale che, avviata alla fine del XIX secolo, vede un rapido e profondo diffondersi proprio tra le due guerre. Grandissimi sono gli sconvolgimenti portati dalla strettissima simbiosi ora in essere tra scienza, tecnologia e industria, che culmina con la produzione di massa di automobili e annesse nuovi importantissime specializzazioni industriali relative alla siderurgia, ma anche alla gomma, all’industria del petrolio (estrazione, trasporto, raffinazione, distribuzione e produzione di derivati tra i quali la plastica), lo sviluppo dell’uso dell’elettricità e l’elettrificazione delle città e dei paesi, i passi da gigante della chimica e della fisica. Il diffondersi dell’automobile dà nuovo impulso all’industria delle infrastrutture stradali, oltre che alle “grandi opere”, della strumentazione, etc.

La fabbrica che si impone tra la fine del primo e lo svolgersi del secondo ciclo di accumulazione capitalista, sulla scorta dei progressi della seconda rivoluzione industriale, è completamente differente dalle gigantesche ruote dentate mosse da colossali caldaie a vapore che hanno caratterizzato l’esordio del primo ciclo di accumulazione. Ora siamo nell’organizzazione scientifica del lavoro, l’operaio non è più al contempo esecutore, aggiustatore, supervisore, conoscitore del processo produttivo nel quale è inserito, non è più colui che usa con “competenza e consapevolezza” l’utensile animato dall’energia della macchina a vapore. Si fa strada la catena di montaggio, il macchinario elettrico, è l’epoca della piena diffusione del taylorismo e del fordismo, della massificazione dell’operaio alla catena di montaggio e della parcellizzazione delle sue operazioni produttive, pur rimanendo differenziata la composizione degli operai di fabbrica in specializzati/qualificati/generici.

Un epoca di rapidissimo sviluppo… avvenuto sulla base di una non soddisfacente distruzione del capitale accumulato nel precedente ciclo e quindi di preparazione del nuovo macello imperialista. La guerra di trincea che ha insanguinato per anni l’Europa ha infatti sì massacrato milioni di uomini, ma ha lasciato fondamentalmente intatti gli impianti produttivi: l’alta composizione organica induce, nei primi 10 anni del Dopo Guerra, bassi saggi di profitto, il ciclo di accumulazione si inceppa nuovamente dopo neanche 10 anni, è il 1929.

La grande crisi del Ventinove è stata generata dalle contraddizioni del capitalismo, ma la sua gestione da parte del Governo statunitense ha sicuramente accelerato la depressione economica. Al verificarsi del crollo della borsa di New York le autorità monetarie statunitensi, anziché immettere liquidità nel sistema (come è avvenuto, ultimo esempio, a partire dal 2008), aumentano il tasso di sconto, con la conseguenza di aggravare ulteriormente la situazione del mercato finanziario americano e internazionale. Al crollo finanziario segue la depressione dell'economia reale, con la caduta verticale della produzione industriale e la chiusura di una miriade di piccole e medie fabbriche. L'intervento dello Stato nell'economia, il rinforzarsi dei monopoli, la gestione centralizzata della leva finanziaria e, sopratutto, l’enorme svalutazione di capitali seguita alla Grande Depressione permettono al saggio del profitto di rialzarsi ma non tanto da impedire agli imperialismi di entrare nuovamente in conflitto tra loro. È la Seconda Guerra Mondiale e il massacro di almeno 70 milioni di proletari. Questa volta la devastazione è totale: alla fine della guerra l’Europa è ridotta ad un cumulo di macerie.

Il terzo ciclo di accumulazione capitalista

Nella storia del capitalismo i cicli di accumulazione si sono combinati con i progressi tecnologici e industriali noti come Rivoluzioni Industriali, riconfigurando di volta in volta l’intero sistema delle relazioni produttive. Ogni volta che l’apparato produttivo evolveva l’accumulazione ne traeva una spinta enorme, il saggio momentaneamente si rianimava anche per la creazione di nuovi rami produttivi, la composizione di classe veniva modificata. Il modo di produzione propriamente capitalista permeava ogni poro della società, si diffondeva nel globo, produceva strumenti sempre più efficaci per la sua gestione (ruolo dello Stato, del capitale finanziario, delle banche, intreccio sempre più stretto tra scienza e tecnica produttiva…).

