Nella Gran Bretagna dell'austerità

Il primo passo è quello di unirsi e lottare

La crisi è globale

In Gran Bretagna, ora che le elezioni sono passate, nessuno nega che il capitalismo stia affrontando una crisi globale. Anzi, ora i nostri governanti ci stanno preparando ad un “periodo di austerità”. C'è stato un brivido iniziale di panico tra le file della classe capitalista, quando il crollo finanziario di due anni fa espose drammaticamente la prospettiva di un completo collasso economico. Abbiamo tutti sentito fare confronti con il 1929 e la Grande Depressione. Improvvisamente gli esperti dei media hanno cominciato a chiedersi se, dopo tutto, non ci fosse qualcosa di vero in quel che Karl Marx aveva detto a proposito della tendenza intrinseca del capitalismo verso la crisi e l'auto-distruzione. Tuttavia, nonostante qualche occasionale espressione di paura di fronte alla prospettiva di più ampi “disordini sociali” e persino alla possibilità della caduta di governi e all'uscita forzata dal governo di alcuni partiti politici, i capitalisti sono in genere molto più nervosi per le sorprese che potrebbero riservare i mercati finanziari anziché per la possibilità di dover fronteggiare la resistenza unita e determinata della classe lavoratrice, che potrebbe minacciare tutto il loro sistema. Si prendano ad esempio le proteste di massa da parte dei lavoratori in Grecia contro il programma di austerità annunciato dal governo in seguito alle richieste del FMI e della UE. Come la nostra tendenza ha commentato nel momento più caldo delle proteste:

L’episodio greco rientra a pieno titolo in questa fase di crisi del capitalismo internazionale con tutte le conseguenze del caso sul terreno degli “aiuti” finanziari dei paesi euro e del Fondo monetario internazionale che sono disposti a erogare 110 miliardi di euro in tre anni a condizioni di un pesantissimo piano di austerità del governo di Atene. Il piano prevede l’annullamento della tredicesima e quattordicesima, quando esiste, per i lavoratori del pubblico impiego. Un taglio netto del 30% dei salari e una pioggia di tasse sui consumi. Per la Bce la preoccupazione principale è quella di respingere la speculazioni sull’euro, di soccorrere i paesi a rischio di fallimento, sempre per sorreggere le sorti dell’euro, di comprare eventualmente i titoli di stato a rischio default, ma nessuna preoccupazione per il mondo del lavoro, se non quella di caricarlo di tutti i sacrifici necessari al ripristino della macchina capitalistica in modo da risanare i debiti prodotti da una borghesia speculativa, inetta e corrotta (1).

Debito sovrano

Se lo stato greco è stato tra i più incompetenti nella tutela delle proprie finanze dai danni della speculazione finanziaria (il Tesoro del Regno Unito, per esempio, si è premurato di emettere obbligazioni a lunga scadenza nel tentativo di evitare una crisi di rimborso del debito), ciò non toglie che anche gli altri stati europei, gli Stati Uniti e praticamente tutti i paesi del “capitalismo avanzato” si stiano impantanando sempre più nel debito, a seguito dei salvataggi finanziari e ora della riduzione del gettito fiscale, stretto nella morsa della recessione. Lo stato, questa entità che si presumeva accantonata per sempre, è stato obbligato a rientrare in gioco e, in un modo o nell'altro, a fornire una qualche forma di “alleggerimento quantitativo” al sistema finanziario che altrimenti sarebbe crollato. Nella maniera ben collaudata delle crisi capitalistiche, gli stati hanno fatto ricorso all'emissione di buoni del tesoro e, così facendo, hanno accentuato la crisi del debito stesso, che è ben lungi dall'essere finita.

Ora, non solo gli esperti avvertono il rischio di una “recessione a doppio minimo” [double-dip], ma aumenta il nervosismo dei mercati finanziari per l'accumularsi dei debiti degli stati e dei fondi “sovrani”. Molto semplicemente, la paura che gli stati possano non essere in grado di restituire nemmeno gli interessi sul debito, sta facendo lievitare il costo del denaro per i governi che, a loro volta, sono obbligati ad offrire tassi di interesse più elevati quando cercano di raccogliere denaro mediante l'emissione di obbligazioni. Questo è ciò che è successo in Grecia, dove è emerso che il costo del denaro sui mercati finanziari era andato oltre le sue possibilità (2). A volte, come è accaduto di recente con la Germania, i governi non sono stati in grado di ottenere un prestito perché non c'erano abbastanza acquirenti per le loro obbligazioni. Inoltre, ogni stato è soggetto alle valutazioni delle agenzie di rating del credito, che valutano le imprese e i governi in base alle condizioni dei loro bilanci, per indicare quanto probabile o improbabile sia un default sul debito. Proprio come con le comuni carte di credito, quanto più basso è il rating del credito di un paese, tanto più difficile e costoso è prendere denaro in prestito.

