Dubai, il bengodi che non c’è

È interessante Dubai, sia perché questo emirato minutissimo ed effettivamente privo di risorse rappresenta a tutti gli effetti lo sfarzo della borghesia mondiale, sia perché è stato colpito recentissimamente da una bolla finanziaria, interessando i già precari equilibri dell'economia globale. Proveremo ad affrontare sinteticamente la storia economica dell'emirato, per spiegare le cause della bolla, infine proveremo a fare un primo bilancio degli effetti di questa bolla nell'economia globale. Inoltre, proveremo - nonostante la penuria di articoli e documenti a riguardo - ad analizzare le condizioni e le lotte dei lavoratori dell’emirato.

Il villaggio di pescatori

Durante la Seconda Guerra Mondiale, Dubai contava ancora 20mila abitanti ed aveva una economia basata sulla pesca e sul mercato delle perle. Conobbe negli anni 1950 grazie ai prestiti concessi dall’emiro del Kuwait (allora più ricco), un primo sviluppo, con l’apertura di un aeroporto, e del canale. Alla fine degli anni Sessanta la città contava 150mila abitanti.

Gli anni 1970 e le prime opere faraoniche

Il primo slancio in avanti c’è stato negli anni 1970, anni di alti profitti legati all’aumentare vertiginoso dei prezzi del petrolio (1). In questo decennio l’emiro Sheikh Rashid poté accumulare capitali consistenti e ripagare i debiti. In un certo senso poté assicurarsi la prima condizione di quel binomio, che permette la realizzazione dell'accumulazione capitalistica, costituito da un capitale iniziale da investire e da una grande massa di forza lavoro “libera” e a basso costo. La seconda condizione (2), era già garantita dalla presenza di grandi risorse di forza lavoro quali erano (e sono..) l’Iran, il Pakistan e l’India. Insomma così, verso la fine degli anni 1970 e durante gli anni 1980, iniziano i lavori per le prime opere faraoniche che hanno reso nota questa città. Una di queste opere è il famoso porto industriale di Jebel Ali, il cui progetto iniziale, completato nel 1983, comprendeva ben 66 attracchi mercantili. È importante evidenziare il costo di questa opera, sostenuto come detto prima dall’abbondanza di forza lavoro e dall'aumento dei prezzi dell’oro nero; infatti si tratta di 3 miliardi di dollari, il cui equivalente oggi si stima pari a 9 miliardi di dollari (3).

La prima crisi finanziaria di Dubai

In uno scenario economico internazionale, caratterizzato dalla più che trentennale caduta del saggio del profitto a livello mondiale (4), la tradizionale “vocazione” alla speculazione sul prezzo del petrolio della borghesia dubaita è stata rafforzata, ma i limiti propri della speculazione sono apparsi più di una volta. Per esempio, col calo dei prezzi del greggio che ha caratterizzato gli anni 1980 (5), Dubai conobbe un periodo di grave crisi economica, crisi che culminò con scenari simili a quelli che vive proprio oggi: la bancarotta. Ciò ci dimostra che le condizioni di esistenza del Capitale, oggi, non sono sufficienti a garantire uno sviluppo “felice” in un una nicchia locale, giacché si è fortemente condizionati dal momento generale del capitalismo.

Sheikh Rashid, negli anni 1970, ha sfruttato inizialmente la situazione politica internazionale per far crescere i prezzi del greggio assieme ai suoi colleghi emiri. Ma l’aumento dei costi del greggio ha profondamente gravato sui costi di produzione mondiali e in termini di aumento del capitale costante rispetto al variabile, e quindi accelerato la caduta tendenziale al saggio medio del profitto (6): se questo ha dato una spinta notevolissima alla finanziarizzazione dell'economia, permettendo di realizzare, in un primo momento, enormi profitti speculativi, alla lunga ha portato dritto dritto al fallimento, non potendo la speculazione sostituire la produzione di plusvalore reale.

