Centri sociali

Documento scritto nel 1995 da compagni che uscirono dall’area dell’Autonomia per aderire ai Gruppi di Lotta Proletaria - A cura della sezione “Guido Torricelli” di Parma del Partito Comunista Internazionalista

1989: la resistenza

Per chi come noi ha iniziato la propria militanza verso la fine degli anni 1980 / inizio 1990, i Centri Sociali Autogestiti (CSA) sono stati l'unico punto di riferimento. Durante gli anni '80 il mondo sembrava, almeno in Italia, il "migliore di quelli possibili" per tutti (proletari compresi); cancellato ogni orizzonte rivoluzionario dalle menti dei sedicenti comunisti e dalle coscienze della sempre più atomizzata e disunita classe operaia, i CSA hanno avuto la funzione di luoghi di aggregazione, anche proletari, fuori dall'ambito istituzionale (sindacale e partitico), soprattutto nelle metropoli.

Alcuni di essi hanno senz'altro funzionato da "ultimi fortini" dell'immaginario comunista rivoluzionario. Nell'’89, lo sgombero e la resistenza degli occupati del CSA Leoncavallo, insieme a ben più importanti eventi di carattere internazionale (caduta del muro di Berlino / nuovo ordine mondiale) ha determinato una tappa importante e al contempo fuorviante, per chi si affacciava in quel momento, o giù di lì, alla lotta. Ecco secondo noi perché:

  • La resistenza dei leoncavallini (non solo alle forze dell'ordine) era un atto visibile di cui i media e la "gente", bene o male, era costretta a parlare; proprio nell'anno in cui ogni cosa che odorava di comunismo la si voleva far passare per vecchia e non esisteva certo un'analisi chiara e abbastanza diffusa che condannasse realmente da sinistra (anche nell'estrema sinistra) gli oppressivi regimi del capitalismo di stato dell'est, senza usare gli stessi termini e dire le stesse fesserie usate dalla stampa borghese.

In questo contesto quella del Leonka sembrava una lotta nuova, non più fuori dal tempo.

  • Dal 1989 in poi i collettivi che si sono formati a macchia d'olio in ogni città d'Italia per dar vita a un CSA, si sono quasi sempre modellati su questo evento, in special modo nelle città più piccole.
  • La semplice difesa delle mura di un CSA sembrava diventare un gesto antagonista, di per sé, alla società capitalista e al potere in genere. Necessario e sufficiente.
  • Chi si è formato politicamente in uno di questi collettivi (di solito con un'ignoranza assoluta dell'ABC del marxismo) ha sempre confuso il proprio ruolo sociale con quello politico.

A questo punto siamo sicuri che già qualcuno rivendicherà differenze, non solo politiche ma anche geografico-sociali, tra centro sociale e centro sociale, che peraltro esistono, ma che vista la discreta conoscenza di diversi CSA avuta in questi anni, non ci sembra tutto sommato intaccare di molto quanto detto finora.

Nonostante il panorama dei CSA sia, oggi più che mai, molto variegato, va detto che fondamentalmente due sono le anime politiche, una anarchica ed una "comunista" (erede di ciò che resta dell'Autonomia Operaia), le quali agiscono, a volte esplicitamente, altre più sottilmente e confusamente, dentro e ai margini dei CSA. Spesso le posizioni sono però ulteriormente sovrapposte e diversificate, in particolare sul ruolo che va attribuito ai CSA. C'è chi li ha sempre pensati come isole felici, piccole società collettiviste dentro la grande società capitalista, capaci di poterla influenzare, infettandole il germe dell'autogestione. Chi, ridimensionandone il carattere autonomo dal resto della società, li vede strumentalmente come i luoghi da cui far partire altre battaglie sociali sul terreno del lavoro, della scuola, del territorio, ecc. Chi li considera luoghi temporaneamente di contropotere (o meglio "liberati"), destinati a rimanere tali, e suggerisce, rifiutando ormai l'idea di intaccare la struttura della società, di goderseli finché ci sono.

1994: la battaglia

Quasi tutti, comunque, considerano la lotta per i CSA una battaglia sociale nuova, visibile, importante e antagonista già di per sé.

Questo fino a circa un anno fa, cioè quando i CSA si sono dati appuntamento, nel momento di massima espansione e di massima visibilità, riconquistando l'attenzione della cronaca, ancora grazie all'esaltante resistenza del CSA Leoncavallo che, insieme a migliaia di militanti di tutte le città italiane, nel Settembre del '94 si è scontrato con le forze dell'ordine, stavolta non da dentro le mura del centro sociale per il solo diritto di esistere, ma nelle strade del centro di Milano per le parole d'ordine dell'opposizione sociale.

