O noi o loro!

Contro il capitale e le sue aggressioni, con lotte vere

Volantino per lo sciopero dell'11 marzo, indetto da una parte del sindacalismo di base

Salari e stipendi in calo da anni, tanto che aumenta l’esercito di coloro che faticano ad arrivare non solo alla quarta, ma alla terza e persino alla seconda settimana. La precarietà dilaga, soprattutto tra i giovani. La disoccupazione avanza a grandi passi, appena mascherata dalla cassa integrazione (per chi ce l’ha), che, per altro, significa un drastico abbassamento del tenore di vita. Invece, chi ha la “fortuna” di conservare il posto di lavoro (“fisso” o precario) è costretto a subire un netto peggioramento delle condizioni di lavoro e, quindi, di esistenza. Non bastano gli stipendi insufficienti, bisogna lavorare di più e peggio: più orario, più fatica, meno salario e meno pensione. Le condizioni di riferimento del padronato sono quelle dell’«operaio globale», delle fabbriche (e dei servizi) delocalizzate là dove la manodopera costa molto meno, dove la tirannia del padrone è assoluta, dove non solo la protesta organizzata, ma la semplice rimostranza è punita col licenziamento, col carcere e peggio. Le condizioni dell’operaio globale, degli immigrati - sfruttati come schiavi, truffati, bastonati dal padrone e dal suo stato - di Pomigliano/Mirafiori: questo è il modello del “nuovo” rapporto di lavoro.

Siamo così al paradosso di una società in cui i trentenni e oltre sono costretti a essere mantenuti da genitori a cui si impone - anche letteralmente - di morire sul posto di lavoro. Questo paradosso si chiama capitalismo. Un capitalismo che, per cercare di superare la crisi, da decenni attacca il lavoro salariato, gonfia bolle speculative che inevitabilmente esplodono, aggravando l’aggressione al proletariato e a settori crescenti di piccola borghesia, a cui vengono chiusi i tradizionali sbocchi occupazionali, a causa del taglio ai servizi sociali, alla cultura, alla ricerca.

L’intensificazione dello sfruttamento, la predazione delle risorse (dai cosiddetti “beni comuni” al salario indiretto e differito), la dequalificazione degli studi (quanti laureati, stagisti o no, guadagnano stipendi ridicoli!): la borghesia non può fare altro, per rianimare saggi del profitto in debito d’ossigeno. Tutto ciò fa parte dell’agenda dei governi di ogni colore politico.

Il capitalismo ordina, i governi eseguono, il sindacalismo maggioritario convince i lavoratori della necessità dei sacrifici, contrattando i dettagli per frenare, in parte, l’esosità dei padroni e salvare la faccia. Almeno, fino a ieri. Oggi, CISL-UIL sono solo una filiale di Confindustria e governo, mentre la CGIL vuole continuare sulla via della concertazione, nonostante la crisi l’abbia molto ristretta. Ma è stata proprio la concertazione, cedimento dopo cedimento, a ridurci in queste condizioni.

E il sindacalismo di base? I sindacati di base sono quasi una decina ed hanno piattaforma, rivendicazioni, modalità di operare molto simili, ma non si uniscono tra di loro nemmeno per uno sciopero, né lo faranno mai! Perché non capiscono che se i lavoratori fossero uniti sarebbe già un passo avanti? Perché continuano a frammentarci e a dividerci? Perché ritengono più importante conquistare migliori posizioni per la propria struttura di appartenenza indicendo scioperi isolati, piuttosto che mettersi al servizio della lotta di classe, come un sindacato decente dovrebbe fare? La nostra risposta è una e definitiva: salva restando la buona fede di moltissimi iscritti di base, il sindacalismo tutto ha fatto il suo tempo.

Che fare, quindi? E’ giusto scioperare, però gli scioperi hanno senso se accompagnano un percorso di lotte vere, di intensità almeno pari a quella della guerra sociale che ci viene fatta. Ma il sindacalismo non le vuole fare o non ne è capace (o le due cose insieme): allora sono i proletari a dover prendere in mano la difesa dei propri interessi di classe, mai come nella crisi inconciliabilmente opposti a quelli della borghesia.

In che modo? I lavoratori più combattivi creino dei Comitati di lotta, per cominciare a rompere la cappa della rassegnazione, per stimolare e organizzare gli altri lavoratori, per forza di cose fuori e, se necessario, contro il sindacato. Sono le assemblee dei lavoratori che devono decidere modalità e scopi delle lotte. Uniamo le vertenze delle aziende in crisi, battiamoci contro tutti i licenziamenti e contro la precarietà. Facciamo sentire la forza operaia ai padroni: creiamo, durante le lotte, coordinamenti indipendenti da tutti i sindacati, che uniscono gli operai, i precari e i lavoratori in lotta di ogni settore! Indispensabile per noi è il radicare in questo processo il partito di classe, comunista ed internazionalista, cui chiamiamo ad unirsi tutti i proletari più sensibili e non rassegnati a subire i ricatti di questa infame società, per mettere radicalmente in discussione il sistema di sfruttamento: il capitalismo.

Il futuro sarà nostro, se sapremo prepararcelo!