Per l'autonomia di classe delle masse proletarie egiziane e maghrebine, fuori da ogni steccato borghese

La crisi mondiale del capitalismo non ha ancora terminato di produrre i suoi effetti. In questo periodo sono i paesi del Maghreb e del Medio Oriente a essere nell'occhio del ciclone, i paesi capitalistici della cosiddetta periferia, quelli più deboli, a subirne le conseguenze. Tra questi l'Egitto del Satrapo Mubarak, che è ininterrottamente al potere dal 1981 e che, prima della bufera di piazza che lo sta stravolgendo, stava preparando il terreno giuridico-costituzionale alla sua successione nella persona di suo figlio, come se la Repubblica presidenziale egiziana fosse una sorta di monarchia assoluta di tipo familiare. Nonostante un incremento del Pil del 6% annuo, dovuto essenzialmente alla rendita petrolifera (poca in assoluto, ma sufficiente per il fabbisogno energetico nazionale) e al business del turismo, (prerogativa dei soliti noti alla corte del Presidente), la società egiziana sopravvive con una disoccupazione ufficiale del 17%. In realtà, il dato è errato per difetto: sarebbe almeno il 30% della popolazione teoricamente attiva a essere disoccupata o sotto-occupata. Il 70% dei senza lavoro è rappresentato dai giovani, operai, contadini, figli della piccola borghesia diplomati o laureati che, sino a qualche anno fa, avevano un futuro assicurato negli impieghi pubblici, molto spesso statali, e che oggi sono a spasso. Il 40% della popolazione vive sotto la soglia di povertà, calcolata sulla disponibilità massima di due dollari al giorno. Un altro 20% è appena al di sopra di questa soglia, ma con il rischio di precipitare al di sotto da un momento all'altro. La crisi ha inoltre messo in rilievo la debolezza intrinseca del “sistema” Egitto. Le poche esportazioni sono diminuite, le importazioni sono aumentate in termini di volumi e di costi, determinando un significativo deficit nella bilancia dei pagamenti con l'estero. Lo Stato ha cessato di costituire un'opportunità d'impiego per i giovani, molte fabbriche hanno chiuso o ridotto sensibilmente le loro attività, mentre l'agricoltura, da sempre a livelli di sussistenza, ha contratto sensibilmente la sua capacità produttiva aprendo le porte all'importazione di derrate alimentari. In aggiunta, la speculazione internazionale ha ripreso la sua attività sulle materie prime strategiche: oltre al solito petrolio, grano e cereali, incidendo sulle condizioni di vita della stragrande maggioranza della popolazione egiziana. La quasi totale mancanza di ammortizzatori sociali e il basso livello delle pensioni hanno fatto il resto.

Le piazze si sono riempite spontaneamente. Moltissimi giovani precari, disoccupati, proletari e figli di proletari, piccolo borghesi disillusi e in via di proletarizzazione, disperati a vario titolo e settori sociali senza arte né parte, la solita corte dei miracoli sempre presente in realtà capitalistiche come questa. Gli slogan gridati contro il regime dittatoriale, contro la sua corruzione sono stati: pane, lavoro e democrazia. Poi le forze politiche si sono presentate in ordine sparso, dai Fratelli musulmani ai vecchi arnesi dello stalinismo, dai democratici di varia estrazione politica al nuovo Movimento per le riforme di Mohammed El Baradei, calato precipitosamente dalla sua residenza viennese al Cairo per essere solidale con il “suo” popolo. La repressione non si è fatta attendere. Il regime con la polizia, non con l'esercito che ha voltato le spalle al “faraone” dichiarando legittime le proteste di piazza, ha lasciato sul terreno almeno 150 morti, ha decretato il coprifuoco, ha oscurato tutti i siti telematici, ha fatto cioè il suo mestiere di carnefice come ben si addice a qualsiasi regime messo in discussione, in particolar modo se già abituato ad atteggiamenti repressivi e dittatoriali.

La crisi egiziana, al pari di quelle giordana e yemenita, sta mettendo a rischio i già precari equilibri imperialistici dell'area. Stati Uniti e Israele si sono affrettati a prendere posizione nei confronti del

barcollante governo Mubarak. Sia la Clinton che il presidente Obama hanno preso le distanze dal vecchio “satrapo” sul quale avevano puntato, con tanto di finanziamenti adeguati e di un piano di rafforzamento dell'apparato bellico, che per il momento continuano, per garantire la presenza americana politica e militare nel basso bacino del Mediterraneo, per un ricambio politico ai vertici del paese, ormai resosi necessario dopo le virulente rivolte di piazza. Nei programmi di Washington c'è già un rassicurante sostituto nella più pulita a presentabile persona di El Baradei, che potrebbe rappresentare quel “nuovo” processo di cambiamento che lascerebbe le cose come prima, sia sul versante sociale interno, sia su quello dell'allineamento politico dell'Egitto con, magari, qualche finanziamento in più, vista la delicatezza della sua posizione strategica. Il governo di Netanyahu, sulla scorta delle medesime preoccupazioni imperialistiche, ma di verso opposto, sarebbe disponibile a sostenere il vecchio regime, nella paura che quello nuovo, con la presenza eventuale degli integralisti egiziani della Fratellanza musulmana, rendesse carta straccia gli accordi di Camp David (1978), contenenti lo storico articolo relativo al riconoscimento dell'esistenza di diritto dello Stato d'Israele. Il che riaprirebbe un sanguinoso fronte che per il mini-imperialismo israeliano sarebbe un danno non indifferente e che si sommerebbe alla questione palestinese sempre aperta.

Per le masse proletarie egiziane, al pari di tutte le altre che si stanno muovendo da est ad ovest del bacino del Mediterraneo, l'obiettivo non può essere soltanto quello di abbattere un regime corrotto, dittatoriale che sta affamando la stragrande maggioranza della popolazione. Questa è solo la prima parte, poi dovrebbero orientare la loro lotta sui meccanismi capitalistici che hanno prodotto tanta devastazione sociale e tanta miseria. Via un “satrapo” se ne crea un altro, oppure si apre la strada ad una soluzione democratica che meglio si addice al ristabilimento della pace sociale e che riscuoterebbe i favori di molti stati capitalistici dell'occidente Ma caduta la dittatura, si potrebbero aprire molte soluzioni, tra le quali anche quella islamica, con il suo pesante fardello di oscurantismo sociale e di viscerale anticomunismo.

Qualsiasi soluzione che rimanesse all'interno del quadro capitalistico attuale finirebbe per rispondere alle solite necessità di conservazione del sistema al traino dell'imperialismo di turno, in questo caso americano, senza rimuovere le vere cause della crisi - il capitalismo - e senza dare soluzione ai problemi che le masse proletarie sono costrette a sopportare. La grande rivolta egiziana e magrhebina è destinata ad esaurirsi e ad essere riassorbita dal sistema, magari in un lago di sangue, se non inizia a percorrere la via della ripresa della lotta di classe, fuori dagli steccati borghesi, comunque si presentino, autonoma in termini politici sotto la guida di avanguardie rivoluzionarie. Allora e solo allora i fermenti ribellistici di tutta l'area, da Casablanca al Cairo, da Amman a Beirut, rappresenterebbero un significativo passo in avanti per l'internazionalismo proletario.

FD