Le guerre hanno costituito un ulteriore importante fattore di accelerazione. La prima guerra mondiale inizia con gli assalti alla baionetta e si chiude con i primi aerei da guerra, carri armati, corazzate. La seconda addirittura arriva ai sommergibili e alla bomba atomica. Questo immane progresso tecnico influisce profondamente nel definire la struttura produttiva di valore che sostiene l’intero edificio capitalista. Ad ogni fase corrisponde una sempre più imponente accumulazione di capitali, la loro concentrazione in masse compatte in cerca di valorizzazione, la loro centralizzazione in sempre meno mani.

Il capitale finanziario diventa il motore del radicamento del modo di produzione specificamente capitalistico nel globo intero, questo significa che le popolazioni dei paesi periferici, per tutto il ‘900 vengono dapprima sottomesse formalmente al dominio del capitale metropolitano con le colonie, poi inizia l’impianto nei paesi periferici di centri produttivi industriali veri e propri che si sviluppano nel processo di decolonizzazione che è un fenomeno tipico del terzo ciclo di accumulazione del capitale. La sottomissione diviene sempre più reale: nella periferia del capitale masse di contadini vengono progressivamente espropriati delle loro terre o cacciati per riversarsi nelle città dove fiorisce l’industria capitalista dapprima grazie al capitale finanziario dei paesi metropolitani, poi, in alcune aree e per alcuni paesi, sempre più per virtù di un rafforzamento della propria borghesia. Tale fenomeno trova il suo culmine con le delocalizzazioni degli anni ‘80 e seguenti. La Cina è un esempio tipico. La “rivoluzione culturale” non fu che un processo di proletarizzazione in scala gigantesca che legò alle catene del lavoro salariato milioni di contadini strappati alle campagne e deportati nelle città. Il boom cinese degli ultimi 20 anni non è altro che l’affermazione del massimo sviluppo possibile del modo di produzione capitalista in quella parte del pianeta, caratterizzata da salari irrisori rispetto a quelli occidentali. Sono tali bassi salari che hanno favorito l'ingresso di capitali e tecnologie avanzate.

Il tratto essenziale del modo di produzione capitalista è di produrre plusvalore riproducendo su scala sempre più gigantesca il rapporto capitale-lavoro: il lavoratore salariato è il primo e principale prodotto, nonché condizione, del modo di produzione capitalista.

Il terzo ciclo di accumulazione del capitale si apre con gli Stati Uniti come potenza imperialista vincitrice. La guerra non ha toccato il loro apparato produttivo mentre ha devastato il resto del mondo che quindi può essere invaso da merci USA, inondato di dollari il cui valore è sostenuto dallo strapotere economico/militare USA, fenomeno che va sotto il nome di Ricostruzione. Si apre un trentennio nel quale l’organizzazione fordista del lavoro si diffonde e si estende incontrastata in tutta la metropoli capitalista, portando alle estreme conseguenze gli sviluppi dell’industria chimica, petrolifera, automobilistica, elettrica, avviati con la seconda rivoluzione industriale. I livelli di sfruttamento sono altissimi e provocano alcune lotte di resistenza nei bui anni ‘50 della ricostruzione, ma negli anni ‘60 siamo in pieno boom economico. A sinistra gli operaisti teorizzano il superamento della legge del valore e sembra loro che il capitalismo, con la programmazione economica, abbia finalmente superato le proprie contraddizioni, in primis quella della caduta del saggio del profitto… ma sono gli Stati Uniti, centro vitale del processo d'accumulazione su scala mondiale, a manifestare i primi segnali della nuova crisi strutturale. Gli operaisti, che tanto seguito ebbero in Italia, ritennero che a mettere in crisi il capitale furono le lotte operaie, per altro operanti prevalentemente su di un terreno difensivo, dimostrando di non aver capito nulla: il motore della crisi è e rimane la caduta tendenziale del saggio di profitto.

