La crisi dei debiti pubblici

Dalla rivista giovanile internazionalista “Amici di Spartaco” #26

Dopo quella dei sub-prime è l’ora della crisi dei debiti sovrani. Gli analisti borghesi si affrettano a denunciare che l’attuale grave situazione è colpa dell’impazzire dei mercati. In realtà ad impazzire è l’intero capitalismo mondiale che, agonizzante, si dibatte all’interno delle proprie, insanabili contraddizioni. I cosiddetti mercati altro non sono che una decina di Banche e Centri finanziari internazionali che “amministrano” speculativamente qualcosa come 600 mila miliardi di dollari all’anno, che corrispondono a 12 volte il prodotto mondiale lordo annuale. E’ una massa di capitale fittizio che si sposta ogni minuto ai quattro angoli del mondo in cerca di un vantaggio economico immediato, con l’obiettivo di creare plusvalenze da reinvestire in altre attività speculative, in una sorta di catena di S. Antonio che sta mostrando la corda. Non è dal danaro che si produce danaro (se non fittizio, appunto), se questo non si investe produttivamente attraverso il rapporto tra capitale e lavoro. La speculazione, qualunque essa sia, non produce nuovi valori, ma rappresenta soltanto un trasferimento di valori già prodotti.

Cos’è il debito? e a cosa serve?

Il debito sovrano, ovvero il debito pubblico, in altri termini il debito che gli Stati contraggono con sottoscrittori nazionali ed esteri tramite obbligazioni o titoli di stato (quali bot, btp, cct) allo scopo di finanziare le proprie attività, è tanto più grande quanto maggiore è la necessità di intervento a sostegno dell’economia nazionale. Negli ultimi decenni, a parte le normali funzioni di finanziamento della “cosa pubblica”, il debito sovrano ha dovuto provvedere ai guasti che la progressiva diminuzione dei saggi del profitto ha procurato al mondo imprenditoriale, sia privato che della sfera pubblica. Quando poi le crisi si sono espresse nel settore finanziario, il debito pubblico si è dovuto accollare anche il risanamento delle banche e degli istituti di credito direttamente interessati alla crisi, in una sorta di statalizzazione della finanza, oltre che di alcuni colossi dell’imprenditoria privata, come nel settore metalmeccanico delle imprese automobilistiche.

Sviluppo del debito in Italia

Dal 1929 in poi una quota sempre più rilevante del reddito interno viene ridistribuita in favore di aziende in crisi; l'aumento della spesa dello Stato verrà ancora perseguita, ma non più o non solo al fine di creare ulteriore domanda di beni e servizi, ma a fronte delle laceranti contraddizioni che il capitale continuerà a produrre all’interno del tessuto sociale e operaio, ricomporre in qualche modo queste fratture attraverso uno Stato ‘legittimato’ agli occhi proletari diventerà un compito ben più importante.

L’ultima fase di ricostruzione vede quindi uno sviluppo intensivo ed estensivo di servizi, un tempo gestiti privatamente. I trasferimenti effettuati in favore del settore ‘istruzione’ passano dal 2 per cento del conto consolidato di spesa del 1915 all’11,1 per cento del 1955, per arrivare al 20 per cento del 1970. Le spese rientranti sotto la voce ‘sociali’, aggregante assistenza sanitaria, pensioni varie, indennità di disoccupazione, di integrazione guadagni, eccetera, subiscono anch’esse un salto quantitativo, passando dal 13,9 del 1955 al 19 per cento del 1970. Un forte sviluppo lo ha anche il settore dei trasporti e telecomunicazioni, parallelamente al crescere di numerose altre infrastrutture.


Parallelamente a tutto questo, l’intervento dello Stato nell’economia si espande. L’aggregato ‘Contributi alla produzione’, sotto il quale rientrano contributi alle imprese, concezioni creditizie, eccetera, nel ventennio sopra considerato aumenta di circa il 30 per cen to. La partecipazione dello Stato alla gestione diretta del la economia nelle forme della Partecipazione Statale, dopo la creazione dell’Iri nel 1933, partorisce negli anni 1950-60 numerosi altri Enti di gestione (Eni, Efim, Egam, Eagat, Eagc), al punto che questi nel 1975, controllando 965 imprese, coprono il 30 per cento degli investimenti nazionali. Certa mente non tutto ciò che è sta to realizzato nel campo delle trasformazioni sociali è stato dettato da questa prospettiva di comando. Basta pensare al ruolo svolto dall’istruzione nel la produzione di una forzalavoro professionalmente preparata ad adeguarsi alle mutanti condizioni tecniche del processo di produzione; o alla funzione di contenimento della sacca di disoccupazione che sempre la scuola ha svolto; o al compito di mobilità territoriale della massa operaia che lo sviluppo dei trasporti ha assolto.

