Errico Malatesta: Al caffè - Discutendo di rivoluzione e anarchia - Parte terza

Capitolo XIII

Ambrogio. - Dunque stasera ci parlerete dei mezzi coi quali vi proponete di raggiungere i vostri ideali... di fare l'anarchia.

Già me lo immagino. Saranno bombe, massacri, fucilazioni sommarie; e poi saccheggi, incendi e simili dolcezze.

Giorgio. - Voi, mio caro signore, avete semplicemente sbagliato di indirizzo: voi avete creduto di parlare con qualche ufficiale di quelli che comandano i soldati europei, quando vanno a civilizzare l'Africa o l' Asia, o quando si civilizzano tra di loro in Europa.

Io non sono tale, vi prego crederlo.

Cesare - Io credo, signor presidente, che il nostro amico, il quale ci ha infine mostrato che è un giovane ragionevole sebbene troppo sognatore, aspetta il trionfo delle idee dall'evoluzione naturale della società, dal propagarsi dell'istruzione, dai progresso della scienza, dallo sviluppo della produzione.

E dopo tutto, non c'è niente di male.

Se l'anarchia ha da venire, verrà, ed è inutile rompersi il capo per evitare l'inevitabile.

E poi... e una cosa tanto lontana! Viviamo in pace.

Giorgio. - Già, non vi sarebbe proprio ragione perché vi s'ingrossi il fegato!

Ma no, signor Cesare, io non conto sull'evoluzione, sulla scienza e sul resto. Troppo vi sarebbe da aspettare! E, quel che è peggio, si aspetterebbe invano!

L'evoluzione umana cammina nel senso in cui la sospinge la volontà degli uomini, e non v'è nessuna legge naturale per la quale l'evoluzione debba fatalmente metter capo alla libertà piuttosto che alla divisione della società in due caste permanenti, quasi direi in due razze, quella dei dominatori e quella dei dominati.

Ogni stato sociale, poiché ha trovato le ragioni sufficienti per esistere, può anche persistere indefinitamente, se i dominatori non incontrano un'opposizione cosciente, attiva, aggressiva da parte dei dominati. I fattori di dissoluzione e di morte spontanea che esistono in ogni regime, quand'anche non trovino un compenso ed un antidoto in altri fattori di ricomposizione e di vita, possono sempre essere neutralizzati dall'arte di chi dispone della forza sociale e la dirige a suo beneplacito.

Potrei dimostrarvi, se non temessi di esser troppo lungo, come la borghesia va mettendo riparo a quelle tendenze naturali, da cui certi socialisti si attendevano la sua morte a breve scadenza.

La scienza è arma potente che può essere adoperata per il male come per il bene. E siccome nelle condizioni di disuguaglianza attuali, essa è più accessibile ai privilegiati che agli oppressi, essa è più utile a quelli che a questi.

L'istruzione, almeno quella che va oltre di un'infarinatura superficiale e quasi inutile, è inaccessibile alle masse diseredate - e poi anch'essa può esser diretta nel senso che vogliono gli educatori, o piuttosto quelli che scelgono e pagano gli educatori.

Ambrogio. - Ma allora non resta che la violenza!

Giorgio. - Cioè, la rivoluzione.

Ambrogio. - La rivoluzione violenta? la rivoluzione armata?

Giorgio. - Precisamente.

Ambrogio. - Dunque le bombe...

Giorgio. - Lasciamo andare, signor Ambrogio. Voi siete magistrato, ed a me dispiace di dovervi ripetere che qui non siamo in tribunale, ed io per il momento almeno, non sono un accusato, a cui potete avere interesse a trarre di bocca una parola imprudente.

La rivoluzione sarà violenta perché voi, la classe dominante, vi sostenete colla violenza e non mostrate nessuna disposizione a cedere pacificamente. Saranno dunque fucilate, cannonate, bombe, onde eteree che faranno scoppiare a distanza i vostri depositi di esplosivi e le cartucce nelle giberne dei vostri soldati... sarà tutto quello che potrà essere. Queste sono questioni tecniche che, se vi piace, lasceremo ai tecnici.

Quello che posso assicurarvi si è che, per quanto può dipendere da noi, la violenza, che ci è imposta dalla violenza vostra, non andrà oltre, per quanto può dipendere da noi, degli stretti limiti segnati dalle necessità della lotta, vale a dire che sarà soprattutto determinata dalla resistenza che ci opporrete. Che se di peggio accadrà, sarà dovuto alla vostra ostinazione ed all'educazione sanguinaria che, col vostro esempio, state dando al popolo.

Cesare. - Ma come la farete questa rivoluzione, se siete quattro gatti?

Giorgio. - È possibile che siamo solo in quattro. A voi giova sperarlo, ed io non voglio togliervi una così dolce illusione. Vuol dire che ci sforzeremo di diventar otto e poi sedici...

Certamente il nostro compito, quando non vi sono occasioni di far meglio, è quello di far la propaganda per riunire una minoranza di uomini coscienti che sappiano quello che debbono fare e siano decisi a farlo. Nostro compito è quello di preparare la massa, o quanto più di massa è possibile, ad agire nella buona direzione quando capiterà l'occasione. E per buona direzione intendiamo: espropriare i detentori attuali della ricchezza sociale, abbattere l'autorità, impedire che si costituiscano nuovi privilegi e nuove forme di governo, e riorganizzare direttamente, per opera dei lavoratori, la produzione, la distribuzione e tutta la vita sociale.

Cesare. - E se l'occasione non capita?

Giorgio. - Ebbene, cercheremo di farla capitare.

Prospero. - Quante illusioni vi fate, ragazzo mio!!! Voi credete di stare ancora all'epoca del fucile a pietra. Colle armi e colla tattica moderna sareste massacrati prima di muovervi.

Giorgio. - Non vuol dire. Ad armi e tattica nuova si possono opporre armi e tattica adeguate.

E poi, queste armi sono realmente nelle mani dei figli del popolo, e voi, costringendo tutti al servizio militare, ne insegnate a tutti il maneggio.

Oh! voi non immaginate come sarete realmente impotenti il giorno in cui un numero sufficiente di ribelli vorrà.

Siamo noi, i proletari, la classe oppressa, che siamo elettricisti e gassisti, siamo noi che conduciamo le locomotive, siamo noi che fabbrichiamo gli esplosivi e foriamo le mine, siamo noi che guidiamo le automobili egli aeroplani, siamo noi i soldati... siamo noi, purtroppo, che vi difendiamo contro noi stessi. Voi non vivete che per la volontà inconscia delle vostre vittime. State attenti allo svegliarsi delle coscienze...