Nell'Unione Europea, oltre alla Grecia, anche Spagna e Irlanda sono già state declassate da agenzie come Fitch e Standard and Poor's. Di qui la preoccupazione principale dei governi di tutto il mondo di ridurre il deficit nel più breve tempo possibile, a prescindere da, o nonostante, le conseguenze sociali per i suoi cittadini (o sudditi nel caso del Regno Unito).

Prima delle elezioni politiche la più grande preoccupazione del capitale inglese era che un parlamento bloccato potesse causare “incertezza” - cioè ritardo - nell'imposizione di misure volte a ridurre un deficit che ammonta attualmente a circa l'8 % del PIL. Perché tanta fretta? Perché non aspettare, in modo keynesiano, la ripresa economica? La risposta è che il Tesoro e la Banca d'Inghilterra si affrettano a reagire alle richieste delle agenzie di rating finanziario, per timore che il capitale inglese possa perdere la sua “tripla A” di rating del credito, con l'effetto a catena di minare la fiducia nella sterlina (lasciando da parte le considerazioni sull'inconsistenza di ogni ripresa). Com'era prevedibile, quindi, i mercati sono stati rassicurati dalla facilità con cui i politici inglesi hanno organizzato un governo di coalizione ben disposto a farsi carico dell'oneroso compito di “ridurre il deficit”.

Il 12 maggio il Financial Times registrò festosamente la reazione dei mercati titolando “Sollievo per la sterlina e i titoli di stato”.

I tagli

Così, dopo aver rassicurato per il momento i mercati, ai politici rimane solo il compito di determinare dove la scure dovrà colpire. Già l'annuncio di Osborne di un “immediato” taglio di £ 6,2 miliardi alla spesa pubblica implica tra 30.000-50.000 posti di lavoro persi, molti semplicemente per il mancato rinnovo dei contratti a termine. (Nel Regno Unito i lavoratori non sono altro che flessibili.) Tutti sanno, tuttavia, che questa è solo la punta dell'iceberg. Annunci di altri tagli draconiani dei posti di lavoro e dei servizi, nonché aumenti di tasse, sono sicuramente tenuti in serbo per il bilancio di emergenza di questo mese, e probabilmente ancora di più per il quadro della revisione della spesa autunnale. Sulla prospettiva di tagli di posti di lavoro nel settore pubblico, il Financial Times ha ancora una volta messo assieme i dati, concludendo che

Dopo la recessione dei primi anni 1990, quando il deficit era di £ 50 miliardi di sterline anziché gli attuali 156 miliardi, quasi 600.000 posti di lavoro andarono persi, mentre la spesa per l'impiego pubblico passava da poco meno di 5,4 miliardi nel 1991 a 4,8 miliardi nel 1998, prima di crescere nuovamente (3).

Ma questa non è una recessione “ordinaria”.

Il capitale sta affrontando la crisi più profonda della sua storia e la prospettiva per la classe operaia è preoccupante sia nel breve che nel lungo termine. Come abbiamo fatto notare in un precedente articolo,

Entrambi i principali partiti politici stanno cercando di tagliare 35 miliardi di sterline dalla spesa pubblica del 2011. Possono farlo solo riducendo i servizi per i più vulnerabili. Tra i tanti esempi ci sono i 2,6 milioni di persone che vivono con i sussidi di invalidità, che saranno costrette a rendersi disponibili per qualsiasi lavoro, oppure a perdere il sussidio (4).

Di sicuro Iain Duncan Smith, segretario al lavoro e alle pensioni, ha già promesso di procedere in autunno ad una revisione della capacità di lavoro di tutte le persone che chiedono qualsiasi tipo di sussidio di invalidità. Questo, combinato con la promessa di applicare sanzioni ai richiedenti che rifiutano delle “opportunità di lavoro”, è un messaggio chiaro di ciò che si prospetta per l'immediato futuro. Tuttavia, anche se lo stesso Duncan Smith non è sicuro di quali risultati produrrà la sua revisione, è chiaro che il principio e il quadro complessivo di un sistema universale di sussidi, già progressivamente eroso nel corso degli anni, dovrebbe essere sostituito da ciò che egli descrive come un livello di emissione unico per tutti i sussidi. Soprattutto, il governo vuole far sì che non valga più la pena per nessuno di chiedere un sussidio, piuttosto che accettare un lavoro a bassa paga. Passo dopo passo il principio della “minore ammissibilità” [less eligibility] alla base della “Nuova Legge sulla Povertà” del XIX secolo (cioè il principio che le condizioni di sostegno ai mendicanti dovessero essere meno preferibili rispetto alle condizioni degli operai a basso reddito) si sostituisce al principio del benessere universale. Per come stanno le cose, il livello annuale di base di una pensione statale si attesta oggi attorno a £ 5.078, una cifra che da sola non basta per sopravvivere. L'annuncio che, dopo il 2016 per gli uomini e dopo il 2010 per le donne, l'età per accedere alla pensione statale sarà di 66 anni, è quasi irrilevante per la maggior parte delle persone, che dovranno lavorare più a lungo in ogni caso, nella speranza sempre più vana di raggiungere una quota di contributi sufficiente a garantire una pensione con cui poter sopravvivere.