Rallentamento del tasso di crescita del prodotto interno lordo, perdita di competitività sui mercati internazionali, caduta dei saggi del profitto e continuo peggioramento nella bilancia commerciale sono i segni più evidenti che il trend di crescita dell'economia americana e di conseguenza di quella mondiale sta per esaurirsi: è l’apertura della crisi strutturale del terzo ciclo di accumulazione del capitale.

Nel frattempo il carattere ormai dominante del monopolio che ha definitivamente spazzato via la fase libero scambista, la crescente concentrazione e centralizzazione dei capitali, il ruolo sempre più centrale dello Stato come gestore delle variabili macroeconomiche, la generalizzazione dei contratti collettivi di lavoro, le nuove norme sul diritto di sciopero e gli attacchi normativi al mercato del lavoro, hanno profondamente trasformato la funzione del sindacato rispetto a quella che svolse nel primo e, in parte, nel secondo ciclo di accumulazione.

Divenuto parte integrante dell'apparato di Stato, ridotto a strumento indispensabile per il sostegno dell'economia nazionale e a fattore organico della conservazione del modo di produzione capitalistico (all'interno delle sue leggi e delle sue compatibilità), il sindacato ha completamente perso anche quelle ultime apparenze di un organismo intermedio e apolitico che, ancora nei primi anni della Terza Internazionale di Lenin, lo facevano ritenere utilizzabile dal Partito per farne uno strumento di sostegno alla rivoluzione. (6)

La crisi in sé

Per Marx il problema non è quello del sottoconsumo e della sovrapproduzione(7), l’aspetto determinante della contraddizione non risiede nell’inevitabile disequilibrio tra produzione e distribuzione e consumo. La contraddizione fondamentale che induce ed esaspera tute le altre, comprese quelle appena citate, sta nel capitale stesso e nel suo rapporto con la forza lavoro, rapporto che è al contempo punto di partenza e limite al suo processo di valorizzazione. È ai meccanismi che regolano l’accumulazione che bisogna riandare per avere una più corretta visione del problema. Accumulare significa creare, di produzione in riproduzione, una quantità di plusvalore sempre più grande e ciò era possibile, in periodo di libero scambio, solo a due condizioni: o prolungando la giornata lavorativa e lasciando pressoché immutato il rapporto organico del capitale, oppure diminuendo il tempo di lavoro necessario, accumulando proporzionalmente più in macchine (capitale morto, c) che in mano d’opera (capitale vivo, v) andando così a modificare al rialzo la composizione organica del capitale (c/v). Storicamente il capitalismo, dopo la prima fase (manifattura) in cui batté la strada del prolungamento della giornata lavorativa, fu necessariamente costretto a ripiegare sulla seconda (macchinario). Ma il costante aumento del rapporto organico (c/v) innesca la caduta del saggio del profitto. L’accumulazione porta con sé la caduta del saggio del profitto che a sua volta accelera il processo di concentrazione: il tentativo di uscire dal circolo vizioso aumentando la massa del plusvalore estorto attraverso l’incremento della produttività (qui come sviluppo delle forze produttive) non fa altro che riprodurre il problema su scala allargata, aggravandolo. La caduta del saggio del profitto è conseguenza e motore dell’accumulazione capitalistica nelle specifiche condizioni date dal rapporto capitale/forza-lavoro e del suo evolversi. Sino a quando l’aumento della produttività del lavoro, e quindi di creazione di plus-valore, si mantiene superiore al tasso di caduta del saggio del profitto, il sistema può assolvere alle esigenze di valorizzazione del capitale (questa condizione è data dall’intensificazione dello sfruttamento operaio senza modificare la composizione organica). Quando l’espansione della produzione non è accompagnata da una sufficiente redditività, il processo di accumulazione rallenta. La progressiva difficoltà di valorizzazione del capitale e del conseguente processo di accumulazione costituisce il manifestarsi della crisi capitalistica. Essa appare come sovrapproduzione di capitale, che, secondo Marx, “non è altro che sovrapproduzione di mezzi di produzione – mezzi di lavoro e di sussistenza – che possono operare come capitale, ossia essere impiegati allo sfruttamento degli operai a un dato grado determinato, poiché la diminuzione del grado di sfruttamento al di sotto di un livello determinato provoca delle perturbazioni… crisi, distruzioni di capitale.”

