Ancora crisi in Medio Oriente

Il braccio di ferro tra Hamas e Israele si è concluso, temporaneamente, con una “vittoria” per tutti. Netaniahu in prossimità delle prossime elezioni ha raggiunto un importante risultato. Ha mostrato di essere il falco di sempre, di essere il degno successore di Sharon, l'uomo del destino del popolo d'Israele. In termini elettoralistici ha voluto mostrare con la forza che la sicurezza della nazione risiede nelle sue mani, nella feroce determinazione contro chiunque osi mettere in discussione i confini dello Stato. Come dire che le ambiguità e le disponibilità al dialogo, precedentemente praticate dal partito laburista e da Kadima, non portano da nessuna parte, ma che l'unico partito attorno al quale occorre fare quadrato è il Likud e che qualsiasi altra strada, che non sia quella della forza, è destinata a consegnare il paese di Davide nelle mani del nemico palestinese e non soltanto. In chiave internazionale, la breve guerra contro Hamas, e la relativa accettazione di una tregua, ha riannodato i fili che indissolubilmente legano Israele agli Usa, concedendo al presidente Obama di dichiarare senza remore e tentennamenti l'incondizionato appoggio alle rappresaglie via cielo e via mare contro la città di Gaza.

Per Hamas, nonostante i 160 morti civili e i devastanti bombardamenti che hanno distrutto interi quartieri, è stata l'occasione per inneggiare alla “vittoria”. La farsa non ha come obiettivo primo quello delle elezioni a Gaza, perchè non all'ordine del giorno, bensì quello di mostrare al popolo palestinese che solo il suo braccio armato, le brigate Ezzedein al Kassam, possono affrontare con successo l'esercito sionista. Più nello specifico, la dichiarazione di “vittoria” assume il significato di sfida politica nei confronti della Anp di Abu Mazen, dei suoi cedimenti nei confronti di Israele e degli Stati Uniti, in una sorta di implicita denuncia del tradimento del nazionalismo palestinese.

Anche per il neopresidente egiziano Morsi la guerra di Gaza ha presentato delle inaspettate opportunità. Il post “Faraone”, il dopo Tantawi, che tanti timori e perplessità aveva suscitato con la schiacciante vittoria nelle ultime elezioni del suo partito islamista, oltretutto appoggiato dall'ala radicale del fondamentalismo salafita, doveva riguadagnare consensi sia all'interno della Lega araba, sia sullo scacchiere internazionale del disastrato Medio Oriente. Dopo le prime ambigue dichiarazioni con le quali Morsi annunciava di voler rispettare tutti gli accordi (con Israele e gli stati Uniti) e quello di Camp David in primis, aveva aggiunto che si sarebbe riservato la possibilità di rivedere alcuni punti. Come dire: se gli Usa continuano a finanziarie l'esercito anche senza Tantawi e a considerare l'Egitto del dopo Mubarak un fedele alleato, non succederà assolutamente nulla, se invece il nuovo regime egiziano venisse messo in un angolo, allora i vecchi equilibri potrebbero saltare. Tenendo ben saldo il piede in due scarpe, Mohammed Morsi, mentre dichiarava alla nazione che l'Egitto non avrebbe mai abbandonato i fratelli palestinesi di Hamas, che avrebbe riaperto il valico di Rafah per favorire i profughi - ma contemporaneamente ha chiuso tutti i cunicoli che collegano il Sinai a Gaza per inibire il passaggio di armi e miliziani jihadisti - si prodigava sul terreno negoziale per dare una soluzione pacifica al conflitto, per mostrare agli Usa che potevano fidarsi di lui.

In aggiunta, va rilevato un fattore di straordinaria importanza nei rapporti tra Egitto e Israele, il gasdotto di el Arish che dal Sinai porta il gas nella città israeliana di Ashkelon sul Meditterraneo. L'Arab Gas Pipeline è un gasdotto che parte da el-Arish, nella parte settentrionale del Sinai, e che si divide in due bretelle. Quella principale attraversa il Golfo di Aqaba, nella parte meridionale del Sinai, costeggiando a nord il fiume Giordano e rifornendo di gas la Giordania, il Libano e la Siria. La seconda bretella, quella di el-Arish-Ashkelon, costeggia la Striscia di Gaza, arriva in Israele in virtù di un contratto stipulato nel 2005 e entrato in vigore nel marzo del 2008, tra l'impresa israeliana Israel Electricity Corporation e l'egiziana East Mediterranean Gas Company (EMG). L'accordo israelo-egiziano prevede che l'EMG soddisfi le necessitàenergetiche d' Israele con l'erogazione, ogni anno, di 1,7 miliardi di metri cubi di gas naturale per la durata di quindici anni. Inoltre, è prevista la possibilità di aumentare l'erogazione di gas del 25% e di prorogare il contratto per altri cinque anni. Gasdotto che, peraltro, ha subito seri danneggiamenti da parte di elementi jiadisti, tanto che ha dovuto essere chiuso per tre mesi dopo i sabotaggi subiti, mettendo in serio pericolo il 40% dell'approvvigionamento energetico israeliano.

È pur vero che il governo di Tel Aviv sta disperatamente tentando di colmare le sua atavica mancanza di materie prime energetiche sfruttando i giacimenti offshore di gas naturale di Dalit, Tamar e Leviathan nello spazio marittimo al largo di Haifa. I giacimenti in questione sono già stati esplorati da una joint venture guidata dalla compagnia israeliana Delek e dalla texana Noble Energy; ma la possibilità è ancora remota, dato il contrasto con il Libano e Cipro (la parte turca) e dalla stessa Turchia che rivendicano i medesimi giacimenti. Per cui il gasdotto el Arish-Ashkelon continua ad essere il principale problema per Israele.

In questo senso, la “piccola guerra di Gaza” ha avuto come aspetto centrale, ancora una volta, la questione energetica. Per Israele era assolutamente necessario ribadire che i rifornimenti energetici dovevano continuare ed essere sicuri da qualsiasi attacco e che il governo Morsi si sarebbe dovuto rendere garante, anche nei confronti di Hamas come di qualsiasi altra forza integralista, cosa che il nuovo “faraone” ha mostrato di voler fare.

Che poi a rimetterci siano stati i soliti civili, bambini, operai, contadini, lavoratori e diseredati di vario tipo, ha poca importanza nella logica degli opposti interessi nazionalistici.

Tutto ciò non fa che alimentare l'odio tra israeliani e palestinesi, gettandoli sempre di più fra le braccia o degli intergralisti di Hamas o del Likud, allontanandoli dalla prospettiva internazionalista, per l'abbattimento delle frontiere e il superamento della società divisa in classi.

Ancora una volta, dunque, la guerra risulta essere l'arma migliore delle borghesie per dividere i proletari, metterli gli uni contro gli altri e fomentare il nazionalismo.

Contro l'aggressione militare israeliana, contro il nazionalismo di Hamas, per l'unione dei lavoratori e dei diseredati israeliani e palestinesi, per una società senza classi né frontiere occorre riprendere il cammino della lotta di classe, unica soluzione alla devastazioni belliche, agli egoismi nazionalistici, al capitalismo ansimante ma che ancora semina terrore e morte.

FD
Giovedì, November 22, 2012