Il fatto è che i lavoratori salariati non si trovano di fronte solo ad un periodo di tagli temporanei, in cui bisogna tirare un po' la cinghia, ma ad un sistema che è ormai da decenni in una grave crisi, la cui forza motrice, consistente nell'accumulazione di nuovo valore sulla base di lavoro non pagato, viene paralizzata dall'inesorabile processo intrinseco al capitalismo, descritto dalla legge della caduta del saggio di profitto. Come il Financial Times ha recentemente lamentato in un editoriale,

In effetti spesso si ha la sensazione che non ci sia più nessun posto al mondo in cui gli investitori possano riporre i loro soldi in modo sicuro e redditizio (5).

Naturalmente questo non ferma i capitalisti dalla ricerca di nuovi modi di realizzare profitti - quando arriva il momento critico a loro non importa se ciò richiede di trasferire la produzione verso aree dove i salari toccano il fondo. E quando è redditizio (in termini di denaro, perché i capitalisti stessi non fanno distinzione tra il valore espropriato ai lavoratori salariati e i valori finanziari nominali basati su pezzi di carta) semplicemente “investire” nei mercati finanziari, più che assumere lavoratori nel processo produttivo, la speculazione finanziaria prende impetuosamente la ribalta, come sta succedendo oggi. Eppure quanto più il capitale è diretto alla speculazione finanziaria - che non genera nuovo valore ma che, al contrario, crea un mondo virtuale di enorme capitale fittizio e parassitario che non rappresenta nient'altro che l'esagerazione del valore di un bene iniziale reale (per esempio, una casa) - tanto più il sistema nel suo complesso è appesantito dal fardello del debito. Questa è una situazione che è interamente dovuta al capitalismo. Non è responsabilità della classe operaia. Eppure, sono proprio i lavoratori che ne stanno pagando il prezzo e - fino a quando tale sistema esiste - ci si aspetta che continuino a pagarlo.

I capitalisti annusano il pericolo

Forse, però, i capitalisti stessi cominciano ad avvertire il pericolo incombente.

Questa fase particolare della crisi non è affatto finita. (Il mondo capitalista nel suo insieme ha ancora la bellezza di 30.000 miliardi $ di credit default swap in attesa di implodere; nel Regno Unito, gli esperti sono preoccupati per i 50 miliardi di sterline di mutui immobiliari per attività commerciali che sono in difficoltà, il 70 % dei quali in maturazione nei prossimi cinque anni.) Tuttavia, c'è solo un certo numero di attacchi che possono essere fatti senza provocare rabbia diffusa e resistenza, senza che il mito che “siamo tutti nella stessa barca” si infranga.

Già il capitale sente il bisogno di invitare i sindacati a controllare la classe operaia, a dividerla e limitarne qualsiasi resistenza. Per esempio, il ribaltamento della Corte d'Appello della precedente ingiunzione contro lo sciopero BA è stata una eccezione rispetto alla tendenza, che durava da cinque anni, dei padroni ad invocare l'intervento dei giudici per fermare ogni sciopero (su 43 casi, il 90 % è stato vinti dai padroni).

Allo stesso tempo ci sono sempre più invocazioni a limitare i redditi personali astronomici, nonché le attività speculative del settore finanziario (come se ciò rendesse i tagli più sopportabili).

In Germania Angela Merkel ha già introdotto delle norme contro le “vendite allo scoperto” [short selling] e anche qui, nonostante l'istinto di Cameron di non aumentare il livello di tassazione sulle plusvalenze [capital gain], anche il Financial Times sostiene che i bonus dei banchieri dovrebbero essere tassati “come i normali redditi”. Anche il FT non può fare a meno di denunziare una situazione in cui (nel 2008) il 10% dei banchieri più ricchi di Londra guadagnava l'equivalente del 30% del totale dei salari nazionali. Il 2 giugno un giornalista, John Kay, nella sua rubrica ha ammesso senza mezzi termini,

È vergognoso che i gestori di hedge fund paghino una aliquota fiscale ridotta rispetto alle persone che puliscono i loro uffici.