Definiamo crisi strutturale del capitalismo quel complesso fenomeno economico determinato dalla caduta del saggio del profitto, ossia dalla caduta del rapporto tra profitti ricavati in base agli investimenti effettuati (Pv/C), che rallenta il processo di accumulazione del capitale ed incrementa la tendenza al restringimento del mercato. Il suo centro motore è nell’incremento della composizione organica causato dalla ricerca di un aumento nello sfruttamento del lavoro (pv/v), ossia nell'aumento della produttività del lavoro sulla base dello sviluppo delle forze produttive, ovvero di un incremento dello sfruttamento della forza-lavoro attraverso l'uso del plusvalore relativo.

La caduta del saggio del profitto impone al capitale di porre in essere tutta una una serie di controtendenze finalizzate a rianimare i saggi di profitto in caduta. Ma per quanto le controtendenze riescano a rianimare il saggio del profitto, le contraddizioni che sono alla base della sua caduta continuano ad operare.

Vediamo quindi nello specifico quali sono le controtendenze principali che Marx elenca:

  • L’aumento del grado di sfruttamento del lavoro, ossia l’intensificazione dei ritmi lavorativi e l’allungamento della giornata lavorativa, ossia l’estrazione di plusvalore assoluto e non di quello relativo.
  • La riduzione del salario al di sotto del valore della forza-lavoro, ossia l’attacco al salario che nell’epoca moderna prende la forma di attacco al salario diretto, indiretto e differito.
  • La diminuzione del prezzo degli elementi del capitale costante: l’aumento della produttività del lavoro per mezzo dell’incremento della composizione organica del capitale è alla base della caduta del saggio del profitto, ma è pur vero che i nuovi processi produttivi “più produttivi” riducono il valore delle merci. Quando queste merci rientrano nel processo produttivo sotto forma di capitale costante la riduzione del loro valore fa sì che l’aumento della composizione organica del capitale Cc/Cv risulti attenuata, influendo positivamente sul saggio generale del profitto (anche se, va detto, la svalorizzazione di C è di solito inferiore a quella di V). Lo stesso processo agisce nelle crisi quando i capitali concentrati possono acquistare “a prezzo di svendita” gli impianti delle aziende che falliscono.
  • La sovrappopolazione relativa: l’abbondanza di forza lavoro non occupata fa sì che nuovi rami produttivi possano svilupparsi servendosi di questo surplus di forze. Laddove la composizione organica di questi nuovi rami è più bassa i saggi del profitto sono più alti e contribuiscono a rianimare il saggio in generale, almeno nel breve periodo.
  • Il commercio estero che, oltre a garantire materie prime a basso costo, permette ai paesi metropolitani di appropriarsi dei profitti realizzati nella periferia, dove la composizione organica è più bassa e il saggio più alto.
  • L’accrescimento del capitale azionario: Marx parla della crescita del capitale produttivo di interessi, come vedremo oltre (e abbiamo visto altrove nelle nostre pubblicazioni) oggi questo fattore è diventato preponderante attraverso la produzione massiva di capitale finanziario prima, fittizio poi, tanto che oggi la massa di capitale circolante è oltre dodici volte il Prodotto Interno Lordo mondiale. Questo fenomeno tende a “drogare” artificialmente il saggio del profitto provocando nuove bolle finanziarie (immobiliare, delle valute, speculative, dei debiti sovrani) destinate a deflagrare.

