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Home ›L’arroganza di Marchionne è l’arroganza del capitalismo in crisi
La sentenza della Corte d’appello di Roma ha costretto la Fiat ad reintegrare a Pomigliano 145 operai appartenenti al sindacato FIOM, di questi, i primi 19 dovranno essere reintegrati entro 40 giorni. Bisogna, per la cronaca, aggiungere che la “discriminazione” operata in questi anni dal gruppo FIAT non ha riguardato solo tali lavoratori: allo stato attuale sono circa 3000 gli operai lasciati a casa, in una condizione di perenne cassa integrazione.
Alla sentenza l’amministratore delegato ha risposto provocatoriamente che, essendo gli organici della fabbrica al completo, si vedeva costretto a licenziarne altri 19 per fare posto ai reintegrati. Come sostenuto da molti, il comportamento di Marchionne è gravissimo, al di fuori di qualsiasi regola, è volgare, arrogante e provocatorio, se non vendicativo nei confronti dei lavoratori, del sindacato “oppositore” e della stessa sentenza. Ma non è questo il punto. Al fondo della vicenda si collocano tre questioni di carattere fondamentale che danno il segno della gravità della situazione economica e sociale italiana.
Al primo posto sta il comportamento del “dux Fiat” tanto isterico quanto grave è la situazione economica dell’impresa che amministra. Si potrebbe salottieramente discutere sulla tempistica della dichiarazione di Marchionne, sull’opportunità politica della stessa, sulla mancanza d’intelligenza tattica di un imprenditore che sarebbe potuto arrivare alla medesima conclusione senza sollevare un simile polverone, si potrebbe dire di tutto e di più, ma resta il fatto che la frittata è fatta e da questa bisogna partire. Marchionne non è nuovo a uscite di questo genere. Ha minacciato di chiudere tre stabilimenti, di portare la produzione all’estero, ha inventato proprio a Pomigliano il referendum ricatto nei confronti dei lavoratori, è uscito da Confindustria e ora si esibisce nella immorale performance di mettere i lavoratori integrati contro quelli occupati alla faccia di tutto e tutti. È impazzito oppure il suo comportamento risponde ad una situazione produttiva di tale crisi che lo costringe, forma a parte, a prendere iniziative di questo genere? Quando la crisi morde, il mercato non tira più e i profitti crollano, il compito di un “buon” imprenditore è di tagliare il costo del lavoro, di far lavorare di più a salari inferiori, di licenziare quando è il caso senza tanti vincoli d’ordine sindacale e sociale. Quando le necessità del capitale chiamano, la risposta deve essere immediata ed efficace, altrimenti tutti a casa. Non solo Marchionne si ritiene il più coerente interprete delle esigenze del capitale Fiat, ma quello che vede più lontano. La linea dura del “o si fa come dico io oppure niente” è un monito indirizzato ai giudici romani, ai sindacati, all’opinione pubblica in generale ma soprattutto ai lavoratori. “Prendere o lasciare” non c’è scampo, queste sono le condizioni, è il mercato che lo impone e chi si mette contro ne subisce le conseguenze. Per cui tanta arroganza è figlia solo della gravità della situazione economica che ha investito il mercato dell’auto e quello Fiat in particolare. A questo Marchionne deve rispondere, agli azionisti, ai proprietari che gli permettono uno “stipendio” faraonico, ad un sistema economico e sociale basato sul profitto e sui metodi più adeguati per raggiungerlo, tutto il resto sono solo ostacoli che devono essere abbattuti anche con brutalità.
