Il punto sulla situazione economico-finanziaria dell’Unione Europea

L’attacco al mitico welfare state - un vanto delle borghesie europee - attraverso tagli profondi alla spesa pubblica e quindi riduzione o soppressione di servizi, è l’effetto principale di quella crisi strutturale, sempre e soltanto presentata come “finanziaria”, che sta squassando l’economia capitalistica. Si passano al “privato” molti servizi pubblici nella speranza di renderli profittevoli per il capitale investito, un capitale affamato di plusvalore reale, quello che soltanto lo sfruttamento della forza-lavoro - nei processi materialmente produttivi - gli può dare.

Le cause della crisi abbattutasi sulla globale economia capitalistica - come da noi più volte analizzato e denunciato - fin dagli inizi sono state fatte risalire, dai più bei nomi degli economisti borghesi, unicamente ad un’abnorme crescita, piovuta dal cielo, della sfera finanziaria mondiale con una diffusione planetaria dei subprime e altri titoli di credito rivelatesi una vera e propria spazzatura (vedi anche i credit default swap, finte assicurazioni per scommettere sul fallimento di imprese industriali e banche).

Le successive manovre (realizzate con somme colossali di denaro, soprattutto in Usa e Gran Bretagna) per il salvataggio delle banche esecutrici delle nefaste operazioni di cui sopra, anziché contribuire ad un rilancio della economia reale già in crisi (con una crescita del Pil, come ci si illudeva), hanno solo dilatato i debiti pubblici dei vari paesi, per altro già in sofferenza da tempo. Nessun riscontro positivo, dunque, ma un peggioramento della situazione, data la quantità enorme di denaro liquido diffusa nel sistema bancario e, dallo stesso, “sfruttata” speculativamente per l’acquisto di titoli di stato (emessi per raccogliere denaro al fine di riparare i deficit di banche e istituti di credito!) e dai quali ricavare nuovi interessi.

Deflazione o inflazione

A questo punto, seppure in presenza di situazioni di per sé deflazionistiche, si è paventato un probabile rischio di ripresa dell’inflazione a seguito di una persistente e forte crescita dei debiti pubblici, con tutti i paesi (Usa e Gran Bretagna in prima fila) e le loro Banche Centrali impegnate a comperare titoli di Stato sui mercati per sostenerne il costo, “deprimendo i loro tassi di rendimento e quindi il costo di servizio del debito dei rispettivi Stati” (M. De Cecco, Affari & Finanza, La Repubblica - 7 giugno). Cosa che anche la Bce sta oggi facendo, mentre dalla stessa si fa notare che entro fine anno le banche europee potrebbero essere costrette a cancellare una massa addizionale di ben 90 miliardi di euro per debiti di vario tipo non rimborsati. Altre fonti stimano 200 miliardi di euro in attivi inesigibili. (Il “sostegno comunitario”, a fine maggio e in seguito alla tempesta valutaria scatenatasi sull’euro, ha messo in campo 60 miliardi di euro e un fondo di stabilizzazione di 440 miliardi.)

Resta il fatto che gran parte della catasta di titoli tossici ancora in circolazione nel mondo è stata assorbita nei bilanci pubblici, abbassando quasi allo zero i tassi di interesse. Ma così facendo è diventata problematica la collocazione di nuovi titoli di credito, resisi necessari per alimentare il debito pubblico: si dovrebbero rialzare i tassi ma con gli attuali bilanci statali in rosso non sarebbe sopportabile un aumento della spesa per interessi. Né si può ricorrere ad un aumento dei prelievi fiscali, che bloccherebbe maggiormente l’attività economica già in crisi.

Fra gli “esperti” - ormai al caffè, senza zucchero, in fatto di… idee - c’è chi (l’economista Deaglio) sarebbe persino favorevole ad una ripresa inflazionistica (dal 2 al 4%, come obiettivo minimo) per tentare così di far “girare l’economia” erodendo salari e pensioni e svalutando il debito…. Dovrebbe risultare (ma non si capisce come, seppure restando nel regno delle astrazioni ideologiche!) un rilancio del ciclo di accumulazione entrato in fase asfittica per i suoi bassi profitti, proprio mentre in gioco vi è la supremazia imperialistica fra i tre continenti, America, Europa e Asia, con relative alleanze politiche e militari tuttora in definizione. Per quanto riguarda India e Cina, va rilevato che al momento la loro dipendenza dal mercato internazionale appare ancora troppo alta.