Ognuna di queste controtendenze nel migliore dei casi incontra dei limiti oggettivi alla sua applicazione (come l’allungamento della giornata lavorativa), nel peggiore non fa che inasprire la contraddizione che esploderà in forma ancora più devastante, sebbene temporalmente differita (come le bolle speculative).

Tutti questi interventi nascono per arginare la caduta del saggio dovuta all’incremento della produttività attraverso l’aumento della composizione organica del capitale (sviluppo delle forze produttive), modificano profondamente la forma produttiva capitalista andando a ridefinire di volta in volta la composizione di classe proletaria. Quando questi interventi incontrano il loro limite i saggi di profitto riprendono a declinare e la crisi, divenuta strutturale, si inasprisce ulteriormente.

Stiamo oggi vivendo nella crisi strutturale del terzo ciclo di accumulazione del capitale. Come sempre il proletariato, principale prodotto di massa della produzione capitalista, ne esce stravolto nella sua identità e composizione, pur continuando a rappresentare l’unica forza sociale capace di interrompere la perversa spirale.

1971: si apre la crisi del terzo ciclo di accumulazione del capitale

L’Europa, il Giappone e l’URSS (i principali concorrenti degli USA) escono dalla guerra con l’apparato industriale profondamente danneggiato: i bombardamenti hanno messo l’economia mondiale in ginocchio con un unico grande vincitore, gli USA, minacciati solamente da una potenza a capitalismo molto giovane, l’URSS. Si aprono gli anni del boom e del miracolo economico che si va a innestare su di un apparato industriale che rappresenta l’apice raggiunto dalla seconda rivoluzione industriale. L’economia, dopo due guerre mondiali, è fondamentalmente globalizzata sia per quanto riguarda la divisione internazionale del lavoro, sia per il ruolo che vi svolge il capitale finanziario.

Il processo si inceppa alla fine dei ‘60 quando nel nuovo cuore del capitalismo mondiale, gli USA, la crisi strutturale incomincia a manifestarsi con un rallentamento della crescita economica e un incremento dell’inflazione (stagflazione). Nel 1971 gli USA, guidati da Nixon, reagiscono: è l’apertura della crisi di ciclo che si esprime con le seguenti svolte: 1) svalutazione del dollaro; 2) istituzione di dazi doganali per limitare la competitività delle merci di importazione. Questi due passaggi garantiscono agli Stati Uniti un forte recupero di competitività nei confronti delle merci estere. 3) vengono denunciati gli accordi di Bretton Woods ponendo fine alla reversibilità del dollaro in oro; quest’ultimo passaggio fa sì che non più l’oro, ma il dollaro diventi l’equivalente di scambio universale, sostenuto esclusivamente dallo strapotere militare imperialista degli USA stessi. Il sistema economico uscito dalla Seconda Guerra Mondiale prevede che, nel mondo, chiunque scambi merci (a partire dal petrolio) debba passare dal dollaro, il che garantisce agli USA un enorme vantaggio fondato sull’iper-circolazione della loro valuta (signoraggio del dollaro) e pone le premesse per l’esplosione del capitale finanziario di stampo speculativo (derivati, futures, CDO…) caratterizzato dalla circolazione di titoli azionari, sempre più slegati dalla reale valorizzazione nella produzione reale, che inizierà a decollare nei ‘70 e caratterizzerà i decenni successivi fino ad oggi.

La caduta del saggio di profitto si è resa manifesta, sempre più capitali inizieranno a svincolarsi dalla poco redditizia produzione industriale per volare verso la più “sicura” attività finanziaria. “Sicura” nel breve termine, ma foriera di imponenti crisi finanziarie nel medio e lungo termine (come sanno bene i piccoli e medi risparmiatori che hanno perso tutto nelle crisi finanziarie dell’ultimo trentennio). Una lunga serie di crisi congiunturali seguiranno negli anni della crisi strutturale del terzo ciclo di accumulazione: la “crisi energetica” del ‘73, la “seconda crisi petrolifera” del ‘79, il crollo dell’Impero Sovietico dell‘89/’91, le crisi finanziarie del 1994 in Messico, del ‘97 nel sud-est asiatico, del ‘98 in Russia, del ‘98-’99 in Brasile, del 2001 in Argentina. La crisi dei sub-prime del 2007 è solo l’ultima in ordine di tempo, in attesa delle prossime, prevedibilmente ancora più vaste e distruttive.

