La prossima crisi mondiale

Tesi sulla prossima crisi mondiale, la seconda guerra mondiale e la rivoluzione mondiale

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La prossima crisi mondiale coinciderà molto probabilmente con la seconda guerra mondiale: in ogni caso dobbiamo essere preparati a questa eventualità.

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La seconda guerra mondiale porrà nuovamente la classe operaia di fronte ad una situazione rivoluzionaria di portata mondiale. Per questo, di fronte all’amara realtà della completa consunzione delle forze rivoluzionarie maturate nel ciclo del 1850- 1917 e della debolezza dei nuovi sforzi in tale direzione, il nostro compito principale deve consistere nella preparazione organizzativa e teorica alla seconda guerra mondiale, affinché sia fatta chiarezza su quali siano - in questo contesto - le mosse inefficaci o riducibili a mera azione per l’azione (Scheinaktionen) e quali siano invece le reali possibilità di agire nelle nuove condizioni odierne, per sfruttare al massimo da un punto di vista di classe ognuna di queste possibilità.

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Dagli inizi del secolo stiamo accumulando esperienze sempre più ampie riguardo alle crisi, alle guerre e ai sussulti rivoluzionari del sistema capitalistico mondiale nella sua interezza; è dunque tempo che passiamo a sistematizzare questo nostro patrimonio di informazioni e di analisi. Mentre fino a questo momento ci siamo limitati ad elaborare spiegazioni delle cause delle guerre capitalistiche, occorrerebbe che adesso tentassimo di penetrare la struttura capitalistica della Grande guerra e la sua funzione nell’intero processo sociale, per arrivare a comprendere meglio il corso, l’azione e il risultato di questo processo stesso.

La crisi bellica mondiale del 1913-1919 rappresenta una combinazione di crisi mondiale, di guerra mondiale e di rivoluzione mondiale. Essa ha mostrato che l’eterna altalena di guerra e pace tra stati capitalisti - che in sé procede in altri contesti - è implicita nel ciclo industriale. L’industrializzazione della guerra ha avuto come effetto la trasformazione della guerra industriale in una forma di crisi speciale: la crisi bellica mondiale. Ciò che vale per ogni crisi capitalistica, e cioè che essa mette a nudo il carattere disumano della società borghese e rafforza così le tendenze rivoluzionarie della lotta di classe operaia mirante alla instaurazione dell’Ordine mondiale del Lavoro, è più che mai vero per una tale crisi bellica mondiale. Se all’inizio della prima guerra mondiale c’è la crisi, alla fine di essa c’è il tentativo di un’azione rivoluzionaria a livello mondiale da parte della classe operaia.

La prima crisi bellica mondiale costituisce la chiusa del periodo di ascesa del 1895-1913 (“lunga ondata”) ed il preambolo all’attuale (“lungo”) periodo di depressione il cui speciale carattere può essere compreso solo in rapporto ai tratti peculiari di quella crisi. Alla base della guerra mondiale stavano gli scopi distruttivi di una produzione intensificatasi oltre misura; ma una volta convertita l’industria in industria bellica, si ricreò in seno alla crisi il presupposto per una nuova crisi. La sovrapproduzione originata dalla produzione di materiali da distruzione eseguì il compito specifico di ogni crisi: la distruzione del valore da cui non può essere tratto alcun profitto. Producendo guerra, la sovrapproduzione dava di nuovo luogo ad una produzione capace di realizzare profitto e faceva quindi, d’un colpo, riacquistare un senso anche a cose come il morire in un campo di concentramento e il disperato desiderio di tornare a casa: un senso disumano, capitalistico. Mentre nelle tasche di pochi capitalisti fluivano fantastici profitti, al fronte la concorrenza assumeva un carattere eroico, spingendo agli estremi limiti la prestazione degli uomini e delle macchine e rivoluzionando la tecnica e l’organizzazione. L’industria conobbe, sotto forma di industria bellica, un periodo di febbrile ed illusorio boom; ma intanto esplodeva nell’acciaio delle battaglie e svaniva con le nuvole di gas sui campi minati il lucrativo idillio dei due decenni pre-bellici; un monito per i vincitori, per i vinti e per il futuro. Era scoppiata così - oscuramente preannunciata dalle leggere “crisi commerciali” del 1901 e del 1907 - la grande crisi mondiale, che fece epoca. Essa mostrò come dietro agli affari capitalistici del tempo di pace si celassero potenti forze produttive che, una volta messe in libertà dalla guerra, minacciarono di far saltare in aria il sistema degli stati nazionali basato su lavoro salariato e capitale. Questa esplosione delle forze produttive - scatenatasi con la stessa cieca forza elementare di una catastrofe naturale - è stata spesso interpretata come la rivoluzione mondiale stessa; ma è solo dopo l’esaurimento delle energie militari del capitale che si fece avanti la vera detentrice delle forze produttive, la classe operaia stessa, col tentativo di un’azione rivoluzionaria a livello mondiale, fallito il quale i giganteschi sforzi perpetrati in questa crisi, in questa guerra e in questa rivoluzione perdettero di nuovo sia il loro senso borghese che il loro senso proletario. La classe borghese comprese che si era semplicemente trattato di un problema di sovrapproduzione e di distruzione di un valore da cui non poteva essere tratto alcun profitto, e la classe operaia si rese, dal canto suo, conto che alla crisi bellica mondiale occorreva rispondere con un’azione rivoluzionaria anche di portata mondiale, per mantenersi all’altezza del suo compito di fattrice della storia.