La guerra, la fortuna

Ma come esce dalla crisi Dubai? Citiamo Marx:

“Con quale mezzo riesce la borghesia a superare le crisi? Per un verso, distruggendo forzatamente una grande quantità di forze produttive; per un altro verso, conquistando nuovi mercati e sfruttando più intensamente i mercati già esistenti (7).”

Dunque quali delle due leve è andata in soccorso dell’asfittica economia dubaita? Sia la prima che la seconda. Nel 1990 succede a Sheikh Rashid il figlio Bin Rashid al Maktoum. Lo stesso anno scoppia la Prima Guerra del Golfo, il che significa, ancora, alti prezzi per l’oro nero. Oltretutto trova un motivo per esistere il mastodontico porto di Jebel Ali: con la liberazione dell’emirato “amico” del Kuwait, i mezzi per la ricostruzione degli oleodotti e degli impianti di raffinazione sabotati dal “nemico” (8) Saddam, passano proprio per quel porto. Questa felice combinazione di fattori legati alla guerra, ha di fatto così rianimato l’economia di Dubai, permettendo anche una modernizzazione degli uffici statali e dei servizi.

È importante sottolineare che il tutto avviene durante ed in seguito alla caduta del blocco imperialistico sovietico che, di fatto, ha dato risultati simili ad una guerra mondiale, rilanciando i saggi del profitto, dunque in un momento favorevole, per quanto sicuramente più breve di quello di inizio ciclo (quello successivo al secondo conflitto mondiale), un momento, si può dire, con tempi di valorizzazione significativamente più rapidi.

Bin Rashid e finanziarizzazione

La politica economica portata avanti da Bin Rashid, è sicuramente più moderna di quella del padre ed adeguata ai tempi che corrono. Bin Rashid è consapevole che non può affidare l’economia del suo minutissimo emiro al petrolio, dal momento che le risorse petrolifere dubaite erano già sul punto di esaurirsi e di scarsissima qualità. Inoltre, se intende rendersi indipendente economicamente dall’emiro di Abu Dhabi (in cui sono concentrati il grosso dei giacimenti degli Emirati Arabi Uniti), sa che deve essere inventivo.

Il figlio comprende bene che occorre guardare verso ciò che ha permesso lo sviluppo “virtuale” degli anni 1980, il capitale finanziario. Così investe molto del capitale accumulato nel boom della Guerra del Golfo nel rendere Dubai un polo attrattivo nel mondo della finanza, e per fare questo deve necessariamente “entrare nel giro”. Avvengono così i primi matrimoni finanziari fra le banche dubaite e le più spericolate banche americane ed inglesi.

In pochi anni Bin Rashid si vedrà sulla cresta dell’onda della bolla di Internet, mentre costruisce Dubai Internet City proprio nel 1999, dimostrandosi subito un abile destreggiatore nel mondo delle alchimie finanziarie.

La città di Dubai inizia ad essere una delle capitali del mondo finanziario. Bin Rashid si impegna a trasformare la città in un mega salotto lussuoso per azionisti impaccati di soldi, una città da mille ed una notte, ricca di sfarzo, un monumento alla frenesia e al parassitismo del borghese dell’anno 2000, insomma la città che noi tutti ci figuriamo.

La bolla immobiliare

Finita la pacchia digitale-informatica, il nostro alchimista approda nel mondo del mattone, decide di impegnarsi, sfruttando magari i rincari dei prezzi del petrolio dovuti ai bombardamenti americani a Baghdad proprio del 1999 e l’instabilità del conflitto israelo-palestinese.