Torniamo agli anni ‘70. Questi interventi garantirono agli USA un enorme vantaggio imperialista e industriale mentre agli altri, Stati Europei in testa, non rimase che alimentare la produttività delle proprie industrie e la competitività delle proprie merci attraverso importanti interventi di ristrutturazione industriale, ristrutturazione già in corso d’opera negli USA.

Puntualmente, almeno dall’indomani dello shock petrolifero del 1973, inizia tale processo di ristrutturazione che avviene in stretto rapporto con la nascitura terza rivoluzione industriale: la rivoluzione del micro-processore.

Ingenti sono in questa fase i trasferimenti di fondi pubblici, statali, alle aziende private per sostenerne la ristrutturazione, ovvero per aumentare la produttività del lavoro che, per noi marxisti, lo ricordiamo, si esprime nel rapporto tra plusvalore estorto e investimento di capitale in forza-lavoro, ossia nel rapporto Pv/Cv. Il primo effetto di tali ristrutturazioni è quello di un repentino aumento della disoccupazione che, in Europa, da congiunturale e pressoché contenuta nei limiti fisiologici fino a tutti gli anni ‘60, diventa strutturale e in costante aumento a partire dagli anni ‘70.

Il secondo effetto è quello di un imponente contenimento dei salari che dalla fine degli anni ‘70 saranno in continua caduta sia in termini di potere d’acquisto reale, sia come quota di PIL destinata ai salari, sia nel rapporto tra profitti e salari. (8)

Queste enormi ristrutturazioni, l’incremento strutturale della disoccupazione e il seguente attacco ai salari nelle diverse forme (diretto, indiretto, differito) porteranno alla necessità da parte dello Stato di intervenire per garantire la pace sociale attraverso una certa tolleranza del lavoro nero finalizzato a sostenere i redditi in calo (va notato che il lavoro nero contribuisce ad abbassare il “costo del lavoro” per molte imprese sopratutto piccole), ma sopratutto attraverso la cassa integrazione, i sussidi di disoccupazione, lo sviluppo del terzo settore. Aumentare la produttività per addetto attraverso la ristrutturazione industriale significa produrre più merci con meno lavoratori, quindi aumentare la massa di capitale costante in rapporto al capitale variabile, ossia incrementare la composizione organica del capitale il che, come abbiamo visto, al netto delle controtendenze, alimenta nel medio e lungo periodo la caduta del saggio di profitto e quindi la dinamica della crisi. Certo, aumentando la massa di merci prodotte aumenta la massa dei profitti, ma essendo che ogni singola merce contiene, in proporzione, meno lavoro umano (valore) e in assoluto, rispetto a prima, meno plus-valore(9) questo fa si che il saggio del profitto, comunque, cada: la contraddizione tra aumento della massa dei profitti e caduta del saggio è solo apparente come argomenta abbondantemente Marx.(10) La parziale ripresa del saggio del profitto che si ha a partire dai primi anni ‘80 non solo non è sufficiente a riportare il saggio ai livelli “normali” pre-crisi, ma è dovuta all’operare sostanzialmente di due fattori: 1) l’importante compressione salariale, l’allungamento di fatto della giornata lavorativa e dei livelli di sfruttamento di quei lavoratori che continuano ad essere impiegati nel ciclo produttivo, oltre che all’abbattimento del valore della forza-lavoro che si è avuta attraverso la delocalizzazione di alcuni processi produttivi nei paesi della periferia capitalista dove la forza lavoro costa poco o pochissimo (=riduzione del salario al di sotto del suo valore); 2) al fatto che molte grandi aziende hanno iniziato a contabilizzare nei loro bilanci i profitti “fittizi” dovuti all’attività finanziario-speculativa.