Solo a stento si riuscì a riaggiogare le nuove forze produttive al carro economico “pacifico” del sistema capitalistico mondiale sconvolto dalla guerra. Ma non appena le forze produttive accumulate fino al 1913, distruttivamente scatenate nel corso della prima guerra mondiale e poi ulteriormente sviluppate, furono nuovamente incanalate nel tradizionale quadro “pacifico” dell’economia capitalistica, venne alla luce dopo poco tempo che - come mostra palesemente la grande crisi mondiale odierna -il sistema degli stati nazionali riposante su lavoro salariato e capitale era ormai diventato un ostacolo allo sviluppo di queste forze. Certo, lo sforzo fatto nel corso della crisi post-bellica per incatenare di nuovo queste forze al rapporto di produzione lavoro salariato-capitale, e di reinserirle nel quadro dello stato nazionale, è stato coronato dal successo, ma ciò non toglie che l’apparato produttivo debba rimanere parzialmente inutilizzato anche nei periodi di alta congiuntura. La restrizione nazionale della produzione diviene così un metodo per superare le crisi.

I giudizi nettamente opposti che sono stati dati sul presente periodo - visto di volta in volta come “periodo di declino del capitalismo” (Sombart, Varga, Corey), o come “seconda rivoluzione industriale” (O. Bauer, Boris) - derivano la loro contraddittorietà dall’unilateralizzazione di singole componenti del processo oggi in atto, unilateralizzazione dovuta allo stesso errore prospettico che sta alla base delle diverse teorie imperialistiche del passato e dei loro più o meno tardivi derivati. Il carattere specifico dell’attuale (“lungo”) periodo di depressione è messo in luce dalla configurazione assunta dalla crisi bellica mondiale e dalle crisi post-belliche (1921, 1929). Esse sono state, e sono, crisi del sistema, ed è lecito attendersi che anche la prossima crisi mondiale abbia lo stesso carattere.

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Oggi, alla luce dell’ormai compiuta transizione dalla fase acuta a quella depressiva della crisi (cfr. le cifre dell’incremento produttivo negli USA, in Inghilterra, in Francia e in Germania, nel 1933; l’offensiva delle esportazioni giapponesi, e l’ondata di scioperi in America), si è in grado di prevedere che, una volta constatata la sterilità di una prosecuzione della generale guerra commerciale ora in atto, a questa lunghissima e durissima depressione seguirà, dopo un breve periodo di respiro, la prossima crisi mondiale. Non ci sono motivi che ci impediscano di considerare plausibile collocare intorno al 1940 l’avvento di questa crisi, e di prepararci quindi in tal senso.