In questa prospettiva, vitale per il capitalismo, si apre la caccia a ogni possibile raccolta e controllo di risorse finanziarie, strappando quanto di più e di meglio si possa al mitico welfare state, sempre per tentare di rilanciare (ma come, concretamente?) un’accumulazione messa in ginocchio proprio dalla tendenziale e mai domata caduta del saggio medio di profitto. Quella caduta che spiega i colossali aumenti del capitale finanziario in giro per il pianeta, in trilioni di dollari, rispetto ad un Pil mondiale di molto inferiore; un capitale finanziario alla ricerca di quote di plusvalore prodotte dalla forza-lavoro di un proletariato che, quando viene impiegato nell’industria (e non solo nell'industria: guardiamo, per esempio, alle finte cooperative di facchinaggio o delle pulizie, dove i ritmi/carichi di lavoro sono pazzeschi e le paghe da miseria) subisce un sempre più accentuato sfruttamento e una pesante oppressione.

Dagli al colpevole!

Ecco che, improvvisamente, il mostro in prima pagina è diventato il debito pubblico della UE, ufficialmente dichiarato a rischio di uscire da ogni possibile controllo. Di fronte ad un simile pericolo, i gestori del capitale preparano e attuano drastici provvedimenti, con operazioni presentate come “doverose” fra cui - come ha annunciato il primo ministro francese - una riduzione del 10% in tre anni delle spese per l’assistenza, andando a ridimensionare gli stessi “diritti acquisiti” e fino a ieri considerati intoccabili. Ma anche i salari nominali sono al centro del mirino, con riduzioni dirette in busta paga, a cominciare dai pubblici dipendenti: la Grecia con una riduzione del 20%, e poi Irlanda, Spagna, Romania, con interventi a danno di pensionati, famiglie in difficoltà, taglio di aiuti ai non autosufficienti, spese sanitarie, aumenti di tasse dirette e indirette, prelievi sulle tredicesime pubbliche e private, diminuzione dei sussidi di disoccupazione, eccetera. Nessun provvedimento, logicamente, a carico dei patrimoni borghesi, delle rendite e dei redditi più elevati (ammesso che siano pubblicamente dichiarati…) nonché dei “guadagni” di faccendieri e intermediari finanziari e di tutti quelli che con operazioni “criminose” hanno accumulato ricchezze da nababbi e tuttora proseguono nei loro leciti e illeciti affari, organizzati in vere e proprie cricche malavitose e bande mafiose. Presenti e ben attivi anche nella sfera politica e istituzionale.

A questo punto, tappare i buchi dei bilanci statali, con un impasto di lacrime e sangue del proletariato, é d’obbligo per il capitale e per una classe borghese che non rinuncerà mai ai suoi profitti e privilegi, anche a costo di scatenare repressioni civili e massacri bellici ovunque se ne presenti l’occasione. Questo quando - come da uno studio di L. Gallino - si apprende che negli ultimi 25 anni, nei Paesi Ocse, fra gli 8 e i 12 punti di Pil si sono spostati dal lavoro alla rendita. La quota dei lavoratori poveri, cioè con salari sempre più bassi, è mediamente vicina a un quarto del totale dei lavoratori presenti nei soli paesi più ricchi del mondo.

Contraddizioni esplosive

Una contrazione della domanda, già abbondantemente in corso, si annuncia inevitabile di fronte alla vera e propria necessità - per il capitale - di procedere ad una forte riduzione della spesa pubblica. Naturalmente si tratta soltanto di quella destinata alle condizioni di vita del proletariato, sia quello occupato che disoccupato, quest’ultimo ovunque in forte aumento. Una stretta da ritenersi inevitabile (secondo gli stregoni dell’economia borghese) dopo i danni che sarebbero stati provocati, oltre che da una speculazione finanziaria dissennata, dalla presenza - così si cerca di convincere la “pubblica opinione” - di un insostenibile debito pubblico, messo fuori binario per soddisfare le pretese e i privilegi di cui godrebbe una parte del proletariato… Il quale fatica a rendersi conto che solo con le sue rinunce e i suoi sacrifici si può tentare di salvare l’ordine imposto nel mondo da capitale!