La terza rivoluzione industriale ha contribuito, con l’automazione, ad aumentare enormemente la produttività del lavoro ma, a differenza delle rivoluzioni industriali precedenti, non ha creato nuovi rami produttivi nei quali il capitale potesse espandersi. La produzione mondiale di merci, come la popolazione, è in costante aumento, ma non vi sono nuovi ambiti produttivi che possono avviare nuove accumulazioni di capitale: gli unici ambiti che si espandono ora sono quelli relativi alla circolazione come servizi, commercio, pubblicità, i quali non creano valore ex-novo ma si nutrono del plusvalore già circolante sotto forma di reddito. Questo significa che sebbene il mondo intero sia ormai sottoposto al dominio totale del capitale, sebbene la popolazione mondiale cresca e con essa crescano le merci vendute… il saggio di profitto non si rianima, non si creano nuovi rami di produzione capaci di veicolare una nuova ripresa, la sovra-popolazione relativa, specie nella metropoli capitalista, viene riassorbita solo in maniera parziale e precaria e per lo più nelle attività legate alla circolazione, non nella produzione.

Il boom dei servizi, attività commerciali e pubblicitarie, non alimenta una nuova accumulazione di capitali, bensì si inserisce “parassitariamente” nella circolazione del plusvalore prodotto nelle attività produttive, nelle fabbriche. Quando il plus-valore viene estorto all’operaio questo si suddivide in profitto dell’imprenditore, in rendita del proprietario immobiliare e in interesse del banchiere che ha anticipato il capitale. È la circolazione di queste fonti di reddito ad andare a gonfiare lo sviluppo dei servizi che quindi si nutrono di una parte del plusvalore prodotto in fabbrica (nell’economia reale), senza generarne di nuovo.

L’impatto della terza rivoluzione industriale nella produzione

Chiamiamo Terza rivoluzione industriale, la trasformazione dei processi produttivi fondata sul microprocessore, sull’informatica, sulla telecomunicazione. Fenomeno che si dispiega a partire dai primi anni ‘70 per arrivare fino a noi.

A differenza delle precedenti, la terza rivoluzione industriale ha due caratteristiche che la rendono assolutamente peculiare: 1) nasce nella crisi del terzo ciclo di accumulazione del capitale e pur stravolgendo in breve tempo l’intero impianto delle relazioni produttive e sociali ereditate dall’epoca precedente non riesce produrre una nuova fase di espansione; 2) non genera nuovi settori produttivi capaci di riassorbire la forza lavoro espulsa dalle attività produttive automatizzate.

Alla fine degli anni ‘60 a livello tecnologico esistevano ormai tutte le premesse per “il grande salto”: dalla valvola termoionica si era passati al transistor, i circuiti integrati erano in via di miniaturizzazione, i primi computer iniziavano ad essere utilizzati nelle amministrazioni e nel controllo della produzione, nonostante ancora a metà degli anni ‘70 alcuni colossi come l’IBM fossero in dubbio sulla diffusione di massa dei personal computer, la necessità di recuperare margini di competitività rispetto al capitalismo americano obbligò le aziende europee, russe e giapponesi a fare di necessità virtù iniziando ad investire in maniera sempre più massiccia nell’aumento della produttività attraverso l’automazione.

I circuiti elettronici, i microcomponenti, le memorie di massa su cui si fondano i nuovi calcolatori sono però prodotti da un pugno di aziende iper-tecnologiche, con un impiego di mano d’opera neanche lontanamente paragonabile all’allargamento della sfera produttiva operato dai processi che attivarono la produzione di locomotive, macchine a vapore e l’estrazione di carbone la prima, la produzione di automobili, lo sviluppo dell’industria chimica e petrolifera la seconda rivoluzione industriale. Con lo sviluppo della telematica sorgerà sì l’esigenza di nuove centrali elettroniche, di portare ovunque la fibra ottica, di implementare il sistema delle trasmissioni via etere, ma niente a che vedere con la quantità di risorse e forza-lavoro messa in moto dalla diffusione della strada ferrata e della strada bituminosa.