Nasce proprio alla fine degli anni 1990, la società statale Nakheel fondata dallo stesso Rashid, e la stessa Emaar. Lo stesso però si rende conto ben presto che fra lui ed il cemento c’è un problema di natura legale, non trascurabile. I paesi arabi in seguito al “problema immobiliare israeliano”, cioè al fatto che i coloni israeliani si comprarono la Palestina, con tutti i problemi che ne seguirono, decisero di firmare un patto per il quale un non-cittadino arabo non poteva possedere proprietà immobili in un paese arabo. Questo patto di fedeltà “assoluta” alla propria terra, firmato col ricordo del sangue dei “fratelli” palestinesi da tutti i padroni arabi, sembrava fuori discussione. Eppure Bin Rashid, da buon capitalista moderno, comprende che fra lui e gli affari non si possono mettere in mezzo le cose di famiglia, e quindi per raggirare il problema rispolvera niente di meno che i contratti feudali, creando gli affitti-concessioni di 99 anni, per gli acquirenti stranieri. La cosa ha incrementato il valore di mercato dei nuovi quartieri residenziali come Jumeirah e New Dubai, accelerando significatamene i tempi di valorizzazione dei capitali investiti. Il che ha presto inebriato le fantasie di Bin Rashid, che l’anno successivo prepara un piano di liberalizzazione progressiva delle proprietà immobili.

Il capitale finanziario si presenta, e Dubai spalanca le sue porte.

“L’apertura dell’asta per le ville del complesso residenziale di lusso The Meadows, presso la sala da ballo dell’albergo Emirates Towers, vedeva migliaia, accorsi da tutto il mondo, fare a spintoni per entrare per prima, e 700 ville vendute nel giro di poche ore. (9)

Altri complessi seguirono di seguito nell’euforia imprenditoriale, e nascono così ad opera di Emaar i complessi Arabian Ranches e The springs. Nel frattempo Nakheel fa costruire le sue isole artificiali The Palm. Il capitale finanziario si mangia il mare per fare spazio al cemento. Ma per completare il miracolo, decide di mangiarsi anche il deserto facendo largo al mare… Infatti, 3.5Km di costa artificiale vengono creati nel deserto per costruire grattacieli di lusso da 44 piani, Dubai Marina, nonché opera della gemella Emaar. La sfida fra la Emaar e la Nakheel non può fermarsi a questo: deve compiere anche il miracolo di trasformare il deserto in un grande giardino verde, così la Emaar costruisce The Greens, e Nakheel The Gardens... senza citare altri quartieri come International City, Old City etc. Ma il capitale finanziario non si accontenta di aggredire la terra, sembra volere persino accoltellare il cielo, quando viene costruito a Burj Dubai il grattacielo più alto del mondo (170 piani!).

Di cosa sono capaci le forze produttive che il capitale nella sua era imperialista ha saputo generare! Quanto potranno essere fruttuose al servizio delle masse lavoratrici! Al servizio dei bisogni reali, invece che al servizio delle follie finanziarie di pochi “ingordi” capitalisti!

Tuttavia le prime contraddizioni in questa grande festa del cemento in cui è stata coinvolta Dubai, cominciano presto a manifestarsi. Già nel 2004-2005 si cominciano ad avere i primi ritardi nelle consegne, ritardi che raggiungono anche i 6 mesi (che per Dubai sono davvero tanti). Insomma i cantieri cominciano a durare di più, perché rallentano i tempi di realizzazione (al capitalista non conviene continuare a costruire se molte delle strutture che ha costruito sono ancora in vendita). Nell’euforia generale sono state prodotte molte più merci di quante ne possa assorbire il mercato.

Come fa il capitalista a risolvere modernamente questo problema? Ancora una volta risponde Marx:

“D’altra parte si può vendere per un lasso di tempo determinato l’uso di alcuni generi di merci, p.e. d’una casa. L’acquirente ha effettivamente avuto il valore d’uso della merce soltanto quando scade il periodo di affitto. Egli l’acquista prima di pagarla. Un possessore di merci vende merce presente, l’altro acquista come semplice rappresentante di denaro o come rappresentante di denaro futuro. Il venditore diviene creditore, l’acquirente diviene debitore (10).”