Questo faceva seguito ad un commento pubblicato nella Lex Column il giorno precedente, che vale la pena di citare per esteso:

Un anno fa, quando i leader politici cercavano un fondamento teorico su cui basare gli stimoli alla spesa, John Maynard Keynes, il grande economista, è ritornato di moda. Può essere ora il momento di rispolverare anche quelle copie polverose dei libri di Karl Marx. Il salvataggio del sistema finanziario e la necessità di placare i mercati obbligazionari sono in gran parte problemi del capitale. Il lavoro, nel frattempo, porta il peso della disoccupazione, salari ridotti e, infine, tasse più alte. Come dimostrato dalla reazione dei lavoratori in Grecia alle feroci misure di austerità, i tentativi di ridurre il peso del debito pubblico possono spingere gli animi alla lotta.

Difficilmente si potrebbe trovare un esempio più lampante di quanto chiara sia la coscienza di classe di questi portavoce del capitale.

Oltre al tentativo di sminuire la rabbia legittima dei lavoratori rispetto alla minaccia rivolta ai loro mezzi di sussistenza, trattata quasi come un attacco di cattivo umore, questo dimostra che i consiglieri e gli opinionisti più influenti della classe dominante sono ben consapevoli che la lotta di classe non è affatto una cosa del passato. Sanno che una certa quantità di resistenza è inevitabile. Tuttavia, nello spirito di unità nazionale del partito conservatore, vogliono credere che ci sia un interesse nazionale che unisca tutti di sopra degli interessi di classe; che il capitalismo, se gestito correttamente, possa fornire prosperità per tutti.

Poi, immediatamente sotto, il pezzo continua,

La scissione tra capitale e lavoro può essere una falsa distinzione. L'implosione delle banche è un male per tutti e le imprese hanno bisogno di ampliare il finanziamento e di assumere. (...) Il divieto di vendita allo scoperto e le misure di riduzione degli scambi speculativi già suggerisce uno stato d'animo di rabbia rispetto allo sciacallaggio iniquo. Ci sono argomenti legittimi a favore e contro l'innalzamento del livello di tassazione dei capitali; in gran parte ruotano attorno a cosa possa incoraggiare lo spirito imprenditoriale. Le tasse devono salire, però, e il capitale dovrà mettersi su questa difficile strada.

In altre parole, i principali portavoce del capitale stanno - sia pure a malincuore - unendosi al coro della sinistra del capitale che chiede di tassare i ricchi e di dare giro di vite al capitale finanziario. Questo fa parte della teoria sempre più popolare secondo cui ci sarebbero capitalisti buoni e cattivi capitalisti, e gli “imprenditori” buoni sarebbero quelli che creano valore reale.

Questo ragionamento non solo evita bellamente la questione del perché la speculazione finanziaria abbia preso piede, in primo luogo; auspicare leggi contro gli speculatori potrebbe essere un pericoloso diversivo per qualsiasi incipiente movimento di resistenza da parte della classe operaia. Questa non sarà l'unica trappola che i lavoratori si troveranno di fronte nei mesi e negli anni a venire. Una cosa è certa, però: parafrasando le parole di David Cameron, il tenore e l'intero stile di vita dei lavoratori sono sotto attacco come mai prima. Non varrà la pena di lottare nelle battaglie che ci attendono, se queste non porteranno alla creazione, al rafforzamento e al radicamento di una avanguardia politica che sappia indicare ai lavoratori la via da seguire, non solo qui in Gran Bretagna ma in tutto il mondo.

Il primo passo che i lavoratori dovranno fare lungo questo percorso sarà di riconoscere ancora una volta che i loro interessi non sono conciliabili con quelli del capitale.

ER

Traduzione da Revolutionary Perspectives 54

(1) Dichiarazione dalla tendenza Comunista Internazionalista pubblicata in maggio 2010, disponibile sul nostro sito.

(2) Leggi anche “Financial Crisis Engulfs the Eurozone”, in Revolutionary Perspectives 54.

(3) 2010-05-25 “30.000 posti di lavoro persi visti come punta dell'iceberg”.

(4) “Tempo di trasformare lo spettro in realtà”, Revolutionary Perspectives 49.

(5) Editoriale, 5-6 giugno di quest'anno. In realtà l'articolo continuava consigliando agli investitori di collocare i loro soldi in Brasile.