La nuova forma monopolistica di Capitale e Stato - figlia della grande crisi contemporanea - adempie al compito specifico preposto oggi all’economia politica: per ottenere almeno il più alto grado di sviluppo delle trascendenti forze produttive all’interno del sistema dato, Capitale e Stato - quei due lati del rapporto sociale di base operai salariati-capitalisti - sono stati fusi assieme dalla crisi mondiale come in un’unica corazza di difesa dell’attuale contesto sociale. Il cieco soggetto Capitale con lo Stato-mallevadore come speciale organo si è oggi trasformato nell’unitario soggetto-stato Capitale. Oggi, lo Stato è qualcosa di più del meramente “ideale” capitalista complessivo, come si può rilevare dalle sue funzioni divenute al presente assai più numerose; succhiando sangue fresco dai ceti medi, la classe dominante ha assunto un aspetto nuovo e per mezzo della rivoluzione politica e delle riforme sociali fa subire alla classe operaia e a tutti gli altri elementi sociali dei mutamenti di vasto respiro. Il soggetto-stato Capitale vuole assicurarsi il monopolio della lotta di classe, e ha quindi aperto - con l’eliminazione di tutti gli organi di classe degli operai - uno spietato processo di pacificazione sociale allo scopo di integrare “organicamente” nel nuovo stato quella parte di capitale rappresentata dal lavoro salariato; contemporaneamente esso ha intrapreso una riorganizzazione di vasto raggio della classe capitalista per adattarla all’attuale compito specifico dell’economia politica. Esiste oggi tutta una scala di gradi di fusione tra Stato e Capitale (in rapporto alla storia dei singoli paesi):

  1. Identità di Stato e Capitale, economia di piano centralizzata sotto la responsabilità individuale dei vari direttori di fabbrica (capitalismo di stato bolscevico).
  2. Creazione di speciali organi autoritari di economia politica ai quali il singolo imprenditore indipendente è costretto a conformarsi (la Wirtschaftssteuerung, o “economia pilotata”, nazional-socialista).
  3. Autodisciplina corporativa dei capitalisti sotto il controllo dello stato (l’“intervento sistematico” fascista).
  4. Anche il New Deal americano, benché di natura nel complesso differente, rivela dei tratti analoghi.

Il profitto non viene più calcolato sulla base dell’impresa privata, bensì sulla base dell’intera economia nazionale: il soggetto-stato Capitale organizza il mercato interno, impone una regolamentazione (un “cartello generale” nazionale) dei prezzi e, così facendo, inasprisce allo stesso tempo la concorrenza nel quadro di quella politica commerciale internazionale divenuta, per gli stati, una questione di importanza vitale (“Tramonto dell’Autarchia”). Di conseguenza, la nuova forma monopolistica non solo non ha arrestato l’andamento ciclico dell’economia mondiale, ma non è riuscita neanche a sottrarre la propria sfera d’influenza alla “legge naturale” del capitalismo perché, per quanto concerne le crisi, essa può solo apportare nell’economia statale (nella misura in cui abolisce la natura cieca del processo) un mutamento alla distribuzione della sovrapproduzione e dei suoi effetti “collaterali” di miseria e di fame che tornano periodicamente a farsi sentire (cfr. l’Italia e la Russia nell’ultima crisi).

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Le forze produttive liberate dalla guerra agli inizi del presente periodo e poi ulteriormente incrementate, non possono venir ulteriormente sviluppate, nel contesto socio-economico dato, se non attraverso una seconda crisi bellica mondiale; ed è questo che sta al fondo dell’attuale inquietudine mondiale, serpeggiante sotto le campagne di stabilizzazione lanciate dalle nuove economie monopolistiche di stato che proprio in questo modo si stanno preparando sempre più apertamente alla guerra. Così, mentre la preparazione militare diventa ogni giorno di più l’essenza delle industrie trainanti a livello mondiale (motorizzazione, aviazione, chimica, ecc.), viene ammassato e immagazzinato - secondo piani produttivi di lungo periodo - materiale esplosivo su larga scala. Nella preparazione alla guerra rientra anche la politica di pacificazione sociale, accompagnata dalla sostituzione - ad esempio - dell’ideologia del disarmo con la propaganda delle virtù della vita militaresca, dello spirito e della sicurezza militareschi. (Il partito laburista, nel suo “Memoriale”, cambia rotta e muove verso il fronte della guerra “punitiva contro i violatori della pace”, avvolta nella sepolcrale ideologia della Società delle nazioni. Il Comintern ha dato inizio ai preparativi di guerra attraverso l’alleanza franco-russa). Gli incentivi al conflitto non mancano, a cominciare dall’espansione giapponese nell’Estremo Oriente - principale focolaio della seconda guerra mondiale - fino ai vari provvedimenti di politica estera che le varie nazioni sono costrette a prendere in forza di circostanze oggettive che sfuggono, completamente o in parte, al loro controllo.

