In cielo e in terra, all'inseguimento del profitto: questo è il capitalismo! E per questo è in crisi…

Se per le compagnie aeree europee i cieli del futuro si annuvolano e annunciano maltempo, per Alitalia già comincia a piovere: si vola a bassa quota con una situazione finanziaria che registra debiti per 6,6 miliardi di euro. Anche la Commissione Trasporti del Senato - criticando i tre anni di gestione Colaninno-Sabelli - ha conteggiato una perdita di 500 milioni di euro nel medesimo periodo. Il patrimonio netto, ha aggiunto,

si ridurrà a circa 450 milioni di euro, con una perdita secca del 38% rispetto agli iniziali 1.170 milioni di euro in capitale.

Questo quando anche la stessa AirFrance-Klm, che nel 2011 ha dichiarato una perdita di 809 milioni di euro, si prepara a massicci tagli per fronteggiare i profitti in calo e il prezzo del greggio , con le sue improvvise impennate, negli ultimi tempi ha più volte messo in difficoltà tutte le compagnie aeree.

E così Alitalia, dopo la privatizzazione e la fusione con AirOne, è di nuovo alle prese con inadeguati profitti; anche se le voci di una probabile Cassa Integrazione per un migliaio di dipendenti non sono ufficialmente confermate (colpirebbero 600 a tempo indeterminato e 400 con contratto a scadenza), i 4500 assistenti e piloti, che dovevano essere reintegrati al seguito del solito eclatante “piano di ristrutturazione”, sono invece sempre in attesa.

Fra politiche dei trasporti globali o parziali, le rotte meno redditizie vengono intanto abbandonate: Ancona-Roma e Pisa-Roma sono già state cedute con una formula di affitto di aerei ed equipaggi, e quindi con ripercussioni di trattamenti salariali e normativi in ribasso anche per il personale che rimane in Alitalia. Naturalmente sono proprio i voli a medio-breve raggio i meno redditizi per le grandi compagnie, le quali non possono sopportare certi “costi del lavoro”, mal tollerati anche per i voli a lungo raggio.

Liberalizzato nel 1992, il mercato europeo del trasporto aereo ha registrato numerosi accordi e fusioni tra KLM e AirFrance, British Airways e Iberia, Lufthansa e Swiss Air. Il capitale finanziario ha lucrato abbondantemente in queste operazioni, così come in tutte quelle che hanno interessato altri settori industriali. Sul mercato italiano operano una ventina di compagnie aeree e Alitalia, in particolare, deve vedersela con la competitività della tedesca Lufthansa e dell'anglo-spagnola Iag (British Airways-Iberia).

Tornando oltre Alpe, il risanamento di AirFrance a questo punto passa da una riduzione dei costi, per circa 2 miliardi di euro entro il 2014, al congelamento dei salari e delle assunzioni; dalla riduzione degli investimenti e dell'indebitamento netto alla ridiscussione dei precedenti accordi sindacali; dall'aumento della produttività alla soppressione di 1522 posti di lavoro(oltre il 10%) entro il 2014. La modifica degli accordi contrattuali riguarda soprattutto le “regole della produttività”, fra cui l'aumento degli orari di volo annuali, (almeno 120 ore in più), il ricorso al part-time, la riorganizzazione degli equipaggi. Basterà una hostess o uno steward per ogni 45 passeggeri sui voli a lungo raggio.

Dal cielo alla terra. Sulle strade d'Europa, il traffico d'auto non è quello che sognavano i migliori gestori del capitale investito nell'industria delle quattro ruote. Nel Bel Paese, tra le sciatterie giudiziarie del “folklore locale” e le “boiate” del Governo tecnico (non siamo noi a dirlo ma personaggi come Marchionne e Squinzi, ora a capo della Confindustria), i motori sono al minimo e molti battono in testa. Complessivamente, anche l'UE lamenta una eccessiva produzione di auto, almeno più di due milioni di troppo. A conti fatti (dalle stesse fonti), una decina di stabilimenti sarebbero in eccesso e circa 40 mila lavoratori in esubero. Ma veniamo al Marchionne-pensiero che dopo le brillanti esternazioni dei primi tempi si è perso in una nebbia piuttosto opaca. Appena due anni fa ci aveva regalato una previsione secondo la quale l'incremento dei volumi di produzione della Fiat entro il 2014 sarebbe stato tale da offrire in vendita ben 1.400.000 auto (corrispondenti - ci spiegava - alla “capacità ottimale di utilizzo degli impianti” situati nella nostra penisola) contro le sole 650 mila prodotte nel 2009.