Nella prima metà degli anni 1970 il tasso di crescita del Pil è già sceso al 2,2 per cento, dal 5,6 per cento degli anni 1960 (successivamente, supererà il 3 per cento soltanto nel 1987 e 1988). Siamo in piena crisi: comincia la gestione dei sacrifici del proletariato attorno alla voragine del debito pubblico.

Perché il debito aumenta?

Non sono i costi sociali, le pensioni, la sanità o gli stipendi ai pubblici dipendenti che fanno crescere il debito, bensì la necessità di mantenere alti i tassi di interesse, di sostenere la rendita finanziaria e i profitti delle imprese. Un circolo vizioso che costringe ogni mese il Tesoro, per coprire il proprio fabbisogno nel pagamento degli interessi sui prestiti ottenuti, a collocare sul mercato titoli (nuovi e riciclati) per decine di migliaia di miliardi. I compratori devono essere necessariamente attirati con l’offerta di tassi appetibili e competitivi sul mercato in sostanza significa che io compratore per essere attirato a “comprare debito” devo vedere in prospettiva un bel guadagno, ragion per cui, più è alto l'interesse più potrò guadagnare sul prestito fatto e più sarò invogliato a comprare quei titoli, ingrassando così banche, compagnie d’assicurazione e industriali, i maggiori clienti beneficiari di tali operazioni.

La logica stessa del mercato costringe in definitiva lo Stato a offrire maggiori garanzie rispetto agli investimenti privati e ai rischiosi titoli azionari. Garanzie riguardanti sia il pagamento degli interessi che il rimborso dei prestiti, pena la bancarotta dello Stato.

Quando, a partire dal 1980, i tassi di interesse reale diventano superiori al ritmo di crescita effettivo, il rapporto fra debito e Pil aumenta in modo incontrollabile.

L’ammontare della spesa per il rimborso degli interessi allarga le dimensioni del deficit complessivo, che viene poi invocato per reclamare balzelli fiscali e tagli alle spese sociali.

Il paradosso è evidente. Per finanziare il debito lo stato non fa altro che indebitarsi ulteriormente, grazie ai meccanismi perversi della speculazione finanziaria.

L’attuale caratterizzazione strutturale del debito è quella di un alto numero di titoli a reddito ( cedola) fisso e prezzo variabile, i Btp (Buoni del Tesoro poliennali). Durante il periodo di massima inflazione degli anni 1970, le prime massicce emissioni di titoli furono assorbite dalla Banche. In seguito, per non bloccare il sistema finanziario, lo Stato si rivolse ai risparmiatori privati, Il 70 per cento dell’intero stock del debito pubblico passò nelle mani delle famiglie italiane della grande, media e piccola borghesia.

Solo verso la metà degli anni 1980, in vista di un contenimento dei tassi inflazionistici perdita di valore del denaro, il mercato dei titoli pubblici si spostò verso i buoni a reddito fisso e prezzo variabile, aprendosi così agli investitori istituzionali e agli intermediari finanziari. Contemporaneamente, e a scala internazionale, si assisteva sia all’aumento dei tassi di interesse praticati dalle Banche centrali (ma guarda un po': le banche contribuiscono alli'indebitamento degli stati!), e sia al dilatarsi dell’indebitamento pubblico in quasi tutti i centri statali, Usa in primo piano.

Attorno ai titoli a reddito fisso, quei Btp sui quali oggi si concentra la maggior parte del debito pubblico, si scatenò ben presto il gioco speculativo degli investitori internazionali, che compravano e vendevano guadagnando sulle continue oscillazioni dei prezzi dei titoli. Prezzi che influenzano il rendimento dei titoli stessi, ed è sufficiente un punto percentuale in più o in meno per provocare variazioni di decine di miliardi nel totale del deficit statale.

Crisi finanziaria o crisi totale del capitalismo?

Quella che è stata universalmente definita come una crisi di natura finanziaria, in realtà è una crisi economica la cui origine è nelle progressive dif ficoltà del capitalismo a so pravvivere alla legge del sag gio del profitto: la necessità di aumentare continuamente i profitti in proporzione agli inve stimenti fatti, pena la crisi del capitalismo. La crisi dei profitti ha spinto quote di capitali via via crescenti a spostarsi dalla produzione alla finanza per inseguire la falsa prospettiva di potersi valorizzare attraver so la speculazione, spostando il problema dal settore produt tivo a quello speculativo, che, a sua volta, dopo aver dato vita a una serie di esplosioni di bolle finanziarie, è ritornato sul mondo della produzione reale peggiorandone le già precarie condizioni, quelle stesse che avevano innescato il perverso meccanismo della speculazio ne. In questo contesto nasce e si sviluppa anche la crisi dei debiti sovrani che, a diversa intensità, interessa quasi tutti i maggiori Stati capitalistici.