Insomma nello stesso 2005, onde evitare un arresto economico, l’HSBC comincia ad offrire i primi mutui onde agevolare la vendita, e i tempi di valorizzazione. Seguono subito dopo l’esempio, pionieristico per Dubai, altre banche locali, e la stessa Banca Commerciale di Abu Dhabi. Insomma, si cercava di tenere viva la bolla dell’edilizia consapevoli che prima o poi i nodi sarebbero venuti al pettine, si cerca così di vendere virtualmente le strutture per incoraggiare la costruzione di nuove.

La crisi, un terremoto nel mondo della finanza

Le forti oscillazioni verso l'alto dei prezzi delle case e l’esitazione con la quale le banche si prestavano a concedere mutui, in particolare sui progetti di medio valore, erano un segno imminente di saturazione del mercato, segno che la pacchia era, forse, già finita. Infine il complesso lussuosissimo Golden Mile presso il Palm Jumeirah (l’isola artificiale) non vedeva acquirenti né creditori.

A rendere instabile l’economia dubaita v’è anche il forte calo dei prezzi del greggio di Abu Dhabi.

Nel 2006, Rashid elimina ogni ostacolo alla compravendita di proprietà privata nell’emiro di Dubai, nel tentativo di rianimare ed attirare capitali nella bolla, che altrimenti sarebbe scoppiata subito. I risultati in termini finanziari sono tangibili: il flusso di capitale estero aumenta del 59% nell’anno 2006-2007, e del 123% nel 2008! (11)

Dubai in questo modo diventa un centro gravitazionale per tutti gli asset tossici dei mutui subprime delle banche inglesi e scozzesi.

Ma allo stesso tempo, proprio nell’anno di picco del flusso di capitale finanziario entrante, il 2008, si cominciavano a vedere i primi segni evidenti di crisi. Il significativo rallentamento della compravendita degli immobili ha scoraggiato il mercato, portando non solo ad una brusca interruzione di molte opere (ora i ritardi nelle consegne diventano veri e propri stop per l’80% dei cantieri!) (12) - con relativi licenziamenti di massa (la popolazione cala del 17%) (13), ma anche ad un calo significativo (si stima il 50%) dei prezzi medi degli immobili.

Insomma, alla fine di novembre le finanze dubaita sono costrette a dichiarare un buco di 59 miliardi di dollari, cifra che secondo l’UBS (banca svizzera) può arrivare a contare anche 90-100 miliardi di dollari (14). Cifra talmente grande da potersi approssimare al valore del PIL annuo dello stesso emirato.

L’emirato di Abu Dhabi, i cui investimenti contano circa il 30% dei capitali attratti nella bolla, ha fatto sapere che impiegherà i suoi petroldollari nel tentativo di salvare l’emiro fratello Rashid, ma bisogna considerare che ultimamente lo stesso emiro di Abu Dhabi stava intraprendendo scelte finanziarie pericolose (le risorse naturali dell’emirato, del resto, non sono infinite, e si cerca di accumulare il più possibile freneticamente).

Che risonanza ha avuto dunque il terremoto che ha colpito Dubai nel mondo? Considerando che, come accennato sopra, Rashid ha investito molti capitali in tutto il mondo, ma soprattutto considerando che Dubai ha attratto quantità abnormi di capitale finanziario, è chiaro che la crisi di Dubai non può che aggravare il momento generale del capitalismo.

È noto, del resto, che Dubai possiede il 2% della Sony, il 3% dell’Eads (industria pesante, aeronautica), il 6% di HSBC (la maggiore delle banche europee, nonché la prima ad esporsi come detto precedentemente), il 20% del Nasdaq, il 20% della Borsa di Londra, è azionista di maggioranza della P&O (monopolista della cantieristica navale), possiede ben 44 porti commerciali ed industriali.

Le banche che hanno investito di più in Dubai sono l’HSBC (17 miliardi di dollari), seguita da Standard Chantered (7,8 miliardi), Barclays (3,6 miliardi), Royal Bank of Scotland (2,2 miliardi), Citi (1,9 miliardi), Bnp Paribas (1,7 miliardi), Lloyds (1,6 miliardi) (15).