L’allarme è tale da riguardare al momento l’esistenza stessa dell’euro, la cui tenuta valutaria vacilla anche a seguito degli effetti alla lunga provocati dalla circolazione dei fondi Usa e dalle loro scorribande speculative. Una situazione che di per sé viene resa sempre più pericolosa dalla inevitabile irrazionalità di misure e comportamenti da parte delle autorità politiche ed economiche. Il tutto, naturalmente, oltre ai problemi irrisolvibili e alle contraddizioni insanabili che il dominante modo di produzione ha fin qui portato a maturazione e tende a rendere esplosivi col trascorrere del tempo.

Berlino non ride

La stessa locomotiva europea, la Germania, ha diverse gatte da pelare nonostante che dal 2000 al 2008 abbia aumentato le sue esportazioni del 65%, cioè una valanga di merci che per due terzi è finita sui mercati dell’euro. (L’avanzo sull’estero, riguardante l’import-export, risulta quasi alla pari con quello cinese.) Ancora nel 2009 il totale delle esportazioni tedesche toccava 803 miliardi di euro; il calo però era già del 18,4%. Suonano i primi campanelli d’allarme, con una massa di quasi cinque milioni di proletari fra cassintegrati e disoccupati.

Non c’è da stupirsi se, sia in Germania che in tutti gli altri Stati, il costo del lavoro ritorna in testa alle preoccupazioni del capitale. Nella zona euro un’ora di lavoro costa in media 27 euro (dati 2009) e in Germania 31. Qualcuno, non sapendo più che pesci prendere, arriva a ventilare la proposta di un aumento salariale di almeno il 3%, nel tentativo di rialzare i consumi interni. Cosa che penalizzerebbe però le esportazioni….

Intanto, si rimugina sul dilemma, del tutto… capitalistico e quindi insormontabile: per tentare di creare posti di lavoro bisognerebbe quanto meno raggiungere una crescita del Pil superiore al 3-4%, non solo, ma contemporaneamente limitando al minimo ogni inserimento di nuove tecnologie comportanti una riduzione di lavoro vivo. Esattamente il contrario di ciò che il capitale disperatamente insegue: forti investimenti in tecnologie avanzate, da sfruttare intensamente al fine di contenere i costi del lavoro per unità prodotta. Dunque, incrementi della produttività, maggiori investimenti di capitale costante (macchine e impianti) e contenimenti/riduzioni di quello variabile (salari e numero di operai). Per poi piangere sulla diminuzione del saggio medio di profitto e sul calo dei consumi!

Problemi di liquidità

Le piazze finanziarie di New York e Londra si preoccupano intanto di non perdere il loro primato, assieme a quello del dollaro come moneta di riserva mondiale: guardano quindi con preoccupazione al sostegno dato al mercato dei titoli di Stato da parte della Banca Europea. Inoltre, gli investimenti in dollari hanno avuto un forte incremento negli ultimi mesi: persino l’Iran ha spostato verso il dollaro la bella cifra di 45 miliardi delle sue riserve. Questo nonostante negli Usa si trovi ormai vicina la scadenza di una montagna di carta in titoli di debito di varia natura, per un ammontare pari al 43% di tutti quelli in scadenza sul pianeta. Pur dovendo rifinanziare un voragine di debiti, gli Usa mantengono basso il costo dell’interesse sui titoli pubblici e fanno affluire liquidità sul dollaro grazie al fatto che, nonostante tutto, dietro di esso rimane alto il suo potenziale sia economico che militare. Quest’ultimo esibito ed esercitato ancora su gran parte del pianeta.

Con questo, la solidità del dollaro come moneta di riferimento internazionale, dopo oltre sessant’anni di predominio mondiale, mostra anch’essa segni di incertezza. Si spiega, da tutto ciò, il clima di “incertezza economica e finanziaria” che si traduce in manovre più o meno sotterranee attorno ad una riproposizione di quel disegno - più volte accennato - attorno ad una nuova Bretton Woods in grado (come speranza…) di regolarizzare il commercio estero attraverso una moneta nuova, quale il Bancor proposto allora da Keynes per servire come unità di conto, risultante da un paniere composto di monete diverse. La Cina, che oggi avrebbe deciso di lasciar fluttuare la propria moneta, spinge in questa direzione contando su un appoggio di paesi come la Russia, l’India e il Brasile. Facile a dirsi ma non certo a farsi, poiché fra l’altro aprirebbe uno scenario di contrapposizioni, anche violente, fra i vasti e complessi interessi in gioco.