E poi sapete, tra noi anarchici ognuno fa come vuole, e la vostra polizia è abituata a guardar dappertutto, salvo dove è il pericolo reale.

Ma io non intendo farvi un corso di tecnica insurrezionale. Questo è affare che... non vi riguarda.

Buona sera.

Capitolo XIV

Vincenzo (giovane repubblicano). - Permettete che io entri nella conversazione per fare alcune domande ed alcune osservazioni?... L'amico Giorgio parla di anarchia, ma dice che l'anarchia deve venire, liberamente, senza imposizione, per volontà del popolo. E dice pure che per dare libero sfogo alla volontà popolare bisogna abbattere con l'insurrezione il regime monarchico e militarista che oggi quella volontà soffoca e falsa. Questo è quello che vogliono i repubblicani, o almeno i repubblicani rivoluzionari, cioè quelli che la repubblica la vogliono fare davvero. Perché dunque non si dichiara egli repubblicano?

In repubblica il popolo è sovrano, si fa quello che il popolo vuole, e se il popolo vorrà l'anarchia si farà l'anarchia.

Giorgio. - Veramente io credo di avere sempre detto volontà degli uomini e non già volontà del popolo, o se l'ho detto è stato un modo di dire, un'inesattezza di linguaggio che del resto tutto il mio discorso serviva a correggere.

Vincenzo. - Ma che cosa sono queste questioni di parole?!!! Il popolo non è composto di uomini?

Giorgio. - Non è una questione di parole. È una questione di sostanza: è tutta la differenza fra democrazia, che significa governo del popolo, e anarchia, che significa non governo, libertà di tutti e di ciascuno. Il popolo è certamente composto d'uomini, cioè di unità coscienti, interdipendenti tra di loro fino a che si vuole, ma che hanno ciascuno una sensibilità propria e quindi interessi, passioni, volontà particolari, che, secondo i casi, si sommano o si elidono, si rinforzano o si neutralizzano a vicenda. La volontà di tutti; ma in realtà quella che suole chiamarsi di una classe può dominare, imporsi e riuscire a passare come volontà di tutti; ma in realtà quella che suole chiamarsi «volontà del popolo» è la volontà dei dominatori - o è un ibrido prodotto di calcoli numerici che non risponde esattamente alla volontà di nessuno e non soddisfa nessuno.

Già per dichiarazione stessa dei democratici, cioè dei repubblicani (poiché questi sono i soli e veri democratici) il cosidetto governo del popolo non è che il governo della maggioranza, che esprime ed attua la sua volontà per mezzo dei suoi rappresentanti. Dunque la sovranità della minoranza è un semplice diritto nominale che non si traduce nei fatti; e notate che questa «minoranza» oltre di essere spesso la parte più progredita e più progressiva della popolazione, può anche essere la maggioranza numerica, quando più frazioni discordi si trovano di fronte ad una minoranza compatta per comunanza d'interessi e d'idee, o per sottomissione ad un uomo che la guida.

Ma quella parte che riesce a far trionfare i propri candidati e quindi va col nome di maggioranza che governa sé stessa, è poi realmente governata secondo la sua volontà? Il funzionamento del regime parlamentare (necessario in ogni repubblica che non sia un piccolo comune indipendente ed isolato) fa sì che il rappresentante di ciascuna unità del corpo elettorale non è che uno fra tanti e non conta che per un centesimo o per un millesimo nella confezione di quelle leggi, che dovrebbero essere in ultima analisi l'espressione della volontà della maggioranza degli elettori.

Ed ora, lasciamo stare la questione del se il regime repubblicano può realizzare la volontà di tutti e ditemi almeno quale è la volontà vostra, che cosa vorreste voi che fosse la repubblica, quali le istituzioni sociali ch'essa dovrebbe attuare.

Vincenzo. - Ma è chiaro.

Quello che io voglio, quello che vogliono tutti i veri repubblicani è la giustizia sociale, l'emancipazione dei lavoratori, l'eguaglianza, la libertà e la fratellanza.

Una voce. - Già, come in Francia, in Isvizzera ed in America!

Vincenzo. - Quelle non sono vere repubbliche. Voi dovete criticare la repubblica vera, quella che vogliamo noi, e non già i diversi governi, borghesi, militaristici, clericali che nelle varie parti del mondo prendono il nome di repubblica. Altrimenti anche io per combattere il socialismo e la anarchia potrei citarvi tanti che si dicono socialisti o anarchici e sono tutt'altro.

Giorgio. - Sta benissimo. Ma perché mai le repubbliche esistenti non sono risultate repubbliche vere? Perché anzi, partite tutte o quasi tutte da quell'ideale di eguaglianza, libertà e fratellanza che è il vostro e posso dire anche il nostro, sono state e vanno sempre più diventando dei regimi di privilegio, in cui i lavoratori sono tanto sfruttati ed i capitalisti tanto potenti, il popolo tanto oppresso ed il governo tanto prevaricatore quanto in qualsiasi regime monarchico?

Le istituzioni politiche, gli organi regolatori della società, i diritti riconosciuti agl'individui ed alle collettività dalla costituzione sono quali sarebbero nella repubblica vostra.

Perché mai le conseguenze sono state tanto cattive o almeno tanto negative, e perché mai sarebbero diverse quando la repubblica la farete voi?

Vincenzo. - Perché... perché... .

Giorgio. - Il perché ve lo dirò io, ed è che in quelle repubbliche le condizioni economiche del popolo restarono sostanzialmente le stesse; restò inalterata la divisione della società in classe proprietaria e classe proletaria, e quindi il dominio vero restò nelle mani di coloro che possedendo il monopolio dei mezzi di produzione tenevano a loro discrezione la grande massa dei diseredati. Naturalmente la classe privilegiata si adoperò a consolidare la sua posizione, che poteva essere stata scossa dalla commozione rivoluzionaria da cui la repubblica era nata, e presto le cose tornarono come prima.., salvo, possibilmente, quelle differenze, quei progressi che non dipendono dalla forma di governo, ma dalla cresciuta coscienza dei lavoratori, dalla cresciuta fiducia nella propria forza, che le masse acquistano ogni volta che riescono ad abbattere un governo.

Vincenzo. - Ma noi riconosciamo tutta l'importanza della questione economica. Noi stabiliremmo una tassa progressiva che farebbe cadere sulle spalle dei ricchi la maggior parte dei carichi pubblici, noi aboliremmo i dazi protettori, metteremmo una tassa sulle terre incolte, stabiliremmo un minimo di salario, un massimo sui prezzi, faremmo leggi protettrici dei lavoratori...

