La "primavera" egiziana tra reazione e conservazione

Dopo una settimana di contrastato spoglio delle schede, di accordi e scontri sotterranei, di promesse e minacce e di reciproche accuse di brogli, l’elezione del capo dello Stato ha partorito un vincitore: Mohammed Morsi, con un margine ristretto nei confronti del suo antagonista Ahmed Shafiq. Il primo è lo storico rappresentante dei Fratelli musulmani, il secondo è uomo del vecchio regime, ex ministro e numero due del governo Mubarak. Morsi ha giocato le sue partite elettorali sul “moderatismo” religioso, sulle promesse di uno stato sociale equo e funzionale come si conviene a un timorato di dio. Ha recitato il sermone della fratellanza nella società e della Sharia nei tribunali. Shafiq ha fatto leva sul pericolo integralista sia dei salafiti di Al Nour, sia della potente congrega dei Fratelli musulmani. Sul programma le solite cose: progresso, potenziamento della società civile, lavoro e sviluppo per tutti. Il pendolo delle convulse vicende egiziane è oscillato tra la pesante reazione del vecchio regime dei militari e l’ottuso conservatorismo degli integralisti.

Tutto come da programma? Sì, per tre motivi.

  1. Già alle elezioni politiche per il rinnovo del Parlamento la componente islamica aveva stravinto con il 70% dei voti (456 seggi contro i 132 degli altri raggruppamenti). 235 seggi erano andati al partito dei fratelli musulmani Libertà e giustizia. 121 agli integralisti salafiti di Al Nour. 10 ai musulmani moderati di Al Wasat. Agli altri le briciole. Per i liberali di Al Wafd 38 seggi, al Blocco egiziano 34, al Partito per la riforma e lo sviluppo, che comprendeva la cosiddetta sinistra riformista, solo nove seggi. Dietro un simile successo il lungo lavoro dei Fratelli che in un mondo di lacrime e sangue hanno proposto la salvifica via della fede contro le menzogne della democrazia occidentale e le “illusorie” promesse egualitarie del defunto comunismo.
  2. In più sarebbe stata la prima volta che un non militare si sarebbe seduto sulla poltrona della carica più alta dello stato, sancendo in tal modo lo “storico” cambiamento. Morsi ha così raccolto i “fedeli” legati alla tradizione religiosa, i laici che pur di non votare un militare, per giunta già ministro del vecchio regime, si sono turati il naso e hanno votato il Partito della Libertà e giustizia. Persino una parte consistente della piccola borghesia, del movimento laico del 6 Aprile, sono finiti all’interno del calderone musulmano in spregio al rappresentante del vecchio regime.
  3. Shafiq è riuscito ad arrivare al 49% grazie ad una serie di fattori che si collocano tutti all’interno di una strategie di reazione. Ha goduto dell’appoggio incondizionato dell’attuale governo dei militari. Tantawi, l’attuale gestore del potere, si è speso in prima persona a favore del candidato del vecchio regime. Ha sciolto il Parlamento, ha emendato una legge con la quale si riabilitavano i collaboratori di Mubarak. Ha represso la piazza sino al giorno prima delle elezioni, ha favorito brogli e inscenato episodi di violenza davanti ai seggi. In più, l’ex ministro di Mubarak è riuscito a catalizzare la paura dell’integralismo di tutti quegli elettori che, in termini speculari ma con proiezione opposta, si sono turati il naso, ma, pur di non correre il rischio di avere un governo teocratico, o di un suo surrogato, hanno votato per il laico Shafiq.

In conclusione, la sfida elettorale, che per gli analisti occidentali avrebbe dovuto segnare uno storico cambiamento della società egiziana, si è risolta nella sfida tra il vecchio regime, reazionario e violento, e la nuova conservazione di stampo integralista. Ovvero il peggio che poteva succedere. A questo punto il futuro governo Morsi dovrà vedersela con lo strapotere dell’esercito, con l’atteggiamento dell’imperialismo americano che tanta parte ha giocato nelle vicende politiche dell’Egitto nel lungo periodo di dominio dell’ormai ergastolano “faraone”. Dovrà fare i conti con i lauti finanziamenti che il governo americano stanzia annualmente a favore dell’esercito, che potrebbe non più effettuare senza l’allineamento del nuovo governo. In ballo ci sono i vecchi accordi di Camp David con Israele e la neo progettata alleanza energetica con l’Iran.

Se a fronte delle devastanti conseguenze della crisi che aumentano la pauperizzazione tra le file del proletariato e accelerano il processo di proletarizzazione della piccola borghesia non si è espressa la benché minima opposizione di classe, che ponesse, anche se in embrione, la necessità di fare i conti con il vecchio e il nuovo regime, che vedesse nella crisi internazionale, nel muoversi della piazza, la condizione per un rovesciamento rivoluzionario del “sistema paese”. Se non appare un programma politico che abbia come obiettivo dichiarato l’eliminazione del capitalismo, del lavoro salariato, di un altro modo di produrre e distribuire ricchezza. Se nello scontro politico non c’è un partito che proponga questi contenuti alle masse, ai lavoratori dei cantieri navali, al proletariato del porto di Suez, di Ismailia e Porto Said, ai lavoratori del mondo agricolo, a quello dei cotonifici e delle imprese tessili, che peraltro si sono più volte mossi, il risultato non poteva che essere questo. Per la borghesia egiziana, per il suo braccio armato, l’esercito, la defenestrazione di Mubarak è stata la pastura somministrata al popolo perché con la manfrina del cambiamento istituzionale tutto rimanesse come prima. E come prima, se non peggio, dato che i morsi della crisi continuano a essere più dolorosi e insopportabili, sarà per l’affamato proletariato urbano, per i contadini del delta del Nilo e per quella enorme corte dei miracoli che appena sopravvive alla periferia del Cairo e di Alessandria.

FD
Martedì, June 26, 2012