La situazione internazionale

Per i grandi paesi imperialistici, il costo delle guerre e la spesa per gli armamenti hanno fatto il resto. Un esempio su tutti, quello americano. La crisi da caduta del saggio del profitto nella sfera produttiva ha favorito la fuga verso la speculazione, ha determinato il deflagrare delle bolle finanziarie che hanno bruciato miliardi e miliardi di dollari, costringendolo Stato ad un precipitoso, quanto costoso, intervento, che ha prosciugato le sue riserve finanziarie e si trova sull’orlo del collasso. Il debito sovrano ha raggiunto i 14,5 mila miliardi di dollari pari al 102% del Pil. Secondo alcuni analisti americani il debito sarebbe ben superiore, pari al 140% del Pil. Con questi numeri gli Usa non sarebbero mai entrati nei parametri di Maastricht o, se già dentro, avrebbero fatto una fine peggiore di Grecia, Portogallo, Spagna e Italia. Se a questo si aggiunge il deficit federale pari all’11% del Pil, l’indebitamento delle famiglie e delle imprese il quadro che ne esce è catastrofico. Lo Stato del Minnesota ha già dichiarato fallimento.

Non è più in grado di assicurare i servizi sociali, non può pagare i dipendenti pubblici. Aspetta che lo Stato centrale intervenga con finanziamenti che non arriveranno mai. Qua si nelle stesse condizioni si trovano altri quaranta Stati.

Le ricette per uscire dalla crisi?

Le solite, con alcune variabili.

Mentre nella crisi del 1929 esistevano risorse finanziarie sufficienti a mettere in moto un meccanismo di sostegno della domanda, oggi questo non è più possibile. Le disponibilità finanziarie non ci sono, gli Stati sono pesantemente indebitati e l’unica via che il capitalismo può percorrere è quella della ulteriore mortificazione della forza lavoro.

Il debito pubblico si sta gonfiando in maniera spropositata. Sul fronte interno questo significa che ci aspettano politiche di tagli e sacrifici sempre più aspre, col rischio di incrinare la pace sociale. Per le economie più deboli, tra cui noi, e per gli enti locali fa, inoltre, capolino il rischio della bancarotta. Sul fronte esterno, invece, la crescita del debito rende sempre più difficili le relazioni interimperialiste tra emettitori ed acquirenti dei titoli del debito pubblico. In tutti i casi la crescita abnorme del debito appare come un’immensa ipoteca sul nostro futuro prossimo e un fattore capace di accelerare la via dell’op zione bellica (distruzione massiva di uomini e capitali) come unica via, in ultima istanza, capitalisticamente perseguibile per fronteggiare la crisi.

Il nocciolo della questione riguardante “il pareggio del bilancio della Tesoreria” si riduce sempre e per forza di cose all’aumento del carico fiscale, diretto e indiretto, e al taglio della spesa pubblica, ritenuta superflua e improduttiva.

Due misure che attraverso la mediazione del consenso politico costituiscono per la borghesia il massimo punto di sbocco della propria prospettiva di sopravvivenza, lungo il tortuoso percorso della gestione del potere economico, amministrativo-statale. È, in definitiva, l’unico intervento possibile a disposizione dello Stato capitalista, nel tentativo di far quadrare i conti del proprio bilancio. Nella logica economica dominante, non è paradossale il fatto che lo Stato stesso sia il pagatore di ingenti rendite finanziarie a creditori privati in massima parte costituiti da evasori fiscali. Com’è risaputo, infatti, soltanto la metà del reddito nazionale (fra cui però tutto quello salariale) risulta essere nel mirino del fisco, e quindi sottoposto a una imposta diretta.

Il “seguito” diventa un costante ricorso a nuovi e straordinari prelievi forzati dalle tasche dei cittadini, debitamente divisi in tosati e tosatori. Vale a dire dalle tasche dei salariati, gli unici sui quali si riversano immediatamente e inevitabilmente le misure di ricapitalizzazione di ogni azienda, sia essa privata che statale: in questo caso, l’azienda Italia.

Le illusioni riformiste...

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La questione degli investimenti nella parte sana del capitalismo, quella produttiva, contro quella della finanza speculativa, portatrice di tutti i mali.

I binari paralleli sui quali hanno sempre corso la politica fiscale della Confindustria (un fisco più equo e tassare le rendite finanziarie) e quella delle sinistre (preoccupate di “rendere più appetibile l’investimento produttivo rispetto alla rendita finanziaria”), illuminano a sufficienza quali siano in definitiva gli interessi in gioco. E le dispute politiche, tanto plateali quanto innocue, pretenderebbero di approdare a un “rivolgimento del bilancio dello Stato”. Esattamente ciò che il nostro ottocentesco Marx denunciava come “impossibile senza un rivolgimento totale dello Stato”. Per il momento, l’interesse degli industriali:

consiste indubbiamente nella diminuzione dei costi di produzione, dunque nella diminuzione delle imposte che entrano nella produzione, cioè nella diminuzione dei debiti dello Stato, i cui interessi si trasformano nelle imposte.