Giorgio. - E se tutto questo riuscireste a farlo i capitalisti troverebbero ancora modo di renderlo inutile o volgerlo a loro favore.

Vincenzo. - E allora noi li esproprieremmo magari senza indennità e faremmo il comunismo.

Siete contento?

Giorgio. - No, no... il comunismo fatto per volere del governo anziché per l'opera diretta, volontaria dei gruppi di lavoratori non mi sorride davvero. Se fosse possibile, sarebbe la più soffocante tirannia cui sia stata mai sottomessa una società umana.

Ma voi dite: noi faremmo questo o quest'altro come se per il solo fatto che siete dei repubblicani della vigilia, quando la repubblica sarà proclamata il governo sarete voi.

Poiché la repubblica è il regime di quello che voi chiamate la sovranità popolare, e questa sovranità si esprime per mezzo del suffragio universale, il governo repubblicano sarebbe composto dagli uomini che il suffragio designerebbe.

E siccome voi non avrete spezzato nell'atto stesso della rivoluzione il potere dei capitalisti espropriandoli rivoluzionariamente, il primo parlamento repubblicano sarebbe quale i capitalisti lo vogliono... e se non il primo, che potrebbe risentirsi un po' della tormenta rivoluzionaria, certamente i parlamenti successivi sarebbero quali i capitalisti li desiderano e si sforzerebbero di distruggere quel tanto di bene che la rivoluzione avesse per avventura potuto fare.

Vincenzo. - Ma allora, giacché l'anarchia non è possibile oggi, dobbiamo sopportare tranquillamente la monarchia chi sa quanto tempo?

Giorgio. - Niente affatto. Voi potete contare sul nostro concorso, come noi vi domanderemo il vostro, sempre che le circostanze diventino propizie per un movimento insurrezionale. Naturalmente la portata che noi ci forzeremo di dare a quel movimento sarà ben altrimenti ampia di quella che vorreste dargli voi, ma ciò non infirma il comune interesse che abbiamo a scuotere il giogo che oggi opprime e noi e voi. Dopo vedremo.

Intanto facciamo la propaganda e cerchiamo di preparare le masse perché il prossimo movimento rivoluzionario metta capo alla più profonda trasformazione sociale che sia possibile, e lasci aperta, larga e facile, la via verso progressi ulteriori.

Capitolo XV

Cesare. - Ripigliamo la nostra solita conversazione.

A quanto pare, la cosa che più immediatamente v'interessa è l'insurrezione; ed io ammetto che, per quanto essa sembri difficile, voi possiate farla e vincere, in un giorno vicino o lontano. In sostanza i governi si appoggiano sui soldati; ed i soldati di leva, che vanno e restano alla caserma riluttanti e forzati, sono un'arma infida. Innanzi ad un sollevamento generale del popolo, i soldati che sono popolo anch'essi, non reggono a lungo; ed appena è rotto il fascino e la paura della disciplina, o si sbandano o si mettono col popolo.

Capisco dunque che facendo molta propaganda fra i lavoratori e fra i soldati, o fra i giovani che domani saranno soldati, voi possiate mettervi in grado di profittare di una occasione propizia crisi economica, guerra infelice, sciopero generale, carestia, ecc. ed abbattere il governo.

Ma poi?

Voi mi direte: il popolo farà da sé, organizzerà, ecc. Ma queste sono parole. Quello che probabilmente avverrà è che dopo un periodo più o meno lungo di disordine, di dissipazione e forse di strage, un nuovo governo prenderà il posto dell'altro, ristabilirà l'ordine... e tutto continuerà come prima.

A che scopo dunque fare tanto sciupìo di forze?

Giorgio. - Se dovesse avvenire come voi dite, non per questo l'insurrezione sarebbe stata inutile, perché dopo una rivoluzione le cose non ritornano mai esattamente come prima per il fatto che il popolo ha gustato un periodo di libertà, ha anche sperimentato la sua forza, e non è facile fargli accettare un'altra volta le condizioni di prima. Il nuovo governo, se governo ha da essere, sente che non potrebbe restare sicuro al potere se non desse qualche soddisfazione, e d'ordinario cerca di giustificare la sua ascensione dandosi il titolo di interprete e continuatore della rivoluzione.

Naturalmente il compito che il governo realmente si darebbe sarebbe quello di impedire che la rivoluzione andasse più in là e di restringere e di alterare, a scopo di dominio, le conquiste di essa rivoluzione; ma non potrebbe rimettere le cose allo stato di prima.

È quello che è avvenuto in tutte le rivoluzioni passate.

Però noi abbiamo ragione di sperare che nella rivoluzione prossima si farà molto meglio.

Cesare. - E perché?

Giorgio. - Perché nelle rivoluzioni passate tutti i rivoluzionari, tutti gli iniziatori ed attori principali della rivoluzione volevano trasformare la società per mezzo di leggi e volevano un governo che queste leggi facesse ed imponesse. Era dunque forzato che si mettesse capo ad un nuovo governo ed era naturale che il nuovo governo pensasse innanzi tutto a governare, cioè a consolidarsi al potere e, per far questo, a formare intorno a sé un partito ed una classe privilegiata cointeressata alla sua permanenza al potere.

Ma ora è apparso nella storia un nuovo fatto, che è rappresentato dagli anarchici. Ora vi sono dei rivoluzionari i quali vogliono fare la rivoluzione con scopi nettamente anti-governativi, e quindi la costituzione di un nuovo governo troverebbe un ostacolo che non ha mai trovato nel passato.

Di più, i rivoluzionari del passato, volendo fare le trasformazioni sociali, quali che esse fossero, per mezzo di leggi, miravano alle masse solo per il concorso materiale che esse dovevano dare, e non si occupavano di dar loro una coscienza di quello che dovevano volere e del modo come potevano realizzare le loro aspirazioni. Quindi, naturalmente, il popolo, buono per distruggere, domandava poi esso stesso un governo, quando bisognava riorganizzare la vita sociale ordinaria.

Invece, noi miriamo con la nostra propaganda e con le organizzazioni operaie a costituire una minoranza cosciente che sa quello che vuole fare, e che, frammischiata alla massa, possa provvedere alle necessità immediate e prendere quelle iniziative, che altra volta si aspettavano dal governo.

Cesare. - Sta bene; ma siccome voi non sarete che una minoranza, e probabilmente in molta parte del paese non avrete nessuna influenza, un governo si costituirà lo stesso e voi dovrete subirlo.