I dati riportati confermano un dato di fatto: che le follie finanziarie dubaite non sono frutto del solo zelo di Bin Rashid, delle ambizioni infondate di un solo ciccione. Se tutti gli speculatori del mondo hanno seguito fino all’ultimo le mosse di un emiro proprietario di un lembo di terra grande più o meno quanto la zona di Cerveteri, e sostanzialmente povero di risorse, non si può dire che le follie finanziarie sono dovute alle sole irresponsabilità individuali degli speculatori medesimi. Infatti, com'è stato accennato, il parossismo speculativo, esploso a livello mondiale, affonda le sue radici in una determinata fase del modo di produzione capitalistico. L’economia in generale, in crisi ormai da trent’anni, incapace di applicare il movimento generale del capitale D-M-D’ in tempi ragionevoli, a causa della caduta del saggio medio del profitto, conseguenza inevitabile e intrinseca al modo di produzione capitalistico, è disperatamente in cerca di vie alternative quanto fantasiose al profitto, alternative che prima o poi si rilevano false in un boato generale di indignazione e sorpresa, nascosta ipocritamente dalla verità ineluttabile: l’economia è costretta a cercare queste vie, e prima o poi, incapace di risolvere le proprie contraddizioni, sarà costretta a tirare l’asso nella manica, che consiste nella distruzione per la ricostruzione e l’inizio di un nuovo ciclo, in una parola, la guerra generalizzata.

La città senza abitanti?

Dunque irridiamo i capitani dell’economia che sino a ieri elogiavano Bin Rashid, come il signore del miracolo, e che oggi si prendono beffa di chi ha creduto di investire in una città con una capienza di più di un milione di persone, sostanzialmente vuota, fatta a mo' di albergo di lusso, ma incapace di comprendere che in albergo non ci si può vivere, che occorrono industrie e servizi diversificati. Del resto il turismo non si può creare a tavolino, e i motivi che possono indurre delle persone a visitare il paese dei balocchi, non possono convincerlo a vivervi.

L’altra Dubai: Sonapur

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Eppure qualcuno a Dubai ci ha vissuto e ci vive veramente, e non nelle meraviglie residenziali esposte nella città-vetrina. Chi ha costruito tutto ciò? Chi ha scavato? Chi ha sollevato i massi a centinaia di metri di altezza?

Non è stato il capitale finanziario a spostare il mare e la terra, a provocare il cielo! Sono stati gli abitanti di Dubai, quelli che si cerca di nascondere all’occhio viziato del borghese venuto a fare shopping, ma esistono. Che dire di loro? Che ne sarà di loro?

S’è detto che immediatamente il 17% della popolazione di Dubai è rimpatriata, per lo più da attribuire ai lavoratori di quel 80% di cantieri fermi.

Parliamo della vera Dubai. I riflettori si tengono lontanti dalla Dubai abitata. Che ne sapete, ad esempio della città di Sonapur? A poche decine di chilometri dalla Dubai nota, verso il deserto, vi vivono almeno 300mila operai, per lo più indiani, in un grande campo di lamiera e cemento, stoccati come sardine, immersi nel putridume, e dominati dai ratti e dai pidocchi.

Sanihal Monir, residente a Sonapur racconta la sua storia ad un giornalista dell’Indipendent (16).