Al secondo posto va collocato il comportamento del governo tecnico Monti con il coro di Passera e Fornero che ha reagito dicendo che non ci si comporta così, che l’atteggiamento dell’AD della Fiat è fuori dalle regole, che le sentenze vanno rispettate, mostrando “buon senso” e senso dello Stato. In realtà colui che si è espresso in tal senso sta mettendo in atto la più feroce macelleria sociale dal dopoguerra ad oggi. La disoccupazione aumenta, aumentano le tasse dirette e indirette, diminuisce lo Stato sociale. Il 33% degli italiani vive sotto la soglia di povertà, si allunga la vita lavorativa, si lavora da vecchi e i giovani non entrano nel mondo del lavoro. La precarietà sta diventando la norma contrattuale e la flessibilità in entrata e in uscita sta falcidiando il mondo del lavoro. A questo Monti sta lavorando e, ancora una volta, per superare la crisi, per ridare fiato alla macchina capitalistica italiana, per metterla in condizione di riprendere a pieno ritmo ad estorcere plusvalore e a creare profitti. Ma al contrario di Marchionne Monti sa che per ottenere tutto questo occorre avere un occhio di riguardo alla “pace sociale”. E’ necessario cioè stritolare milioni di proletari e le loro famiglie cercando di convincerli della necessità della politica dei sacrifici, della sua temporaneità, perché poi tutti saremo felici e contenti. Guai se le piazze si riempissero di lavoratori esasperati, pronti a tutto pur di sopravvivere. Passera è arrivato a dire che in questa fase gli scioperi sono inevitabili, basta che non degenerino e che non rompano la tanto invocata “pace sociale”. Devono essere una giusta valvola di sfogo, ordinata, contenuta e non la premessa per la rivolta sociale. Non a caso Passera e Monti sono al governo e di questo devono tenere conto. Marchionne è “solo” un potente capo d’azienda e certi problemi non se li pone se non nel suo orticello metalmeccanico.
Al terzo posto ci troviamo il comportamento dei sindacati. Da Bonanni alla Camusso, da Angeletti a Landini il coro è stato unanime. “Non si fa così, non c’è rispetto per la Magistratura e per i lavoratori”, ma nessuno ha indetto subito e tempestivamente una sciopero. Non hanno minimamente accennato a mettere insieme tutti i lavoratori Fiat per una qualche azione significativa. Si sono limitati alle invettive contro il “cattivo” Marchionne, hanno minacciato uno sciopero da programmarsi non si sa bene quando, preoccupati anche loro di non disturbare più di tanto la solita “pace sociale”. Per loro che vivono politicamente all’interno delle compatibilità del sistema, gli scioperi e le manifestazioni sono concepiti più come valvola di sfogo dei loro aderenti che vero momento di lotta e di scontro, altrimenti la piazza potrebbe diventare incontrollabile.
A confermare tutto questo è l’iniziativa lanciata dalla Fiom locale pochi giorni prima della sentenza: “Natale in Fabbrica Italia Pomigliano”. L’iniziativa mirerebbe al reintegro di tutti i lavoratori lasciati a casa, entro dicembre. Come cercare di ottenere questo? Riunendo i lavoratori e spingendoli ad una reale contrapposizione contro i padroni? Scioperando, bloccando la produzione? No, figuriamoci… la FIOM propone al padrone una soluzione molto meno cruenta: cassa integrazione a rotazione e contratti di solidarietà. Si può vincere e si può perdere, non illudiamoci, ma proporre a priori alla FIAT una soluzione che porti semplicemente a spalmare i soliti “sacrifici” senza cercare di intaccare il profitto… più che una azione di lotta ci sembra la solita iniziativa volta ad acquistare credibilità verso i lavoratori e il potere perduto in fabbrica. D’altronde non c’è da meravigliarsi, la FIOM quando venne presentato il piano Marchionne si era subito dichiarata aperta ad accettare gli aumenti di ritmo previsti, purché non venisse stralciato il precedente contratto.
Se dovessimo dar retta al linguaggio del nuovo profeta della “sinistra rottamatrice” dovremmo rottamare Marchionne reo di aver assunto un comportamento anti operaio e anti sindacale. Dovremmo rottamare Monti e il suo Governo tecnico responsabili di questa ben più grave “macelleria sociale”.
Dovremmo rottamare tutti i sindacati e il loro ruolo di pompieri nei confronti del mondo del lavoro. Certamente, da qui bisogna partire, ma la rottamazione vera da fare è quella del capitalismo, delle sue devastanti crisi che tutto questo impongono indipendentemente dalle forme, dai personaggi e dai Governi che le interpretano.
– FD
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