Giorgio. - Che un governo riesca a costituirsi è infatti molto probabile; ma che noi dobbiamo subirlo... è cosa che vedremo.

Notate bene. Nelle rivoluzioni passate si badava prima di tutto a fare il nuovo governo ed a questo governo si aspettava poi il nuovo ordinamento. Ed intanto le cose restavano sostanzialmente le stesse, anzi le condizioni economiche delle masse venivano aggravate per l'arrestarsi delle industrie e dei commerci. Quindi la stanchezza rapidamente sopravveniente, la fretta di farla finita e l'ostilità del pubblico contro coloro che volevano prolungare di troppo lo stato insurrezionale. E così avveniva che chiunque si mostrava capace di ristabilire l'ordine, fosse un soldato fortunato, o un politicante abile ed audace, o magari lo stesso sovrano che prima era stato cacciato, veniva accolto dal plauso popolare come un pacificatore ed un liberatore.

Noi invece intendiamo la rivoluzione in un modo diverso. Noi vogliamo che le trasformazioni sociali a cui mira la rivoluzione incomincino a realizzarsi fino dal primo atto insurrezionale. Vogliamo che il popolo prenda subito possesso della ricchezza esistente: che dichiari i palazzi dei signori dominio pubblico, e provveda per iniziativa dei più volenterosi e attivi, a che tutta la popolazione sia alloggiata il meno male possibile, e subito si metta mano, per opera delle associazioni dei costruttori, all'edificazione delle nuove case che siano stimate necessarie; vogliamo che si comunalizzino tutti i prodotti alimentari disponibili e se ne organizzi sempre per opera dei più volenterosi e sotto il controllo reale del pubblico, la distribuzione eguale per tutti; vogliamo che gli agricoltori s'impossessino delle terre incolte e di quelle dei signori e si convincano col fatto che ormai queste terre appartengono ai lavoratori; vogliamo che gli operai si sottraggano alla direzione dei padroni e continuino la produzione per conto loro e del pubblico; vogliamo che si stabiliscano subito relazioni di scambio fra le diverse associazioni produttrici ed i diversi comuni; e nello stesso tempo vogliamo che si brucino, si distruggano, tutti i titoli e tutti i segni materiali della proprietà individuale e del dominio statale. Vogliamo insomma fin dal primo momento far sentire alla massa i benefici della rivoluzione e sconvolgere le cose in modo che sia impossibile ristabilire l'ordine antico.

Cesare. - E vi pare che tutto questo sia tanto facile a fare?

Giorgio. - No, so bene tutte le difficoltà che s'incontreranno; prevedo bene che questo nostro programma non potrà applicarsi subito dappertutto, e che dove si applicherà darà luogo a mille attriti, a mille errori . Ma il solo fatto che vi siano uomini che vogliono applicarlo e che siprovano ad applicarlo dovunque è possibile, è già una garanzia che ormai la rivoluzione non potrà più essere una semplice trasformazione politica e dovrà metter capo ad un cambiamento profondo in tutta la vita sociale.

Del resto, qualche cosa di simile, quantunque in proporzioni relativamente minime, fu fatto dalla borghesia nella Grande Rivoluzione francese della fine del secolo 18.mo, e l'antico regime non potette più ristabilirsi malgrado l'Impero e la Restaurazione.

Cesare. - Ma se, malgrado tutte le vostre buone o cattive intenzioni, un governo si costituisce, tutti i vostri progetti vanno in aria, e dovrete anche voi sottostare alle leggi come gli altri.

Giorgio. - E perché? Che un governo o dei governi si costituiscano è certamente molto probabile. C'è tanta gente che desidera comandare e tantissima che è disposta ad ubbidire!

Ma che questo governo possa imporsi, farsi accettare e divenire un governo regolare è ben difficile, se nel paese vi sono abbastanza rivoluzionari, e questi hanno saputo abbastanza interessare le masse per impedire che un nuovo governo abbia modo di divenire forte e stabile.

Un governo ha bisogno di soldati, e noi faremo il possibile perché non abbia soldati; ha bisogno di denaro e noi faremo il possibile perché nessuno paghi le imposte e nessuno gli faccia credito.

Vi sono dei comuni e forse delle regioni in Italia dove i rivoluzionari sono abbastanza numerosi ed i lavoratori abbastanza preparati per proclamarsi autonomi e provvedere ai loro affari da loro stessi, rifiutandosi di riconoscere il governo e ricevere i suoi agenti o mandargli i suoi rappresentanti.

Queste regioni, questi comuni saranno centri d'irradia-mento rivoluzionario, contro dei quali qualsiasi governo sarà impotente, se si agirà presto e non gli si lascerà il tempo di armarsi e consolidarsi.

Cesare. - Ma questa è la guerra civile!

Giorgio. - Può darsi benissimo. Noi siamo per la pace, aneliamo la pace... ma non sacrificheremo la rivoluzione al nostro desiderio di pace. Non la sacrificheremo perché solo con essa si può raggiungere una pace vera e permanente.

Capitolo XVI

Pippo (mutilato di guerra). - Io non ne posso più, e voi mi permetterete di dirvi che sono meravigliato, direi quasi indignato, di vedere che voi, pur essendo delle più varie opinioni, sembrate trovarvi d'accordo nell'ignorare la questione essenziale, quella della patria, quella di assicurare la grandezza o la gloria dell'Italia nostra.

Prospero, Cesare, Vincenzo, e tutti i presenti, meno Giorgio e Luigi (un giovane socialista) protestano clamorosamente il loro amore per l'Italia e Ambrogio dice per tutti: - Noi in queste nostre conversazioni non abbiamo parlato dell'Italia, come non abbiamo parlato delle nostre madri. Non era necessario parlare di ciò che era inteso, di ciò che è superiore ad ogni opinione, ad ogni discussione. Prego Pippo di non mettere in dubbio il nostro patriottismo, nemmeno quello di Giorgio.

Giorgio. - Ma no; il patriottismo mio potete ben metterlo in dubbio, perché io non sono patriota.

Pippo. - Già, me lo immaginavo: voi siete di quelli che gridano abbasso l'Italia e vorreste vedere il nostro paese umiliato, vinto, dominato dagli stranieri.

Giorgio. - Ma niente affatto. Queste sono le solite calunnie con cui si cerca d'ingannare la gente per prevenirla contro di noi. Non escludo che ci sia della gente che crede in buona fede queste fandonie, ma ciò è frutto d'ignoranza e d'incomprensione.