“Sono un ragazzo di 24 anni, vengo dal Delta del Bangladesh. Per farti venire ti dicono che è il paradiso. Ma quando arrivi ti accorgi che è l’inferno. quattro anni fa, un’genzia venne al villaggio, e ci disse che si potevano prendere stipendi di 40mila takka [400€] per un lavoro dalle nove alle cinque in cantiere. Ci promisero una collocazione abitativa ottima, del buon cibo, e un trattamento giusto. Tutto quel che occorreva erano 220mila takka [2300€] per ottenere il visto, cifra che sarà restituita in sei mesi di lavoro. Facile. Così decisi di vendere tutte le mie terre, e presi un prestito da uno strozzino locale, per avviarmi in paradiso. Arrivato all’aeroporto la ditta di costruzione mi ha preso il passaporto e da allora non me lo restituisce. Mi ha comunicato che i turni di lavoro durano quattordici ore, sotto al sole del deserto, che d’estate raggiunge anche i 55°C, la paga era di 500 dirham [90€], meno di un quarto di quello che mi hanno promesso, e se non mi stava bene potevo tornarmene a casa. Ma come posso tornare a casa? Mi hanno preso il passaporto, e non ho i soldi per acquistare un biglietto. Mi hanno risposto così: bene, allora ti conviene cominciare subito.”

Monir era in panico, non riusciva a mandare denaro alla sua famiglia, dato che avrebbe dovuto lavorare due anni solo per restituire il denaro per il visto, e la sua famiglia fiera del proprio ragazzo che finalmente ce l’ha fatta, è senza terre e senza lavoro… il tutto per ottenere meno di quanto aveva prima, in condizioni di vita servili e lontano dai propri cari.

Sahinal vive in una cella di cemento con altri 11 uomini. C’è un odore tremendo dal momento che non c’è un servizio, se non un buco nel pavimento, circondato da escrementi e da una nuvola nera di mosche. Senza aria condizionata, ne ventilatori. Sahinal possiede - inseriti nel materasso - due magliette, un pantalone e un telefono cellulare. L’acqua che forniscono ai lavoratori è acqua di mare trattata malamente, ma non hanno altro da bere, nonostante molti di loro si sentano regolarmente male a causa di questo.

“Il lavoro è il più duro che esista. Sotto al sole devi caricare blocchi di 50 chili di cemento o mattoni alla volta, avvolto nel sudore… si suda talmente tanto che, racconta, succede che non si urina per giorni o settimane. L’unica pausa che ci danno dura un’ora nel pomeriggio, ma capita spesso che ci fanno lavorare anche di più. Se ti fermi, non ti pagano la giornata, e resti qui sempre di più. Non possiamo mostrarci arrabbiati altrimenti, ci denunciano alla polizia, che ci mette in prigione, o ci rimanda a casa.”

Ma, spiega:

“Non possiamo tornare a casa, perché se torniamo ci uccideranno gli strozzini, per i debiti che abbiamo accumulato.”

Molti per questo motivo si suicidano nei campi. I dati non vengono riportati in nessun modo, spesso le stesse ditte appaltatrici li fanno sparire prima che qualcuno se ne accorga. L’alienazione è totale. Sahinal dice di non conoscere ancora né il nome né l’utilità della struttura di oltre 50 piani che sta costruendo, e non ha mai visitato la Dubai-vetrina. Due signore sulla sessantina raccontano:

“Qui i dubaiti sono il top, seguiti da britannici e altri occidentali. Dopo ci stanno i filippini, perché hanno più testa, ed infine gli indiani. Si in basso a tutti ci sono gli indiani e tutti quelli là! (17)

“Poi qui se fai un incidente è un incubo. C’era una donna britannica che conosciamo che aveva ficcato sotto un tipo indiano, e solo per questo era stata messa dentro per 4 giorni! Se per qualunque motivo hai solo un pochino di alcool nell’alito ti stanno tutti addosso. Poi quest’indiani pare che ci corrano addosso alle macchine, così per ottenere i risarcimenti. Pensa che i poliziotti poi danno sempre la colpa a noi! Povera donna. (18)

“Le domestiche una volta erano tutte filippine, oggi con la recessione, si è cominciato ad ingaggiare ragazze etiopiche, costano decisamente di meno. (19)

“Non è un segreto che una volta impiegata una domestica ci puoi fare quel che vuoi. Basta che le prendi il passaporto –tutti del resto lo fanno- decidi se e quando pagarla, e –semmai- se può prendere una pausa, e ovviamente, con chi può parlare. Ah poi, se non parla arabo, non può fuggire. (20)

