Una prima verifica degli avvenimenti libici

È presto per prendere una posizione definitiva sugli avvenimenti libici perché la situazione è in movimento e di definitivo non c’è ancora assolutamente nulla. Il colonnello sembra avere le ore contate, ma continua la sua strenua difesa, nonostante che la comunità capitalistica internazionale stia mettendo in campo tutto l’armamento giuridico (tribunale penale internazionale) ed economico: embargo, sanzioni economiche e congelamento dei fondi all’estero ecc..

Ciò non di meno un paio di osservazioni possono essere fatte da subito.

La prima è che la rivolta di Bengasi e di altre città della Cirenaica, come di alcune località a sud di Tripoli, ha rotto l’equilibrio forzato tra Gheddafi, la sua tribù d’origine, e le altre tribù libiche che per quarant’anni sono state costrette a subire la dittatura politica ed economica del colonnello.

Alla base di questo le mai sopite istanze di autonomia delle borghesie tribali della Cirenaica e del Fezzan e, non da ultima, la ghiotta occasione di gestire autonomamente la rendita petrolifera che sino a poche settimane fa era appannaggio del dittatore “verde”. Non a caso i primi moti di protesta si sono avuti nell’est del paese, dove è già sorto un governo provvisorio, che ha il compito di controllare i giacimenti petroliferi e di garantirne l’uso e la fruibilità per i clienti internazionali.

Il precedente equilibrio era basato sulla forza. Gheddafi e i suoi figli disponevano l’assoluto controllo dell’esercito della polizia e dell’aviazione, nonché il controllo/possesso dei pozzi petroliferi attraverso la gestione privatistica della imprese nazionali del gas e del petrolio, dando ai capi tribù alleati o sottomessi, le briciole della suddetta rendita a seconda della loro valenza politica e della loro eventuale pericolosità in termini di (non) allineamento nei confronti della gestione del potere del “rais” medesimo. Rottosi lo schema, le maggiori tribù come i Warfalla, che controllano un vasto territorio a sud di Tripoli, si sono mobilitate contro. Già nel 1993, in pieno embargo internazionale contro il governo di Tripoli dopo l’attentato di Lockerbie, i Farfalla hanno tentato un colpo di stato che Gheddafi ha duramente represso con una decina di impiccagioni sulla pubblica piazza e più di duemila arresti. I Zuwayya, che vivono nella zona centrale tra Tripoli e Bengasi, i Misurata e gli Abu Llail, che controllano l’area degli oleodotti nella parte est della Cirenaica, hanno preso l’iniziativa di cavalcare la tigre della protesta popolare per tentare di chiudere una partita lunga quarant’anni. Tutte le maggiori tribù posseggono piccoli eserciti, hanno un discreto arsenale di armi leggere e, nella fase iniziale della rivolta, hanno assaltato caserme e depositi di armi. Allo stato attuale delle cose la crisi libica appare per essere una guerra civile tra tribù, ovvero tra fazioni borghesi, per il dominio politico ed economico del paese, secondo esportatore di petrolio di tutto il continente africano, dietro la sola alla Nigeria, e dodicesimo al mondo.

La seconda osservazione riguarda la possibile frattura degli attuali equilibri sul fronte energetico medio orientale, con tutte le conseguenze del caso. Non per niente tre portaerei americane delle VI flotta si stanno dirigendo verso il Golfo della Sirte e la stessa cosa ha in mente di fare il primo ministro inglese Cameron. La preoccupazioni imperialistiche anglosassoni non riguardano solo i futuri destini del petrolio e del gas libici, importanti ma non determinanti negli equilibri energetici internazionali, quanto la possibile estensione della crisi nella penisola arabica. Il vento delle rivolte soffia anche nello Yemen, in Oman, nel Baharein che contornano da sud-ovest a sud-est l’Arabia Saudita, ovvero il primo produttore al mondo di petrolio e primo fornitore degli Usa. Se anche Riad entrasse nell’occhio del ciclone assisteremmo a ben altre prese di posizione, a ben altre manovre militari, non più impostate sulla deterrenza psicologica o sulla pressione politica. Con le necessità di approvvigionamento delle fonti energetiche medio orientali non si scherza. L’imperialismo USA ha già prodotto due guerre non ancora concluse, sta combattendo strenuamente sulle vie di trasporto e di commercializzazione dell’oro nero, dal Centro-Asia alle coste del Mediterraneo, e una simile situazione di criticità alle porte dell’Arabia sta già mettendo in fibrillazione gli arsenali bellici. Per ora, gli Stati Uniti stanno a vigilare poi si vedrà… Anche la Cina, già presente in Niger, Nigeria, Sudan e Ciad, non starebbe certo a guardare. Il tutto alla faccia di centinaia di migliaia di profughi - vittime delle beghe borghesi interne e dei giochi imperialistici internazionali - sui quali si cantano lo solite piagnucolose litania, ma, finora, senza nulla di concreto sul piano del mero aiuto umanitario.

Per le masse lavoratrici libiche sono nulle le possibilità di emancipazione se continueranno ad essere fagocitate all’interno degli schemi tribali, se faranno proprie le strumentali richieste di libertà e democrazia avanzate dalle opposizioni borghesi contro il tiranno. Libertà e democrazia che al massimo saranno i nuovi migliori involucri politici e ideologici per continuare quel processo di sudditanza e sfruttamento che c’era prima, senza mai mettere in discussione il motore primo di questa crisi, i regolamenti di conti all’interno delle faide tribalo - borghesi che ne sono scaturiti, l’allarmato agitarsi del sempre più vorace imperialismo, cioè quel sistema economico che va sotto il nome di capitalismo.

FD