Noi non vogliamo dominazioni di sorta e quindi non possiamo volere che l'Italia sia dominata da altri paesi, come non vorremmo che l'Italia dominasse gli altri.

Noi consideriamo nostra patria il mondo intero, nostri fratelli gli uomini tutti; quindi sarebbe per noi semplicemente assurdo il volere umiliato e danneggiato proprio il paese in cui viviamo, in cui abbiamo i nostri cari, di cui parliamo meglio la lingua, il paese che ci dà di più ed a cui più diamo nello scambio di lavoro; di idee, di affetti.

Ambrogio. - Ma questo paese è la patria, che voi continuamente bestemmiate.

Giorgio. - Noi non bestemmiamo la patria, nessuna patria. Noi bestemmiamo il patriottismo, quello che voi chiamate patriottismo, che è boria nazionale, che è predicazione di odio contro gli altri paesi, che è pretesto per scagliare popoli contro popoli in guerre micidiali, per il servizio di loschi interessi capitalistici e di smodate ambizioni di sovrani e di politicanti.

Vincenzo. - Piano, piano.

Voi avete ragione se parlate del patriottismo di tanti capitalisti e di tanti monarchici pei quali l' amore di patria è veramente un pretesto: ed io disprezzo ed aborro come voi quelli che per la patria non rischiano nulla e che in nome della patria si arricchiscono sul sudore e sul sangue dei lavoratori e degli uomini sinceri di tutte le classi. Ma vi sono uomini che sono patrioti sul serio, che per la patria han sacrificato o sono pronti a sacrificare tutto, averi, libertà, vita.

Voi sapete che i repubblicani sono sempre stati ispirati dal più alto patriottismo, e che hanno sempre pagato di persona.

Giorgio. - Io ammiro sempre chi si sacrifica per le sue idee, ma ciò non può impedirmi di comprendere che le idealità dei repubblicani e dei patrioti sinceri, che si trovano certamente in tutti i partiti, sono ormai sorpassate e non servono che a dar modo ai governi ed ai capitalisti di mascherare con motivi ideali le loro mire reali e trascinare le masse inconsce e la gioventù entusiasta.

Vincenzo. - Ma come, sorpassate?! L'amore del proprio paese è un sentimento naturale del cuore umano e non sarà mai sorpassato.

Giorgio. - Quello che voi chiamate amore del proprio paese è attaccamento al paese dove avete maggiori legami morali ed anche maggiore sicurezza di benessere materiale, ed è certamente naturale e durerà sempre, o almeno fino a quando la civiltà sarà progredita al punto che ogni uomo troverà di fatto il suo paese in ogni parte del mondo. Ma questo non ha niente di comune col mito «patria» che vi fa considerare gli altri popoli come inferiori, che vi fa desiderare il predominio del vostro su gli altri paesi, che vi impedisce di apprezzare e di utilizzare le opere dei cosidetti stranieri, e che vorrebbe far considerare ai lavoratori più affini a loro i padroni e gli sbirri paesani di quel che non siano i lavoratori degli altri paesi, coi quali hanno comuni gli interessi e le aspirazioni.

Del resto il nostro sentimento internazionalistico, cosmopolita non è che lo sviluppo, la continuazione di progressi già realizzati. Voi potete sentirvi più attaccati al vostro villaggio nativo o alla vostra regione per mille motivi sentimentali e materiali, ma non per questo siete campanilista o regionalista: voi vi vantate di essere italiano e, occorrendo, mettereste il bene generale d'Italia al di sopra degl'interessi locali e regionali. Se trovate che sia stato un progresso allargare la patria dal comune alla nazione, perché fermarsi là e non abbracciare il mondo intero in un amore generale per il genere umano ed in una cooperazione fraterna fra gli uomini tutti?

Già oggi le relazioni tra paese e paese, gli scambi di materie prime e di prodotti agricoli ed industriali sono tali che un paese il quale volesse isolarsi dagli altri, o peggio mettersi in lotta con gli altri, si condannerebbe ad una vita tisica e ad un definitivo disastro. Già abbondano gli uomini che per le loro relazioni, per il loro genere di lavoro e di studi, per la loro posizione economica si considerano e sono davvero cittadini del mondo.

E poi non vedete che tutto ciò che v'è di grande e di bello al mondo è di carattere mondiale, supernazionale? Mondiale la scienza, mondiale l'arte, mondiale la religione che, malgrado le sue menzogne, è pur una grande manifestazione dell'attività spirituale dell'umanità. Universali, direbbe il signor Ambrogio, sono il diritto e la morale, poiché ognuno cerca di allargare a tutto il genere umano ogni sua concezione. Ogni nuova verità scoperta in un punto qualsiasi del mondo, ogni nuova invenzione, ogni prodotto geniale di un cervello umano serve, o dovrebbe servire a tutta quanta l'umanità.

Ritornare all'isolamento, alla rivalità ed all'odio tra popoli e popoli, ostinarsi in un patriottismo gretto ed antiumano, sarebbe mettersi fuori delle grandi correnti di progresso che incalzano l'umanità verso un avvenire di pace e di fratellanza, sarebbe mettersi fuori e contro della civiltà.

Cesare. - Voi parlate sempre di pace e di fratellanza; ma lasciate che vi faccia una domanda pratica. Se per esempio i tedeschi od i francesi venissero a Milano, a Roma, a Napoli a distruggere i nostri monumenti artistici, ad ammazzare ed opprimere i nostri connazionali, che fareste voi? Sareste contento?

Giorgio. - Che dite mai? Ne sarei certamente dolentissimo e farei tutto quello che potrei per impedirlo. Ma, badate bene, sarei egualmente dolente e farei, potendolo, di tutto per impedirlo, se gl'italiani andassero a distruggere, ad opprimere, ad ammazzare a Parigi, a Vienna, a Berlino... o in Libia.

Cesare. - Proprio ugualmente?

Giorgio. - In pratica forse no. Mi dispiacerebbe più il male fatto in Italia perché è in Italia che ho più amici, sono le cose d'Italia che conosco meglio e quindi le mie impressioni sarebbero più vive, più sentite. Ma ciò non vuoi dire che il male fatto a Berlino sarebbe meno male di quello fatto a Milano.

È come se mi ammazzassero un fratello, un amico. Io soffrirei certamente di più di quello che soffro quando ammazzano uno che non conosco: ma ciò non vuol dire che l'uccisione di chi mi è sconosciuto sia meno criminosa dell'uccisione dell'amico mio.

Pippo. - Sta bene. Ma che cosa avete fatto per impedire una possibile calata dei tedeschi a Milano?