Una ragazza etiopica di 25 anni racconta:

“sono stata portata qui da una agenzia, costretta a lasciare mia figlia di 4 anni al paese. Mi hanno promesso il doppio dello stipendio che mi danno. Lavoro da una famiglia australiana con 4 figli, 5 ore al giorno tutti i giorni. L’altro giorno ero sfinita e ho chiesto una pausa. La padrona mi ha urlato che non sono venuta qui per dormire, e mi ha rimesso subito a lavoro a furia di calci e pugni, ho l’orecchio ed il ventre ancora che mi fanno male. Oltretutto non mi pagano: dicono che mi pagheranno tutto insieme alla fine dei due anni in cui saranno a Dubai. (21)

False convinzioni, borghesi illusioni

Il motto dei borghesi di Dubai è questo:

“Non ti devi sprecare, sono disposti a fare tutto lo stesso. (22)

Ma quanto è vera questa loro convinzione? Quanto ancora saranno disposti a fare tutto?

La crisi economica ha significamene deteriorato le condizioni lavorative del proletario della Dubai vissuta.

Nell’estate del 2006 a Dubai, ci furono diverse proteste nei primi cantieri fermi, e nei relativi campi operai (23). Gli scioperi erano tuttavia, ancora isolati, e di natura del tutto spontanea. La polizia dubaita ha fermato molti dei lavoratori che si sono distinti quanto a protagonismo proletario, e li ha costretti al rimpatrio. Si tenga presente che ogni forma di protesta, o di lotta economica è illegale a Dubai. L’unica cosa permessa è la denuncia individuale per mancato pagamento del salario presso il Dipartimento del Lavoro di Dubai, ma la stessa denuncia costa diversi soldi, che spesso i lavoratori non sono in grado di spendere. Anche le lotte più legalitarie e compatibili non sono concesse.

Tuttavia più massiccia ed interessante è stata la mobilitazione di sabato 27 ottobre 2007. Si raccontano 4000 operai edili che hanno sfilato per strada bloccando l’autostrada per il porto di Jebel Ali. Si riportano scontri diretti con la polizia e lanci di pietre verso la polizia. Gli operai richiedevano semplicemente più autobus per andare a lavoro, alloggi meno affollati, e puntuale versamento del salario, pare che migliaia di lavoratori abbiano solidarizzato unendosi nella protesta coraggiosa e singolare (24).

La risposta è stata repressiva quanto tempestiva. I lavoratori sono stati invitati a desistere e a tornare nei propri posti di lavoro, sotto minaccia di rimpatrio o sospensione del salario. Sono stati più volte caricati dalla celere e dispersi con gli idranti(25).

Ma la lotta non si è fermata. Si dice che fino a 400mila lavoratori hanno solidarizzato spontaneamente il 5 novembre, scioperando (26).

Con l’avanzare della crisi, piccoli scioperi spontanei hanno caratterizzato tutto il 2008. Tanto che Bin Rashid stesso aveva lasciato intendere in un discorso che vi sarebbero state aperture per la creazione di un sindacato istituzionale e legale. In qualche modo il “nostro” Rashid comprende bene che il rischio di una rivolta di classe è alto, e che deve dotarsi di strumenti di corruzione e di sterilizzazione del moto di classe. Si dimostra ancora una volta un capitalista moderno e consapevole e per questo un capitalista più difficile da combattere.

Ma la crisi economica sta preparando il campo ad uno scontro violentissimo, e Dubai per le sue stridenti contraddizioni, si candida ad esserne teatro. I proletari dubaiti devono impegnarsi nel difficile compito di organizzarsi in partito politico, abbracciare il programma comunista e la bandiera dell’internazionalismo proletario.

M.A.

(1) Leggere a proposito l’articolo di Davide Casartelli apparso su Prometeo 01 (serie VII), Il petrolio come merce - l’oro nero, alimento ancora vitale per il capitalismo pp.30. luglio 2009.