Ritornando in Europa, il mercato interbancario e obbligazionario non è particolarmente florido. Non circola molto denaro e secondo studi della Deutsche Bank (21 maggio) il sistema bancario europeo avrebbe in circolazione titoli vari di debito per un totale di 4mila 920 miliardi di euro (dato Bce), 773 dei quali sono in scadenza a fine anno e di cui solo meno della metà sono stati rifinanziati fino ad oggi. Il tutto, oltre ai costi preoccupanti, avrebbe impatti negativi sui tassi di interesse a lungo termine per tutti i paesi con grande quantità di debiti sovrani da rifinanziare ricorrendo al credito. Un aumento dei tassi è già fin da ora molto probabile.

La crisi della Grecia

Quanto agli ultimi episodi che hanno riguardato l’imbrogliata matassa del debito pubblico greco, lo stesso è stato per anni oggetto di ampie speculazioni a livello internazionale. Sembra che tutti fossero a conoscenza dei trucchi contabili che banchieri e governanti praticavano all’ombra dell’euro. È risaputo che sono proprio le Banche tedesche e francesi quelle più esposte nei titoli greci: 43 miliardi di dollari i tedeschi; 79 miliardi di dollari i francesi. Nei confronti dei quattro paesi più fragili della zona euro (Spagna, Irlanda, Portogallo e Grecia) l’esposizione franco-tedesca, in debiti sovrani e privati, sfiora i mille miliardi di dollari (dati 2009 della Banca Regolamenti Internazionali di Basilea). Complessivamente, le Banche europee detengono il 62% dell’esposizione internazionale dei quattro Paesi sopra citati, per un totale di 1579 miliardi di dollari. Nessuna meraviglia, dunque, che la crisi greca e le turbolenze finanziarie in atto (con un altro venerdì nero, il 7 maggio scorso, per le Borse europee) abbiano scosso la zona euro ponendola davanti al pericolo di una vera e propria implosione. Ora la Bce si è vista costretta ad acquistare titoli del debito pubblico e privato dei Paesi europei meno sicuri e a rischio di insolvenza, iniettando liquidità nel mercato (misura fino a ieri osteggiata respingendo ogni “monetizzazione del debito”). Concedendo inoltre grossi favori al mercato interbancario.

Va aggiunto - e qui ritorniamo al dollaro - che gli spostamenti internazionali a favore della valuta Usa sono anche favoriti dai più alti (pur se di poche decine di centesimi) tassi di interessi praticati dagli americani. A questo punto la svalutazione dell’euro, con un cambio favorevole nei confronti del dollaro, presenta aspetti sia positivi che negativi. L’euro valeva 82 centesimi di dollaro nell’ottobre 2000; dopo aver toccato il massimo storico (1,60) è sceso a 1,22. Se ne sono avvantaggiate le esportazioni europee e penalizzate quelle Usa, assieme ai profitti delle multinazionali americane operanti in Europa. J. P. Morgan Chase valuta una perdita secca fra i 30 e i 60 miliardi di dollari. Fra gli aspetti negativi vi sono le importazioni energetiche, petrolio e gas, in dollari.

I dilemmi del capitale

Di fronte a una serie di manovre (obbligate, per i governi del capitale, nel tentativo di evitare un crollo generale) che inevitabilmente si ripercuoteranno sulla domanda interna soprattutto dei consumi di massa, non rimane altro che coltivare l’illusione di una ripresa “vigorosa” degli investimenti. È il sogno di tutti i borghesi e del capitale assetato di profitti; un sogno inseguito con l’invocazione (e la realizzazione, purtroppo per il proletariato) di un mercato del lavoro sempre più flessibile, con terapie a base di lavori precari, part-time, cassa integrazione e licenziamenti di “personale in eccedenza”… La competitività internazionale sta trascinando in un ulteriore baratro di imbarbarimento sociale dal quale si potrà uscire unicamente superando questo sempre più assurdo modo di produrre e distribuire.