Giorgio. - Non ho fatto nulla, anzi io ed i miei compagni abbiamo fatto il possibile per tenerci fuori della mischia; ma è stato perché non abbiamo potuto fare quello che sarebbe stato utile e necessario.

Pippo. - Come sarebbe a dire?

Giorgio. - La cosa è chiara . Noi ci siamo trovati in posizione da dover difendere gl'interessi dei nostri padroni, dei nostri oppressori e di doverlo fare uccidendo dei fratelli nostri, dei lavoratori di altri paesi spinti al macello, come vi eravamo spinti noi, dai padroni e dagli oppressori loro. E noi ci siamo rifiutati a servire di strumento a quelli che sono i nostri veri nemici, cioè i nostri padroni.

Se avessimo potuto prima liberarci dei nemici interni, allora avremmo avuto da difendere la patria nostra e non quella di lor signori. Noi avremmo offerto la mano fraterna ai lavoratori stranieri mandati contro di noi, e se essi non avessero compreso ed avessero voluto continuare a servire i loro padroni contro di noi, ci saremmo difesi.

Ambrogio. - Ma voi non vi preoccupate che degl'interessi dei lavoratori, degl'interessi della vostra classe, senza capire che al di sopra della classe vi è la nazione. Vi sono dei sentimenti, delle tradizioni, degl'interessi che uniscono tutti gli uomini di una stessa nazione, malgrado tutte le differenze di condizioni, tutti gli antagonismi di classe.

E poi, vi è l'orgoglio della stirpe. Non vi sentite voi fiero di essere italiano, di appartenere al paese che ha dato la civiltà al mondo e che ancora oggi, malgrado tutto, si trova alla testa del progresso?

Come mai non avete sentito il bisogno di difendere la civiltà latina contro la barbarie teutonica?

Giorgio. - Per piacere, lasciamo andare la civiltà e la barbarie di questo o quel paese.

Io potrei dirvi subito che se i lavoratori non sanno apprezzare questa vostra «civiltà latina» è colpa vostra, è colpa della borghesia che ha tolto ai lavoratori i mezzi di istruirsi. Come potete pretendere che uno si appassioni per una cosa che gli avete lasciato ignorare?

Ma finiamola con queste menzogne. A chi volete far credere che i tedeschi siano più barbari degli altri, quando voi stessi anni or sono stavate in ammirazione innanzi ad ogni cosa che venisse dalla Germania? Se domani cambiano le condizioni politiche e gl'interessi capitalistici saranno diversamente orientati, voi direte di nuovo che i tedeschi stanno alla testa della civiltà e che i barbari sono gl'inglesi ed i francesi.

Ma che importa questo? Se un paese si trova più avanti di un altro ha il dovere di propagare la sua civiltà, di aiutare i fratelli arretrati e non deve profittare della sua superiorità per opprimere e per sfruttare.., anche perché ogni abuso di potere porta alla corruzione ed alla decadenza.

Ambrogio. - Ma in ogni modo, rispettate almeno la solidarietà nazionale che deve essere superiore ad ogni competizione di classe.

Giorgio. - Capisco. È questa pretesa solidarietà nazionale che a voi interessa soprattutto, ed è essa che noi soprattutto combattiamo. Poiché solidarietà nazionale significa solidarietà fra capitalisti ed operai, fra oppressori ed oppressi, vale a dire acquiescenza degli oppressi al loro stato di soggezione.

Gl'interessi dei lavoratori sono opposti a quelli dei padroni, e quando per circostanze speciali si trovassero ad essere transitoriamente solidali, noi cerchiamo di renderli antagonistici, visto che l'emancipazione umana e tutto il progresso futuro dipendono dalla lotta fra lavoratori e padroni, che deve menare alla sparizione completa dello sfruttamento e dell'oppressione dell'uomo da parte dell'uomo.

Voi potete cercare ancora di ingannare i lavoratori con le menzogne del nazionalismo: ma invano. Oramai i lavoratori hanno compreso che i loro fratelli sono i lavoratori di tutti i paesi, ed i loro nemici sono tutti i capitalisti e tutti i governi, paesani e forestieri.

E con questo vi do la buona sera. Io so di non aver convinto né i magistrati né i proprietari che mi hanno ascoltato. Ma per Pippo e Vincenzo e Luigi, che sono proletari come me, forse non avrò parlato invano.

Capitolo XVII

Luigi (socialista). - Giacché qui ognuno ha detto la sua opinione, permettere che dica anche io la mia?

Qui sono solo delle mie idee, e non vorrei espormi all'intolleranza combinata di borghesi ed anarchici.

Giorgio. - Mi meraviglio che parliate così.

Voi, anzi tu, poiché siamo lavoratori entrambi e possiamo, dobbiamo considerarci amici e fratelli,tu sembri credere che gli anarchici siano nemici dei socialisti. Invece noi siamo i loro amici, i loro collaboratori.

Quantunque molti tra i maggiorenti socialisti abbiano tentato e tentino ancora di mettere in opposizione socialismo ed anarchismo, la verità è che, se socialismo significa una società o l'aspirazione ad una società in cui gli uomini vivano da fratelli, in cui il bene di tutti sia condizione del bene di ciascuno, in cui nessuno sia schiavo e sfruttato e ciascuno abbia i mezzi di raggiungere il massimo sviluppo possibile e godere in pace di tutti i benefizii della civiltà e del lavoro comune, non solo noi siamo socialisti, ma abbiamo il diritto di considerarci i socialisti più radicali e più conseguenti.

Del resto, lo sa qui anche il signor Ambrogio, che ha mandato tanti dei nostri in galera, in Italia, siamo stati noi i primi ad introdurre, spiegare e propagare il socialismo; e se a poco a poco abbiam finito con abbandonare il nome e chiamarci semplicemente anarchici è stato perché a fianco a noi sorse un'altra scuola, autoritaria e parlamentare, che riuscì a prevalere ed a fare del socialismo una tale cosa ibrida ed accomodante che non si poteva conciliare coi nostri ideali e coi nostri metodi e ripugnava ai nostri temperamenti.

Luigi. - Infatti, io t'ho inteso discorrere e certamente siamo d'accordo in molte cose, specie nella critica contro il capitalismo.

Ma non siamo d'accordo in tutto, prima perché gli anarchici non credono che alla rivoluzione e rinunziano ai mezzi più civili di lotta che hanno sostituito i metodi violenti forse necessari altra volta - e poi perché anche se si dovesse finire con una rivoluzione violenta, bisognerebbe ch'essa mettesse al potere un nuovo governo per fare le cose ordinatamente e non lasciare tutto all'arbitrio ed alla furia delle masse.