Veniamo così a trovarci di fronte alla drammatica contraddizione per cui le forme statali ed economiche caratteristiche della nostra epoca, mentre desiderano, ed effettivamente hanno bisogno, della pace - in parte perché la loro preparazione militare è ancora incompleta ed in parte perché intimoriti dal sospetto che il sistema statale basato su lavoro salariato e capitale non sia in grado di sopravvivere, nemmeno nella sua forma più moderna, alla seconda guerra mondiale -, sono quelle che più attivamente stanno preparando la guerra, rivelandosi sempre più come forme di transizione a questa seconda guerra mondiale che, con ogni probabilità, coinciderà con la prossima crisi mondiale.

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A questo punto, diventa per noi d’importanza primaria vedere in che misura le nuove forme monopolistiche facilitino il compito della rivoluzione operaia mondiale, e quali siano le difficoltà comportate dalla nuova situazione. La serie di rivoluzioni nazionali e politiche originate dalla crisi post-bellica ha creato, una volta esauritasi la forza rivoluzionaria dell’azione operaia, un nuovo tipo di ordine nazionale che, nella multiforme configurazione che esso ha assunto a livello internazionale, si rivelerà nella seconda crisi bellica mondiale come un pericoloso fattore di disordine. La seconda guerra mondiale dimostrerà in maniera lampante che esiste un solo programma convincente: l’Ordine mondiale del Lavoro, come punto d’approdo del processo di emancipazione degli operai. Se però questo processo dovesse mancare di raggiungere il suo obbiettivo, i nuovi strumenti di dominio che la classe dirigente ha oggi messo a punto su scala nazionale verranno estesi anche a livello internazionale sulle rovine e sul sangue, e le forze produttive verranno assoggettate ad una disciplina ancor più ferrea; questa sarà la sostanza delle nuove lotte rivoluzionarie mondiali, perché l’unico fattore in grado di promuovere un vero sviluppo delle forze produttive è l’azione dei produttori.

La neghittosità che ha pervaso il movimento operaio, e alla quale va anche ricondotta la vittoria delle rivoluzioni nazionali, non è tanto la conseguenza di singole sconfitte della rivoluzione, quanto piuttosto della paralisi e della disintegrazione provocate dall’attuale ancoraggio del movimento operaio organizzato a compiti social-riformisti e politico-rivoluzionari, da cui deriva l’odierno nesso di rivoluzione borghese e rivoluzione proletaria. Dal momento che fino al 1914 il movimento operaio, impegnato in lotte e contrattazioni salariali, in battaglie elettorali e nella politica sociale, non aveva effettivamente fatto alcun passo per rompere o mettere seriamente in crisi il sistema statale e sociale riposante su lavoro salariato e capitale; dal momento che l’“obbiettivo finale” (come veniva chiamato), giustapposto a questa concreta “lotta giorno per giorno” come suo mantello ideologico, contemplava tutt’al più l’idea della “rivoluzione politica”, e dal momento che le minoranze sostenitrici della rivoluzione proletaria o le sub-correnti utopico-trascendenti non potevano esse stesse far altro, in queste circostanze, che fornire una copertura ideologica ai reali movimenti interni al capitalismo dei salariati; in una parola, dal momento che le energie rivoluzionarie accumulate nel ciclo del 1850-1917 si erano proposte compiti che non uscivano dai confini nazionali, per tutte queste ragioni, gli operai si trovarono a dover affrontare completamente impreparati una situazione nella quale essi potevano vincere solo nel quadro di una rivoluzione mondiale. Nonostante i tentativi fatti in questa direzione - il primo e più importante dei quali fu l’appello alla rivoluzione mondiale lanciato nella fase eroica della rivoluzione d’Ottobre, il cui merito immortale consiste nell’essersi intesa agli inizi come preambolo alla rivoluzione mondiale stessa - la classe operaia non riuscì, come si è visto, a reggere il ritmo delle battaglie materiali, né a far fronte ai compiti emergenti dalla nuova situazione creata dall’azione distruttiva della Grande guerra. Gli operai sembrarono “indietreggiare di fronte all’enormità dei loro stessi obbiettivi”, e per il momento la conseguenza di tutto ciò fu un’inerzia mortale destinata a prevalere per molti anni. Del Comintern non rimase che un monco fossile ormai alla deriva.