(2) Bisogna sfatare la volgare neo-fisiocrazia che vorrebbe attribuire alla ricchezza sfrenata degli emiri del golfo solo la fortuna legata ai giacimenti d’oro nero, bisogna ricordare che non può essere solo la natura a garantire la ricchezza, ma anche la forza lavoro è una componente importante delle potenzialità economiche di un paese. Il sudore ed il sacrificio dei proletari immigrati ha alimentato il capitale dei sultani, almeno tanto quanto il petrolio.

(3) Il dato è tratto dall’articolo apparso su ameinfo.com, A short history of Dubai property (part two), del22/07/2004.

(4) La questione viene approfondita in cifre nell’articolo di Fabio Damen apparso su Prometeo 01 (serie VII), La legge del saggio medio del profitto, la crisi e le sue conseguenze, del luglio 2009.

(5) V. l’articolo di D. Casartelli succitato.

(6) Confrontare Il Capitale, libro terzo, sez. III, cap. XIV - Legge della caduta tendenziale del saggio del profitto, cause antagonistiche, 3. diminuzione di prezzo degli elementi del capitale costante, K. Marx.

(7) Manifesto del Partito Comunista, Borghesi e Proletari, Marx ed Engels 1848.

(8) Si consideri l’ipocrisia politica degli emiri del Golfo: inizialmente riempivano di lodi Saddam quando portava avanti la guerra contro il nemico sciita iraniano, poi, quando lo stesso Saddam a guerra finita chiede aiuti economici per ricostruire e sostenere l’imperialismo sunnita di cui l’Iraq doveva essere perno, gli stessi si tirano indietro offendendo il padronato iracheno che muove guerra contro l’emiro del Kuwait (che oltretutto pare gli stesse persino rubando il greggio!). Le dispute interpadronali, insomma, cercano sempre di giustificarsi in seno al proletariato tirando in ballo motivazioni culturali se non di natura religiosa, ma nella sostanza, si smentiscono da soli, e questo i proletari delle città industrializzate irachene come Bassora l’avevano capito molto bene, dichiarando scioperi ad oltranza durante la guerra, boicottando la guerra stessa, e formando niente di meno che consigli operai: è un peccato che in Iraq non si siano ripetute forme di lotta simili nella seconda guerra del Golfo: questo, del resto, ci dimostra che per avere memoria delle esperienze di lotta rivoluzionaria occorre una organizzazione che vada aldilà del consiliarismo e dello spontaneismo, una organizzazione partitica internazionalista.

(9) A short history of Dubai property (part three), ameinfo.com, 12/08/2004.

(10) Il Capitale, libro primo, sez. I, cap. III - Merce e denaro, il denaro ossia la circolazione delle merci, 3. denaro come mezzo di pagamento, K. Marx

(11) Dal documento ufficiale intitolato Economic History of Dubai, pubblicato dal Dubai department of economic development .

(12) Dati presi da Il Manifesto del 27/11/2009, in particolare l’articolo di Maurizio Galvani, Dubai non è più un sogno brucia 160 miliardi di dollari.

(13) Dato riportato dall’articolo del 02/12/2009 di Halevi apparso su Il Manifesto, Dubai ci avverte: anche gli stati falliscono.

(14) Dati presi da Il Manifesto, del 29/11/2009.

(15) L’articolo di Maurizio Galvani succitato.

(16) Si fa riferimento all’articolo interessante e ricco di Johann Hari, The dark side of Dubai, apparso su Indipendent del 07/04/2009

(17) Op. cit

(18) Op. cit

(19) Op. cit

(20) Op. cit

(21) Op. cit

(22) La frase originale è la seguente: “You do nothing, they’ll do anything!”

(23) Confrontare un articolo della ICC, Workers’ struggle in Dubai, an example of courage and solidarity del 10/12/2007.

(24) Courrier International del 02/11/2007.

(25) lemaroc.org .

(26) Associated Press, 5/11/2007.