Giorgio. - Ebbene, discutiamo un po'. Credi tu sul serio che si possa trasformare radicalmente la società, abbattere il privilegio, cacciare il governo, espropriare la borghesia senza ricorrere alla forza?

Spero che tu non ti farai l'illusione che i proprietari ed i governanti vorranno cedere senza resistenza, senza impiegare la forza di cui dispongono, e fare in certo modo la parte dell'impiccato per persuasione. Se no, domandane a questi signori qui presenti che, se potessero, si sbarazzerebbero molto volentieri e con mezzi assai spicci, di me e di te.

Luigi. - No, io non ho di quelle illusioni.

Ma siccome oggi i lavoratori hanno il voto politico ed amministrativo e sono la grande maggioranza degli elettori, mi pare che, se essi sapessero e volessero, potrebbero senza tanti sforzi mandare al potere delle persone di loro fiducia, dei socialisti e, se vuoi, anche de gli anarchici, i quali farebbero delle buone leggi, nazionalizzerebbero la terra e le officine ed instaurerebbero il socialismo.

Giorgio. - Già, se i lavoratori sapessero e volessero!

Ma se essi fossero tanto evoluti da comprendere quali sono le cause ed i rimedi dei loro mali, se essi fossero decisi ad emanciparsi davvero, allora si potrebbe forse fare la rivoluzione senza, o con poca violenza, ma allora essi potrebbero fare da loro stessi quello che desiderano e non vi sarebbe bisogno di mandare al parlamento ed al governo degli uomini, i quali, anche se non si lasciassero ubriacare e corrompere, come purtroppo avviene, dagli allettamenti del potere, si troverebbero nell'impossibilità di provvedere ai bisogni sociali e di fare quello che gli elettori attendono da loro.

Ma purtroppo i lavoratori, nella loro grande maggioranza, non sanno e non vogliono; e sono in tali condizioni che non hanno la possibilità di emanciparsi moralmente se prima non migliori la loro posizione materiale. Perciò la trasformazione sociale deve avvenire per iniziativa e per opera di quelle minoranze che per circostanze fortunate hanno potuto elevarsi sul livello comune minoranze numeriche che finiscono poi con essere la forza preponderante e trascinare con loro la massa arretrata.

Guarda ai fatti, e vedrai presto che, appunto per le condizioni morali e materiali in cui si trova il proletariato, la borghesia ed il governo riescono sempre ad ottenere il parlamento che loro conviene. Ed è perciò che concedono e lasciano sussistere il suffragio universale. Che se vedessero il pericolo di essere spossessati legalmente, sarebbero essi i primi ad uscire dalla legalità ed a violare quella che chiamano la volontà popolare. Lo fanno già ogni volta che per isbaglio le leggi si ritorcono contro di loro.

Luigi. - Tu dici così, ma intanto noi vediamo che il numero dei deputati socialisti aumenta sempre. Un giorno saranno la maggioranza e...

Giorgio. - Ma non vedi tu che quando i socialisti entrano in parlamento, subito si addomesticano e, da un pericolo che erano, diventano dei collaboratori, dei sostenitori dell'ordine vigente? In fondo, mandando dei socialisti al parlamento si rende un servizio alla borghesia perché si tolgono di mezzo alle masse e si trasportano nell'ambiente borghese gli uomini più attivi, più capaci, più popolari.

Del resto, te l'ho già detto, quando davvero i deputati socialisti diventassero un pericolo, il governo li caccerebbe a baionettate dal parlamento e sopprimerebbe il suffragio universale.

Luigi. - A te pare così perché tu concepisci sempre le cose in un modo catastrofico.

Invece il mondo cammina a poco a poco per evoluzione graduale.

Bisogna che il proletariato si prepari a sostituire la borghesia, educandosi, organizzandosi, mandando i suoi rappresentanti in tutti i corpi deliberanti e legiferanti; e quando sarà maturo piglierà nelle sue mani la somma delle cose, e sarà istituita la nuova società alla quale aspiriamo.

In tutti i paesi civili va crescendo il numero dei deputati socialisti e naturalmente anche l'appoggio che essi hanno nelle masse.

Un giorno saranno certamente la maggioranza, e se allora la borghesia ed il suo governo non vorranno cedere pacificamente e tenteranno di sopprimere con la violenza la volontà popolare, noi risponderemo alla violenza con la violenza.

Bisogna lasciar tempo al tempo. È inutile ed è dannoso il voler forzare le leggi della natura e della storia.

Giorgio. - Caro Luigi, le leggi della natura non hanno bisogno di difensori: esse si fanno rispettare da loro. Gli uomini le vanno faticosamente scoprendo e si servono delle loro scoperte per il bene o per il male; ma guardati dall'accettare come leggi naturali i fatti sociali che gl'interessati (nel nostro caso gli economisti ed i sociologi che difendono la borghesia) qualificano come tali.

In quanto alle «leggi della storia», esse sono formulate dopo che la storia è stata. Facciamo prima la storia.

Il mondo cammina piano, o in fretta, va a vanti o indietro, secondo la risultante di un numero indefinito di fattori naturali ed umani, ed è un errore il confidare in una evoluzione continua che andrebbe sempre nello stesso senso.

Ora, è certamente vero che la società è in continua, lenta evoluzione; ma evoluzione in fondo non è che cambiamento, e se alcuni cambiamenti sono in quella che per noi è la buona via, favoriscono cioè l'elevazione dell'uomo verso un ideale superiore di fratellanza e di libertà, altri invece rinforzano le istituzioni vigenti o respingono indietro ed annullano i progressi già realizzati.

Finché resta tra gli uomini lo stato di lotta, nessuna conquista è sicura, nessun progresso nell'organizzazione sociale si può considerare come definitivamente acquisito.

Noi dobbiamo utilizzare e favorire tutti i fattori di progresso e combattere, ostacolare, cercare di neutralizzare le forze di regresso e di conservazione.

Oggi le sorti dell'umanità dipendono dalla lotta tra lavoratori e sfruttatori e qualunque conciliazione tra le due classi ostili, qualunque attenuazione della lotta, qualunque collaborazione tra capitalisti e lavoratori, tra governo e popolo fatta con l'intenzione o col pretesto di attenuare i contrasti sociali, servirebbe solo a favorire la classe degli oppressori, a consolidare le barcollanti istituzioni e, quel che è peggio, a separare dalla massa gli elementi proletari più evoluti e farne una nuova classe privilegiata cointeressata con i baroni dell'industria, della finanza e della politica a mantenere la grande maggioranza del popolo in uno stato di inferiorità e di soggezione.