Non chiedeteci esattamente quali sono queste parole d'ordine, ci sarà sempre qualcuno pronto a smentirne una o due, da ciò che ci è dato sapere deduciamo più o meno questo: salario minimo garantito, lavorare meno a parità di salario, lavori socialmente utili, autorganizzazione sindacale, autogestione degli spazi sociali. Ora, dunque, il panorama politico in cui navigano un po' tutti i CSA è ulteriormente cambiato; chi, qualche anno fa (in largo anticipo), sosteneva che si stesse correndo il rischio di un'istituzionalizzazione dei CSA e che la confusione politica imperante nei centri, nel loro complesso, e nelle singole menti dei militanti, in particolare, avrebbe creato nuove divisioni e strane unioni, ai più incomprensibili, si trova superato dai fatti.

Ormai molti sono i CSA semi-legalizzati da amministrazioni più o meno illuminate, spesso in cambio di velate campagne elettorali per candidati progressisti o di elargizioni di particolari servizi sociali.

Non per niente, gli esperti del settore no profit includono di diritto quasi tutti i CSA nel nuovo settore, e una certa parte di questi (Leonka compreso) pare starci di buon grado, pur di non perdere il nuovo riconoscimento istituzionale.

L’area dell’Autonomia

Ora, le anime politiche che hanno teorizzato la necessità dei CSA come luoghi di contropotere (temporaneo o permanente), sono venute del tutto allo scoperto lanciando parole d'ordine a cui tutti hanno, quasi senza discussione, automaticamente, aderito (senza magari nemmeno saperlo), partecipando a meeting e cortei convocati su tali parole d’ordine.

In questo contesto, l'area anarchica si è politicamente ridimensionata e/o appiattita sui contenuti storici e nuovi dell'"autonomia" che (pur divisa al suo interno) si è ricreata la sua base sociale, che sta appunto nei militanti e nei frequentatori dei CSA.

Facciamo ora un passo indietro, rispetto alla confusione tra ruolo politico e ruolo sociale che un militante di un CSA di solito si attribuisce. Per quanto ne sappiamo la composizione sociale dei collettivi che gestiscono i CSA è, nella maggior parte dei casi, di tipo studentesco, (non sempre di origine proletaria), per noi questo non toglie affatto valore alla lotta che portano avanti, ma ne cambia necessariamente i connotati.

Se un CSA fosse occupato e gestito da un gruppo di proletari di un quartiere o di una città, la lotta di questi sarebbe, seppur marginale perché esterna all'ambito produttivo, una lotta proletaria e antagonista alla speculazione del capitale in ambito edilizio, ricreativo e territoriale, portata avanti in prima persona dai diretti interessati. I comunisti (proletari o meno), in un CSA di questo tipo troverebbero un luogo di lotta e discussione dove poter diffondere e radicare il programma rivoluzionario nel modo più naturale che i comunisti conoscono, cioè partecipando ad un’istanza proletaria.

Oppure, se un CSA socialmente eterogeneo aderisse apertamente e con la consapevolezza di tutti i suoi appartenenti ad una precisa area politica, per chi è esterno a quest’area il rapporto sarebbe più difficile ma molto più chiaro, e in tal caso si potrebbe aderire alla linea di un CSA per le ragioni politiche che esprimerebbe tale area, indipendentemente dai “bisogni” che il centro sociale soddisfa.

Ma i due casi qui illustrati sono più unici che rari. La realtà dei CSA è molto più confusa, soprattutto a livello politico, e questo non solo (come qualche furbetto starà già pensando) perché “la realtà è sempre un po’ confusa”, ma soprattutto perché - oltre a essere difficile cogliere fino in fondo quale sia la linea politica dell’Autonomia! - c’è chi, pur di non perdere una vasta base sociale per lo più poco cosciente politicamente, lascia che questa indeterminatezza permanga.

Quello che però maggiormente ci sfugge è il fine di tutto ciò, probabilmente più confuso della pratica stessa.

La teoria

Forse, andando alle radici teoriche di quest’area, si possono trovare alcune spiegazioni in più. Il pensiero che oggi alimenta tante anime dell’Autonomia è soprattutto quello del Signor Negri e ha le sue radici nelle tesi degli “operaisti” italiani degli anni 1960, i quali sostenevano che il capitalismo - dall’ultima guerra mondiale in poi - ha risolto le proprie contraddizioni a livello produttivo attraverso la pianificazione, della produzione stessa, negando quindi l’assioma marxista secondo cui la produzione capitalistica non può in alcun modo disfarsi dei propri limiti naturali. Di conseguenza, le crisi capitalistiche che ricorrono (come quella attuale) sono per Negri e gli operaisti crisi dovute alle lotte di classe, appunto perché la contraddizione rimarrebbe solo a livello distributivo e gerarchico (ovvero, lotta nella distribuzione della ricchezza e del potere).

Ma mentre gli operaisti valutano l’operaio di fabbrica come l’artefice diretto delle crisi capitalistiche attraverso le proprie lotte, il Signor Negri, riscontrando nell’Italia degli anni 1970 la scarsa combattività dell’operaio di fabbrica (dovuta anche all’applicazione di vari ammortizzatori sociali), ha iniziato a cercare altrove - e pare lo stia ancora cercando! - il “nuovo soggetto rivoluzionario”. In un primo momento lo aveva trovato nel cosiddetto “operaio sociale”, cioè chiunque entri a far parte, da subalterno, nel processo produttivo, riproduttivo e di consumo,cioè praticamente tutti! (anche la moglie dell’industriale quando va a fare la spesa…).