Pur sempre col suo personale portafoglio straripante di dollari e di euro, che simili previsioni avevano contribuito a gonfiare, Marchionne si è però visto costretto dopo quegli euforici annunci a conteggiare dagli stabilimenti italiani della Fiat l'uscita, nel 2011, di sole 480.000 auto, con una nuova e riduttiva previsione di non più di 450.000 vetture a fine 2012. Dal solo stabilimento di Melfi dovevano uscire - parola di Marchionne nell'aprile 2010! - almeno 400.000 vetture sempre entro il 2014 (450.000 con i 18 turni). Il poveretto (si fa per dire, e coi depositi personali ben colmi nelle banche svizzere!) non aveva fatto i conti con l'incognita che le auto, oltre che essere prodotte, vanno anche vendute. A chi? I borghesi se ne comprano magari anche tre o quattro a persona, ma per i proletari (che Marchionne e soci vorrebbero lasciare per strada a passeggiare con le mani in tasca e il “loro” portafoglio vuoto) vi sarebbero bisogni ben più importanti e urgenti da soddisfare. E così il mercato è in crisi e la sovra-capacità produttiva si fa enorme: la Fiat la calcola in circa un milione di vetture!

Lo stabilimento di Pomigliano ha una capacità produttiva “sfruttata” al solo 50%; vi lavoravano 5000 operai, oggi circa 2500. Ed ora si guarda a Mirafiori, dove si potrebbero pure tagliare alcune migliaia di posti lavoro. Dopo tutto, anche la Peugeot francese ha annunciato un taglio di 8-10mila posti e la chiusura dello stabilimento di Aulnay e qualche problema del medesimo tipo affiora anche per la Opel tedesca. L'utilizzo degli impianti Volkswagen sarebbe però ancora al 90%.

Ma non è finita: le prospettive si fanno, se possibile, ancora più nere. La diminuzione delle vendite di auto in Europa è stimata per il 2012 in un meno 12% per la Francia, meno 16% per Italia e Spagna, meno 3% per la Germania. Solo un + 2% per il Regno Unito, che vanta l'efficienza dell'impianto Nissan di Sunderland dove, con un organico di soli 5.400 addetti, si producono 480.000 auto. I nostrani imprenditori, e i loro imbonitori mass-media, sbavano con occhi lucidi: ecco come si alza la produttività, ecco la vera efficienza, ecco il massimo utilizzo degli impianti con l'alta flessibilità! A quando un'ulteriore riduzione della manodopera impiegata?

Intanto, nel confronto con il primo semestre 2011, in quello del 2012 sul mercato italiano la Fiat registra una variazione di meno 20,5%, la GM meno 23,8%, la Ford meno 40%, la Toyota meno 21% e la Volkswagen meno 18,6%. Al momento ogni altro commento sarebbe superfluo. Restiamo coi piedi saldamente per terra e scrutando una ben altra strada sulla quale incamminarci.

A questo punto, se la situazione per il proletariato non fosse tragica, potremmo anche farci una risata su quanto A. Pennati (Corsera, 14 luglio) scrive a proposito dello sviluppo desiderato per una sana ripresa economica. Uno sviluppo che dovrebbe consistere nella

capacità dei cittadini di produrre sempre più beni e servizi, grazie all'aumento della produttività, al miglioramento dell'organizzazione del lavoro e dell'efficienza, e all'aumento della dotazione di capitale.

Scusate, ma questi signori, ci fanno o ci stanno? Fingendo di ignorare che “beni e servizi” prodotti in questo sistema sono merci che devono essere vendute realizzando il plusvalore che contengono. Ebbene, a chi le vendono? Come mai la Fiat non “sviluppa” la sua produzione di auto, esprimendo tutte quelle “capacità” di cui parla il signor Pennati? Le quali - ma guarda un po'! - sono proprio fra le cause determinanti, dominando gli attuali rapporti di produzione, lo scarso “sviluppo” desiderato invece dal pubblico e privato capitale. E dai suoi sostenitori.

DC