Tu parli di evoluzione, e sembri credere che necessariamente, fatalmente, vogliano o non vogliano gli uomini, si arriverà al socialismo, cioè ad una società fatta per eguale vantaggio di tutti, in cui, i mezzi di produzione appartenendo a tutti, tutti sarebbero lavoratori, tutti godrebbero a titolo eguale di tutti i benefizi della civiltà.

Ma questo non è vero. Il socialismo verrà se gli uomini lo vorranno e faranno quello che occorre per realizzarlo. Che altrimenti potrebbe, invece del socialismo, venire uno stato sociale in cui le differenze tra uomo e uomo fossero rese più grandi e permanenti, in cui l'umanità fosse divisa come in due razze diverse, i signori ed i servi, con una classe intermedia che servirebbe ad assicurare col concorso dell'intelligenza e della forza brutale, il dominio degli uni sugli altri - oppure potrebbe semplicemente perpetuarsi lo stato attuale di lotte continue, di miglioramenti e peggioramenti alternantisi, di crisi e di guerre periodiche.

Dirò anzi che se si abbandonassero le cose al loro corso naturale, l'evoluzione andrebbe probabilmente nel senso opposto a quello che vorremmo noi, andrebbe verso il consolidamento dei privilegi, verso un equilibrio stabile fatto a tutto vantaggio degli attuali dominatori, poiché è naturale che la forza sia dei forti, che chi comincia a lottare con certi vantaggi contro l'avversario guadagni sempre maggiori vantaggi nel corso della lotta.

Luigi. - Forse hai ragione; ma appunto perciò bisogna utilizzare tutti i mezzi a nostra disposizione: educazione, organizzazione, lotta politica...

Giorgio. - Tutti i mezzi si, ma tutti i mezzi che conducano allo scopo.

Educazione, certamente. Essa è la prima cosa che occorre, poiché se non si agisce sullo spirito degl'individui, se non si sveglia la loro coscienza, se non si eccita la loro sensibilità, se non si suscita la loro volontà non vi è progresso possibile. E per educazione non intendo tanto quell'istruzione che s'apprende nei libri, necessaria anch'essa ma così poco accessibile ai proletari, quanto l'educazione che si acquista mediante il contatto cosciente con la società, la propaganda, le discussioni, l'interessamento alle questioni pubbliche, la partecipazione alle lotte per il proprio e l'altrui miglioramento.

Questa educazione dell'individuo è necessaria e sarebbe sufficiente per trasformare il mondo se essa potesse estendersi a tutti. Ma purtroppo questo non è possibile.

L'uomo è influenzato, dominato, quasi direi formato, dall'ambiente in cui vive; e quando l'ambiente non è adatto può progredire soltanto lottando contro di esso. E non vi è in un dato momento che un numero limitato d'individui che sia atto per capacità congenita e per circostanze specialmente favorevoli, ad elevarsi al di sopra dell'ambiente, a reagire contro di esso e contribuire a trasformarlo.

Ed ecco perché è la minoranza cosciente che deve rompere il ghiaccio e cambiare violentemente le circostanze esteriori.

L'organizzazione: ottima e necessaria cosa, purché fatta per combattere i padroni e non già per accordarsi con loro.

Lotta politica: naturalmente, purché s'intenda lotta contro il governo e non già cooperazione col governo.

E poi bada bene. Se si vuole migliorare, rendere sopportabile il sistema capitalistico e quindi consacrarlo e perpetuarlo, allora certi accomodamenti, certe collaborazioni possono parere accettabili; ma se si vuole davvero abbattere il sistema, allora bisogna mettersi chiaramente fuori e contro il sistema stesso.

E poiché la rivoluzione è necessaria e in ogni modo la questione dovrà sempre finire con la rivoluzione, non ti pare che bisogna fin da ora prepararcisi, spiritualmente e materialmente, invece di illudere le masse ed affiacchirle con la speranza di potersi emancipare senza sacrifici e senza lotte cruenti?

Luigi. - Sta bene. Supponiamo che tu abbia ragione e che la rivoluzione sia inevitabile. Vi è pure tanti socialisti che dicono lo stesso. Ma sarà sempre necessario costituire un nuovo governo per dirigere ed organizzare la rivoluzione.

Giorgio. - E perché? Se non v'è in mezzo alle masse un numero sufficiente di rivoluzionari, lavoratori del braccio e della mente, capace di provvedere ai bisogni della lotta e della vita, la rivoluzione non si fa, o se si fa non trionfa. E se quel numero v'è a che può servire un governo se non a paralizzare l'iniziativa popolare ed in sostanza a strozzare la rivoluzione stessa?

Infatti, che cosa vuoi che faccia un governo parlamentare o dittatoriale che sia? Dovrebbe prima di tutto pensare ad assicurare la sua esistenza in quanto governo, cioè costituire una forza armata per difendersi contro gli avversari e per imporre la sua volontà ai ricalcitranti; poi dovrebbe informarsi, studiare, cercare di conciliare le volontà e gl'interessi in conflitto e quindi fare le leggi... che probabilmente non contenterebbero alcuno.

Intanto bisognerebbe vivere. O la proprietà sarebbe passata di fatto nelle mani dei lavoratori, e allora, siccome bisogna provvedere ai bisogni di tutti i giorni, i lavoratori stessi dovrebbero risolvere i problemi della vita senza aspettare le decisioni dei governanti, ai quali non resterebbe più che... dichiarare la propria inutilità come governanti e confondersi nella folla quali lavoratori.

O la proprietà sarebbe restata nelle mani dei proprietari, e allora questi, che detenendo e disponendo a loro piacere della ricchezza, resterebbero i veri arbitri della vita sociale, farebbero in modo che il nuovo governo composto di socialisti (di anarchici no, perché gli anarchici non vogliono né governare né esser governati) o sarebbe costretto a piegarsi ai voleri della borghesia o sarebbe presto spazzato via.

Io non mi dilungherò più perché debbo partire e non so quando ritornerò. Staremo un pezzetto senza vederci.

Rifletti a quanto ti ho detto. Spero che al mio ritorno troverò un nuovo compagno.

Salute a tutti.

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Testi di autori che, pur non appartenendo alla nostra corrente e mostrando rispetto ad essa divergenze politiche anche marcate, tuttavia riteniamo abbiano dato un contributo significativo alla critica classista di questa società.