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Home ›Uno sguardo all'economia cinese
Preoccupante, per il governo cinese, diviene di mese in mese l’andamento della economia nazionale, che in dichiarate vesti da comunismo-capitalistico (svolta dengxiaopinghiana) è alle prese con un’inflazione galoppante: dal 2% nel 2009, ha toccato il 5,4% a marzo di quest’anno. Particolarmente interessato il settore alimentare (carni, latticini, verdure) con un aumento dei prezzi che ha colpito in particolare il proletariato urbano.
Ricordiamo che la popolazione cinese è di un miliardo e 370milioni di individui, circa un miliardo dei quali al di sotto delle ufficiali soglie di povertà.
Si ridimensionano gli investimenti statali fissi, col valore corroso dall’inflazione, e vacilla qua e là il piano quinquennale. Le esportazioni sono in calo e ciò ha causato la chiusura di molte aziende, con effetti a cascata, e la disoccupazione è cresciuta specie nelle zone costiere. Si è parlato di oltre una decina di milioni di lavoratori migranti licenziati e rimasti senza lavoro, facendo salire il tasso ufficiale di disoccupazione al 9%.
Intanto gli Usa premono per un apprezzamento dello yuan in grado di riequilibrare la loro bilancia commerciale in costante deficit; Pechino, invece, punta ad una convertibilità della sua moneta per una maggiore presenza sui mercati valutari. Il cambio fisso tra dollaro e yuan e la politica di espansione monetaria della Fed alimentano conseguenze in parte negative sull’economia cinese. Rimane comunque forte anche in Cina la crescita monetaria e l’eccesso di riserve, per cui una rivalutazione dello yuan forse si potrebbe fare… Già, ma col risultato di un aumento dei prezzi, dopo che negli ultimi mesi la Banca Centrale ha alzato per ben 4 volte i tassi di interesse. Le contraddizioni dell’economia capitalista si fanno evidenti. Né va trascurato il finanziamento del debito pubblico Usa, con una Cina che intrattiene relazioni, certamente “pericolose” ma inevitabili per il capitale "in giallo", con la grande finanza di Washington e con i “fondi sovrani” internazionali, ricorrendo - sottoposti a “segreti di Stato”… - ai medesimi strumenti speculativi made _in Usa_. E così la crisi scava, con ripercussioni a livello finanziario, mascherando quelle voragini ben più pericolose che si stanno aprendo nella fondamentale struttura dei processi produttivi sottoposti ai vincoli delle leggi di movimento del capitale.
Si diffondono quindi - ufficialmente - allarmanti bolle speculative. Il mercato borsistico subisce varie turbolenze, con titoli azionari gonfiatisi e sgonfiatisi alla borsa di Shangai. In surriscaldamento si presenta ora la bolla immobiliare (a Shenzheng, la più grande e moderna area urbana del sud, il prezzo delle case è in caduta libera) e diminuiscono (50% in un anno…) gli acquisti. Il capitale, si sa, gioisce solo a fronte di aumenti! Qualche esperto (?) prevede addirittura una crisi immobiliare più grave di quella di tre anni fa negli Usa. Quanto ad un aumento dei salari, per alzare i consumi interni, e alla costruzione di una rete di sicurezza sociale (istruzione, malattia, vecchiaia), il tutto va a contrastare la necessità di mantenere elevati i tassi di risparmio affinché la Cina possa investire in ogni parte del mondo e, al momento, mantenere l’accumulo di riserve in valuta estera (US Treasuries). Impossibile far quadrare il cerchio, cioè consumare e investire al tempo stesso. E’ vero che i consumi interni (la loro quota sul Pil è costantemente diminuita dal 2009 al 2010) può dipendere da un aumento dei salari, almeno quelli minimi che si aggirano sui 150 dollari mensili. Ma si temono ripercussioni per la "competitività" di settori industriali dove opera una massa di lavoratori a basso salario: i capitalisti, per mantenere i loro margini di profitto, sarebbero “costretti” ad aumentare la produttività del lavoro, liberandosi dagli “esuberi” che inevitabilmente andrebbero a ingrossare le fila dei disoccupati.
E mentre si hanno notizie (frammentarie) di centinaia di rivolte rurali, con milioni di contadini poveri migranti interni, e di scioperi per vertenze salariali in aziende e zone urbane, c’è chi sostiene che l’inflazione sia dovuta già ad una crescita della domanda interna. Questa sarebbe perciò da comprimere… Quindi l’ossigeno per la crescita cinese rimarrebbero ancora le esportazioni, strappando plusvalore dalla forza-lavoro del proletariato cinese con metodi e ritmi bestiali.
Il fatto che la Cina prenda piede in fette di mercato mondiale, a spese degli interessi nordamericani, avrà sempre più profonde conseguenze sul piano politico internazionale, con violente spinte e controspinte. Un passaggio di testimone fra il capitalismo americano e quello cinese non potrà essere contrattato pacificamente. Sono destinati a spezzarsi gli “equilibri” che al momento sembrano reggersi sul filo di seta della enorme riserva di titoli di stato Usa nelle casse cinesi, dei conflitti “pacifici” sul controllo delle materie prime (petrolio e gas fra i primi) e delle influenze e presenze geopolitiche. Ma è chiaro che l’imperialismo Usa non potrà stare a lungo con le mani in mano. O meglio: con le armi ai piedi.
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