Chiaramente, l’individuazione di questo nuovo soggetto è fatta in base a canoni sociologici e non marxisti, tant’è che Negri e i suoi epigoni hanno potuto indicare dal 1977 a oggi un numero sconsiderato di possibili avanguardie sociali e politiche della nuova figura-cardine della società, che farebbero scoppiare le crisi capitalistiche per poi pagarle: dallo studente fuori sede alle donne in quanto tali, dal disoccupato cronico al bancario, dal programmatore di computer al cameraman.

Entro tali elucubrazioni scompare il problema dei proletari, il problema del potere, della rivoluzione, e sorge così il mito del contropotere, che lentamente ma inesorabilmente logorerà il potere capitalistico e ogni forza residua rimastagli… Ulteriore, ovvia negazione, quella del partito-guida per un processo rivoluzionario che ormai avverrebbe quasi da solo, sempre che sia ancora possibile chiamarlo tale.

Il territorio

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Come abbiamo precedentemente detto, la purezza formale dei CSA non li ha messi certo al riparo da una progressiva istituzionalizzazione, da autoritarismi interni e ostracismi di stampo staliniano, da alleanze molto larghe contro la nuova destra, da formazioni di nuovi sindacatini e da prestazioni di volontariato.

E tutta l’area dell’Autonomia, che ora si divide su questi temi, priva di un metodo di lettura oggettivo, è per natura destinata a non venire a capo delle proprie divisioni, che d’altronde non ostacolano molto la loro unità operativa.

Noi che, come il vecchio Marx, non siamo degli economisti, ma crediamo che sia la struttura economica a dettare legge in questa società, riteniamo che, nonostante il fatto che la produzione si sia frazionata e abbia ridotto molto l’utilizzo di lavoro umano in rapporto ai macchinari attraverso la tecnologizzazione delle industrie (per lo meno in Occidente), il proletariato produttivo - cioè la classe operaia - rimanga comunque l’unica fonte di valorizzazione capitalistica attraverso lo sfruttamento, marxisticamente inteso.

Tenendo però conto che la precarizzazione, la facile sostituibilità, l’intercambiabilità da settore a settore sono oggi caratteristiche non solo della forza-lavoro degli operai di fabbrica, ma della forza-lavoro di tutti i proletari, pensiamo che sia anche necessario puntare alla creazione di un vasto fronte proletario su base territoriale, più che privilegiare – a livello di intervento politico – l’operaio di fabbrica. Per essere più precisi: con l’acuirsi della crisi strutturale dovuta alla caduta del saggio del profitto, aumentano i disoccupati e i lavoratori precari, per cui, ad esempio, un operaio metalmeccanico assunto con contratto di formazione-lavoro, può trovarsi disoccupato per un anno, commesso di un grande magazzino l’anno dopo, impiegato statale a tempo determinato, e poi ancora disoccupato…

E’ chiaro dunque che occorrerà rincorrere chi lavora come operaio produttivo nel suo diverso iter lavorativo, che non è mai - o lo è molto raramente - stabile. Per fare questo, la creazione di luoghi di aggregazione proletaria a livello territoriale sarebbe più che auspicabile, ma a patto che si chiarisse che di questo si tratta, e non di luoghi di fantomatico contropotere o di centri da cui lanciare le parole d’ordine, utopiste e riformiste al contempo, dell’“opposizione sociale”.

Centri sociali proletari

Il capitalismo ha sicuramente migliorato e ingrandito il suo dominio ideologico sulla società, attraverso l’uso dei mass-media, la cultura, la religione, e grazie al servigio controrivoluzionario che settant’anni di dominio stalinista e socialdemocratico sui proletari ha reso alla causa comunista.

Anche per questo, pur essendo – da un punto di vista strettamente economico – la situazione internazionale pre-rivoluzionaria, siamo purtroppo ben lontani dalla creazione di quella avanguardia di classe necessaria a guidare la rivoluzione che, se ci sarà, dovrà essere internazionale e internazionalista.

Se i CSA non fossero, come quasi tutti sono, anche se non dichiaratamente, o fortini dell’Autonimia, o in via di istituzionalizzazione, o in mano a “collettivi anarchici” auto-ghettizzanti, potrebbero essere luoghi ideali dove riaggregare un proletariato sempre più bastonato e diviso, dove rilanciare la necessità della rottura rivoluzionaria, contro ogni tipo di riformismo, anche se radicale, dove riparlare di cosa significa autorganizzazione di classe, dove ricreare le basi di una organizzazione comunista internazionalista.

Ma così non è. Per cui, ciò che adesso crediamo sia necessario fare rispetto alla generosità e alla buona fede di tanti giovani compagni dei CSA, è demistificare. Eliminare tutta la confusione ideologica che non permette il formarsi di una chiara coscienza politica e di classe.