America Latina: è finita un'epoca?

È finita un'epoca?

Questa domanda sorge spontanea osservando il concitato accavallarsi degli eventi nel Cono Sud del continente americano. Dal Venezuela alla Terra del Fuoco, quasi tutti i governi di quello che è sempre stato considerato “el patio trasero” (il cortile di casa) dell'imperialismo statunitense, si schierano a difesa del presidente boliviano Evo Morales, contro i tentativi di destabilizzare il suo governo sostenuti, se non fomentati, sotto banco da Washington.

I fatti sono noti. La Bolivia, un paese dalle enormi disuguaglianze sociali, per un paradosso soltanto apparente tipico del capitalismo, ha nel sottosuolo grandi risorse di materie prime, in primo luogo di gas. Con la salita al potere dell'ex “cocalero” Morales, esponente del MAS (Movimiento al socialismo), la ricca borghesia dei distretti orientali del paese andino - dove si concentrano gli idrocarburi, le terre migliori e le principali attività economiche - ha accelerato l'azione, contro il potere centrale, agitando come una clava i pregiudizi razzisti del ceto medio, prevalentemente bianco e prevalentemente concentrato in quelle zone. Naturalmente, proprio come nel caso della disgregazione dell'ex Yugoslavia o del leghismo padano, le ansie di libertà dei popoli non c'entrano nulla. È la ricca borghesia delle regioni orientali che si oppone alla nazionalizzazione dei “suoi” idrocarburi, ai timidi progetti di riforma agraria che toccherebbero, in parte, le “sue” vaste proprietà terriere, al blando riformismo sociale messo in atto dal governo grazie soprattutto ai guadagni derivanti dagli alti prezzi delle materie prime e, in primo luogo, degli idrocarburi.

Ma oltre alla grande borghesia boliviana, ad essere danneggiate dal riformismo sono anche le multinazionali - non solo nordamericane - che da sempre si sono avventate sulla Bolivia e sull'America Latina per saccheggiarne le risorse, tramite uno spietato sfruttamento del proletariato e delle masse contadine indigene, inchiodate a una miseria secolare.

Dopo la netta vittoria ottenuta da Morales nel referendum di agosto, la grande borghesia, sostenuta dall'amministrazione yankee, ha scatenato le proprie bande armate contro il potere centrale, quasi in una prova di guerra civile: sabotaggio di un importante gasdotto, occupazione di aeroporti e di altre vie di comunicazione, attacchi armati contro edifici statali, massacro di contadini sostenitori di “Evo”.

Se la risposta di Morales, sul piano interno, è stata, fino alla proclamazione dello stato d'assedio nelle regioni teatro degli scontri, tutto sommato molto prudente, è sul piano internazionale che ha assunto aspetti clamorosi: l'espulsione dell'ambasciatore statunitense ha provocato una specie di reazione a catena. Chavez l'ha subito imitato, cacciando da Caracas l'ambasciatore a stelle e strisce, minacciando per di più di interrompere le forniture di petrolio agli USA; ma sono scesi in campo a sostegno di Morales anche l'Ecuador, il Paraguay e i due “pesi massimi” del Sudamerica: Argentina e Brasile. Tutti, con parole inequivocabili, hanno avvertito che non tollereranno nessun intervento esterno - o sobillato dall'esterno - teso a rompere “l'ordine democratico” boliviano o di altri paesi. Il presidente brasiliano Lula, in particolare, ha usato le parole più dure - benché nel solito “politichese” - contro gli Stati Uniti, che proprio in questi giorni hanno inviato la Quarta Flotta a pattugliare il tratto di mare che bagna le coste del Venezuela e del Brasile, nelle cui acque territoriali sarebbe stato trovato uno dei più grandi giacimenti di petrolio degli ultimi decenni.

Ma a turbare il sonno dei padroni del “patio trasero” non c'è solo questo. Argentina e Brasile, all'inizio di questo mese, hanno firmato un accordo economico con il quale abbandonano il dollaro come mezzo di pagamento nei loro scambi commerciali, primo passo, secondo Lula, verso un'effettiva integrazione economica continentale, finalmente libera dagli artigli del capitalismo “gringo”.

Chavez, dopo aver concluso con Putin l'acquisto di una quantità enorme di armi leggere, ospiterà navi da guerra e bombardieri russi sul proprio territorio, guanto di sfida alle continue provocazioni USA. Lo stesso Morales, poco tempo fa, ha intensificato i rapporti con un altro grande produttore di gas e arci-nemico degli USA, l'Iran, per rafforzare - secondo la propaganda ufficiale - oltre alla cooperazione economica, il fronte anti-imperialista.

Ma è proprio questo il punto. L'antimperialismo è tale solo se condotto da posizioni coerentemente anticapitalistiche, dunque, antinazionalistiche.

Chavez, Lula, Morales, ecc., si muovono sì, più o meno decisamente, contro il dominio statunitense, ma in un'ottica democratico-borghese, e il cosiddetto socialismo bolivariano (o andino) non rappresenta altro che una prospettiva politica nazional-riformista, che non supera mai la cornice del capitalismo. Anzi, il grande progetto che sta dietro, e in un certo qual modo percorre questo nuovo scenario, è la nascita di un polo imperialista latinoamericano. Quanto (e quando) sia realizzabile tutto ciò non è possibile saperlo, perché l'imperialismo statunitense, oggi in difficoltà, non è certamente morto, né sono stati recisi i mille fili che legano gli interessi di larghi settori della grande borghesia latinoamericana con lo Zio Sam. Ma soprattutto, perché, finora, l'altro grande protagonista del dramma storico, il proletariato e le masse povere “indie”, è al rimorchio del nazional-riformismo, è incapace di interpretare in maniera indipendente il proprio ruolo di classe, separato dalle per altro pressoché insistenti avanguardie comuniste.

Fino a quando?