Marx

Riforma fiscale /patrimoniale

La “riforma dell’imposta” costituisce il piatto forte del menù “socialista” e radical borgherse,

dai più antichi borghesi del comune medievale ai moderni fautori del libero scambio, la battaglia principale si muove attorno alle imposte.

L’ideale chimerico di tale riforma è naturalmente “l’equa e uniforme distribuzione delle tasse”, ferma restando la presenza dei rapporti capitalistici di produzione, e anzi rafforzandone la loro stabilità. Più che evidente, da oltre un secolo, è il fatto che ogni intervento sulle imposte “non eleva il salario ma il profitto”.

I principali fattori che determinano il costante aumento del deficit pubblico siano riconducibili agli oneri per interessi passivi e all’evasione fiscale.

Lo Stato italiano può vantare una evasione annuale di imposte che supera il 15 per cento del Pil.

E mentre i governi in carica, a parole e nei fatti, riversano la responsabilità delle pubbliche passività sui “privilegi” di cui ancora godrebbero salariati e pensionati, la classe borghese in tutte le sue stratificazioni economiche e sociali accumula ogni genere di benefici, privilegi e condoni, protezioni ed evasioni praticamente incontrollabili. Dagli industriali ai banchieri, dai commercianti ai liberi professionisti, dai servizi privati a quelli per le imprese.

Pubblica “deregulation” = smantellameto dello stato sociale

In breve, l’inefficienza e l’onerosità dei pubblici servizi vengono risolte ridimensionando le loro prestazioni e sottomettendo la loro gestione alle più redditizie regole del libero mercato. Il filo conduttore è sempre quello: lo Stato si ritira e lascia campo libero ai privati, stanziando migliaia di miliardi a loro favore; le masse salariate, i deboli e i bisognosi scoprono a caro prezzo i buchi dei conti statali, e pagano ai capitalisti privati i nuovi servizi.

Lo Stato si limita a intervenire nel vivo delle contraddizioni espresse dalla crisi dei processi di accumulazione (accumulazione di capitale = aumento del capitale complessivo). Lo fa finanziando direttamente il profitto attraverso una modificazione della spesa pubblica. Diminuiscono gli investimenti statali nei settori in cui viene stimolata una domanda diretta e indiretta (opere pubbliche, assistenza scolastica, pensionistica e sanitaria), e che caratterizzavano le politiche di sostegno al reddito (lo Stato sociale). Il sostegno si dirige verso i grandi gruppi capitalistici e strategicamente fondamentali nella competizione internazionale.

L’amministrazione dello sfruttamento di classe

Il taglio delle spese per i servizi sociali potrà forse portare a una diminuzione della spesa pubblica complessiva e quindi del suo defici annuo. Ma non diminuirà affatto il debito complessivo dello Stato. Da anni tutte le spese assistenziali vengono sottoposte a drastici tagli e ciò nonostante, come abbiamo visto, il debito costantemente sale. E poichè il governo della borghesia non può intaccare gli interessi della stessa classe borghese, il problema del debito pubblico continuerà a essere affrontato raschiando quel che rimane sul fondo del barile dell’ex “Welfare State”. Con abbondanti razioni di stangate sulla principale componente economico-sociale del popolo sovrano, il proletariato.

Il capitalismo, i suoi bilanci di entrate e uscite, in forma statale o privata, non sopportano vincoli e regole all’infuori della esclusiva valorizzazione del capitale stesso. I suoi comportamenti non seguono valori solidaristici verso chicchessia, norme etiche o... culturali indipendenti dal profitto. L’etica e la cultura politica della borghesia non sono che il prodotto storico del predominio economico di classe, della sopraffazione dei deboli, sfruttati, da parte dei più forti, sfruttatori.

Per un'opposizione di classe

Contro la volontà dei padroni di scaricare i costo della crisi, attraverso i loro scagnozzi politici e sindacali, sulle nostre spalle, è giunto il momento di rialzare la testa per difendere le nostre condizioni di esistenza. É giunto il momento di riallacciare i fili spezzati della solidarietà proletaria, oltre ogni differenza etnica sessuale salariale o sindacale, perché i nostri interessi di lavoratori vanno al di la di ogni differenza, per acquisire quella forza necessaria al fine di difenderci oggi dall'attacco in corso e domani di prospettare il superamento di questo sistema asociale.

Amici di Spartaco Milano
Lunedì, March 26, 2012

Amici di Spartaco

Rivista giovanile internazionalista