Mentre scompaiono interi settori industriali, la manodopera viene sostituita in massa dalle macchine automatizzate, il controllo remoto via terminale riduce di moltissimo gli addetti al controllo degli operai e delle macchine. A livello industriale i nuovi rami produttivi che si aprono sono quelli della progettazione hardware, dell’elaborazione dei software, sopratutto per l’automazione, della produzione di calcolatori e poi di computer e poi di dispositivi elettronici sempre più avanzati. Ma anche questi sono prodotti da un pugno di aziende, per lo più in stabilimenti delocalizzati in aree del pianeta dove la forza lavoro costa poco o pochissimo e ad altissima automazione, con un impatto ridotto in termini di occupazione di forza-lavoro e di rianimazione del saggio del profitto. L’unico settore che veramente si espande in termini occupazionali è quello dei servizi legati alle attività commerciali e pubblicitarie.

Nei fatti la terza rivoluzione industriale, con l’automazione dei processi produttivi, ha rappresentato la più grande trasformazione delle relazioni sociali e produttive da quando esiste il capitalismo e, al contempo, il più grande acceleratore delle sue contraddizioni che, mai come oggi, si mostrano in tutta la loro insolubilità.

La parola d’ordine per tutti gli anni ‘80-’90 è flessibilità e just in time: alla concentrazione di fatto delle proprietà di interi rami aziendali in sempre meno mani corrisponde una frammentazione dei processi produttivi sul territorio. Numeri ridotti di lavoratori (i licenziamenti più o meno di massa si susseguono ininterrottamente) dispersi in oasi produttive iper-tecnologiche sul territorio danno la possibilità di gestire al meglio le variabili del processo produttivo riducendo al minimo il rischio di conflittualità insito nel concentrare – come nei decenni precedenti – grandi masse di lavoratori in un luogo solo. Ancora una volta la caduta del saggio di profitto e la ricerca del massimo incremento di produttività sono la causa di profondi stravolgimenti nella composizione di classe proletaria e nella sua relazione con la classe avversa. È a questo punto che dovrà innestarsi l’analisi della composizione di classe proletaria oggi e delle sue ricadute in senso politico.

Lotus

(1) Cfr. Manifesto comunista, 1848.

(2) Vedi tra gli altri Prometeo, 1988, “Considerazioni e verifiche sulla caduta del saggio di profitto”, in leftcom.org

(3) Cfr. Il capitale, libro III, cap. XIII, “La legge in quanto tale”.

(4) Cfr. qui e seguenti Il capitale, libro I, cap. XXIV, “La cosiddetta accumulazione originaria”.

(5) Storica fu la prima rivolta proletaria, il “Tumulto dei Ciompi”, 1378.

(6) Cfr. Prometeo 1996, “Tesi sul sindacato oggi e la classe proletaria”, in leftcom.org

(7) Cfr, 1978, “Sulla teoria della crisi in generale”, in leftcom.org

(8) ilfattoquotidiano.it

Questi grafici sono utilizzati a puro fine dimostrativo di un trend, non è qui nostro interesse dissertare sulle diverse modalità di rilevazione del dato che, in ogni caso, non possono nascondere la dinamica reale nella sua generalità. Va comunque rilevato che a partire dagli anni’90 i meccanismi di rilevazione della disoccupazione tendono a “nascondere” la reale entità del fenomeno.

(9) Aumentando la produttività per mezzo dell’incremento della composizione organica, il saggio del plusvalore pv/v cresce pur riducendosi la quantità complessiva di valore contenuto nella merce, questo significa che in assoluto il plusvalore per singola merce cala, pur aumentando il plus-lavoro in relazione al lavoro necessario, ovvero, il che è lo stesso, aumentando proporzionalmente per ogni singola merce la quota di valore che va al profitto rispetto a quella che va al salario.

(10) Cfr. Il capitale, libro III, cap. XV, “Sviluppo delle contraddizioni intrinseche della legge”.

Venerdì, February 21, 2020