Un altro tratto caratteristico di quel periodo era la diffusa convinzione che in molte situazioni ci fosse ancora bisogno di un recupero nazionale per creare i presupposti della rivoluzione operaia. È per questo che perfino la rivoluzione nazionale del 1917 - che pure non fu una semplice vittoria della rivoluzione borghese sulla rivoluzione proletaria - contiene in sé, nei limiti nazionali delle sue lotte così come nella sua genesi e nei suoi compiti prevalentemente nazionali, il seme della contro-rivoluzione. Ogni vittoria nazionale della rivoluzione era, come tale, già controrivoluzionaria, e tale resta al di là dell’etichetta di “rivoluzione permanente” che si vuole oggi appiccicare alla serie di rivoluzioni nazionali del presente periodo, tentando di camuffarle ideologicamente come altrettante fasi della rivoluzione proletaria mondiale.

È a questo stato di cose che va ricondotto il velo bolscevico-fascista che oscura oggi un mondo in cui le rivoluzioni vincono in maniera controrivoluzionaria, e le contro-rivoluzioni in maniera rivoluzionaria. Oggi è in atto un processo del tutto inatteso: mentre gli operai si sono esauriti nella lotta e la borghesia appare profondamente scossa da una crisi mondiale senza precedenti, il Terzo Stato, sollecitato da guerre e crisi, “si è svegliato”. Così, in un “crepuscolo degli dei” che sta diventando ai suoi occhi il maggiore dei lumi, esso sviluppa un “nuovo attivismo”, ha visioni, cade in trance e scopre che gli individui non fanno parte di una classe, bensì di uno stato. Evocando, a buon diritto, lo spirito militare come motore dell’apparato industriale, che porta ancora impresso il marchio di fabbrica “Grande guerra”, esso diviene allora il portavoce e il porta-bandiera della sola cosa possibile all’interno del contesto sociale dato: la riorganizzazione mondiale del capitale, che corrisponde al compito specifico dell’economia politica nel presente periodo. Con l’aiuto dell’insurrezione dei ceti medi, esso è riuscito anche a far occupare da suoi membri posti politici di importanza determinante, arrivando così a incorporare, in parte anche personalmente, il soggetto-stato Capitale.

Al capitale monopolistico questo supplemento di personale torna assai comodo, ma esso non rappresenta uno svantaggio nemmeno per gli operai rivoluzionari, per i quali un membro fascista del Terzo Stato come cancelliere o ministro del capitale monopolistico è sempre meglio di un socialista à la Severing o à la Norman Thomas. Ora che la rivoluzione politica e la sola riforma sociale possibile hanno sconfitto gli operai, rivelandosi come loro assoluta mancanza di libertà, essi hanno almeno conquistato la libertà negativa per i loro giganteschi fini. Nessun Kautsky e nessun suo discepolo russo potranno d’ora in poi farsi venire in mente di suggerire loro “dall’esterno” quale sia veramente la loro “missione storica”, come nessun Bernstein e nessun suo discepolo inglese riusciranno più a far apparire agli operai l’integrazione nell’apparato statale come un “passo avanti verso il socialismo”. Basta rispolverare i vecchi ritratti dei Castore e Polluce marxisti per cogliere al volo la differenza. Il cordone ombelicale tra rivoluzione borghese e rivoluzione proletaria è ormai reciso, e il rovesciamento rivoluzionario mondiale di Capitale e Stato è diventato un compito palpabilmente concreto.

Tutte le vere difficoltà della nuova situazione derivano, però, dalla circostanza che i movimenti rivoluzionari della classe operaia devono, nonostante le aspre lotte che vengono portate avanti in tutti i paesi del mondo, ricominciare, tutto sommato, ancora una volta dall’inizio, mentre con l’approssimarsi della seconda guerra mondiale si sta già delineando l’apertura di una nuova crisi rivoluzionaria a livello mondiale. Ed è con ciò che dovremo fare i conti.

Da International Council Correspondence cit., n. 8, maggio 1935; ora in New Essays cit., vol. I, pp. 7-12

Nell’edizione originale, il presente articolo era preceduto dalla seguente nota editoriale: “Le seguenti tesi sono state scritte da un compagno che non appartiene al nostro gruppo. Senza approvarle completamente nella loro formulazione attuale, le abbiamo ritenute interessanti e degne di essere sottoposte a discussione. Invitiamo, quindi, i nostri lettori a partecipare a questa discussione, aperta, nel presente fascicolo, da un contributo di Karl Korsch. [...]” [NdT].

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