Quanto alla famosa soluzione keynesiana di un rilancio del “lavori pubblici”, oggi più di ieri va riposta in fondo al cassetto! Un Keynes che aveva previsto, nelle sue teoriche analisi, la definitiva soluzione della disoccupazione nel sistema capitalistico entro la fine del secolo scorso: lo ricordiamo a quanti hanno deriso o deridono - oggi però non più di tanto - quelle che sono definite come “le errate previsioni di Marx”… Paradossalmente, ogni aumento di fatturato e dei profitti (ammesso ma non concesso che ciò accada in questi tempi cupi) allunga la lista, già infinita, dei licenziati e disoccupati. Magari alzando qualche titolo in Borsa!

E fra i tentativi di mantenere a galla una barca che comincia a fare acqua da tutte le parti, mettendo in pericolo la fondamentale “pace sociale”, spunta persino il miraggio dello “stipendio minimo decente per tutti i lavoratori della Unione Europea”. Sul modello che Marchionne vuole imporre ai lavoratori di Pomigliano! In una situazione di grave crisi come quella attuale, gli imperativi dettati dal capitale impongono ai governi di ogni colore e tendenza, una sola politica: quella contro il proletariato affinché dallo sfruttamento della forza-lavoro (e da una riduzione della spesa pubblica) l’ideologia neo-liberista, non disdegnando a questo punto neppure l’apporto di provvedimenti di “vetero” statalismo, possa illudersi di modificare gli orizzonti di un processo economico-finanziario in realtà unico e obbligato, sempre più parassitario, verso scenari finali di guerre e distruzioni. E il punto nodale, la causa di fondo dalla quale derivano tutti gli effetti drammaticamente all’ordine del giorno, è quella che - purtroppo, per il capitale - vede il saggio medio del dio profitto in diminuzione, e questo proprio a seguito degli aumenti di produttività e della disperata ricerca di un ampliamento dei mercati (con consumi invece ristretti dalla continua diminuzione del potere d’acquisto dei salari, per chi ha ancora un posto di lavoro). Produzione e circolazione che il capitale pretenderebbe di allargare in continuazione attraverso la ricerca e creazione di più punti di scambio. Sono queste condizioni fondamentali, di vita o di morte per il modo di produzione capitalistico. Ma anche il mercato mondiale sta diventando un limite, un ostacolo per lo sviluppo del capitale.

D’altra parte, la produzione di plusvalore relativo, ossia la produzione di plusvalore basata sull’aumento e sviluppo delle forze produttive, esige la produzione di nuovi consumi; esige cioè che il circolo del consumo nell’ambito della circolazione si allarghi allo stesso modo in cui precedentemente si allargava il circolo della produzione (…) In virtù di questa sua tendenza, il capitale spinge a superare sia le barriere e i pregiudizi nazionali, sia l’idolatria della natura, la soddisfazione tradizionale, orgogliosamente ristretta, entro angusti limiti, dei bisogni esistenti, e la riproduzione del vecchio modo di vivere. Nei riguardi di tutto questo il capitale opera distruttivamente, attua una rivoluzione permanente, abbatte tutti gli ostacoli che frenano lo sviluppo delle forze produttive, la dilatazione dei bisogni, la varietà della produzione e lo sfruttamento e lo scambio delle forze della natura e dello spirito. Ma dal fatto che il capitale pone ciascuno di questi imiti come un ostacolo e perciò idealmente lo ha superato, non ne deriva affatto che esso lo abbia superato realmente, e poiché ciascuno di tali ostacoli contraddice alla sua destinazione, la sua produzione si muove tra contraddizioni continuamente superate ma altrettanto continuamente poste. E c’è di più. L’universalità verso la quale esso tende irresistibilmente trova nella sua stessa natura ostacoli che a un certo livello del suo sviluppo faranno riconoscere nel capitale stesso l’ostacolo massimo che si oppone a questa tendenza e perciò spingono alla sua soppressione attraverso esso stesso.

K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica - La Nuova Italia, pagg. 8-12

Pagine che Marx scrisse 150 anni fa!

DC