Sui fatti del 14 novembre a Roma

Il 14 novembre scorso si è tenuta in tutta Europa una giornata di sciopero e protesta contro l'austerity e la crisi. Tale giornata è stata organizzata dal CES (Confederazione Sindacale Europea, alla quale in Italia aderiscono CGIL, CISL e UIL) e ha assunto volti piuttosto diversi da paese a paese. Oltre la CGIL, in Italia a rispondere all'appello sono stati principalmente i Cobas e gli studenti. Questi ultimi, attraverso i vari collettivi, hanno dato vita a mobilitazioni e a contestazioni, con forme anche piuttosto dure, in tutta la penisola e specialmente a Roma, dove sull'onda di occupazioni e proteste come non se ne vedevano dal 2008, ha portato in piazza circa 50000 ragazzi e ragazze. Ed è proprio tra di loro, nella Capitale, che abbiamo cercato di portare il nostro contributo e le nostre proposte politiche internazionaliste (prima che il corteo finisse a scontrarsi con la polizia).

Arrivati in piazza abbiamo subito notato il carattere piuttosto "chiuso" della manifestazione. La presenza degli studenti era tanto numerosa quanto poco permeabile a proposte e interventi che non venissero da dentro il corteo, ossia i soliti slogan triti e ritriti. La presenza di indirizzi politici era, infatti, praticamente nulla. Faceva eccezione qualche bandiera italiana e fumogeni tricolore (a conferma del fatto che, in assenza di chiare proposte politiche anticapitaliste, siano quelle nazionaliste a farla da padrone).

Cercando di prendere contatto coi ragazzi, megafonando nel corteo e parlandoci, abbiamo notato immediatamente una sorta di dualismo: da un lato una chiusura nettissima a qualsiasi proposta politica, a qualsivoglia indicazione rivoluzionaria. Una sorta di aggressività preventiva. Un attento servizio d'ordine coadiuvava questo aspetto, vigilando affinché nessuno slogan uscisse dai ranghi, nessuna bandiera sventolasse agli occhi delle telecamere (tranne ovviamente il tricolore), nessun volantino o giornale esterno venisse fatto circolare. Tale chiusura però era viziata dal pregiudizio, frutto del pesante dominio ideologico borghese. Abbiamo notato infatti come veicolando gli stessi identici concetti con la bandiera e poi senza di essa, la risposta dei ragazzi fosse molto differente. C'era una chiusura fatta di pregiudizi verso i simboli (falce e martello), verso i termini ("comunismo", "proletariato", ecc...) e le bandiere, ma non una chiusura verso le proposte, verso le frasi scandite al megafono, che anzi sono state applaudite più volte. Dall'altro lato abbiamo invece notato, da parte di una percentuale minore di studenti, tutto l'opposto: si congratulavano per la nostra presenza, chiedevano a gran voce indicazioni politiche, si lamentavano con noi per l'assenza di cortei "rossi" e perché nel corteo non c'erano proposte anticapitaliste e di indirizzo rivoluzionario. Un dualismo dunque che deve farci riflettere profondamente sul livello di disinformazione storica che questo sistema ha prodotto nel proletariato e, al tempo stesso, farci acquisire una prassi sempre più efficace per comunicare con esso.

Dopo essere stato spezzato e diviso a Piazza Venezia, il corteo si è diretto in maniera scomposta verso Lungotevere dove, tentando apparentemente di avvicinarsi al Parlamento oppure con l'intento di raggirare le forze dell'ordine (secondo quanto riferito da alcuni ragazzi), si è ritrovato raggirato a sua volta e in trappola, ricevendo una repressione che dire feroce è dire poco. A fine giornata si contavano quasi dieci fermi tra i manifestanti e decine di feriti.

Queste dinamiche di piazza, che ormai si ripetono da molto tempo, sono assolutamente controproducenti e dannose, come abbiamo notato anche stavolta e come andiamo ripetendo da anni. Ovviamente la nostra non è una presa di distanza dagli “atti violenti” in stile morale o pacifista, così come ci teniamo a ribadire che per noi la vera violenza è quella che ci viene proposta tutti i giorni da questo barbaro sistema economico e sociale, la nostra è semplicemente una valutazione politica degli eventi. Scontri simili, ovvero fini a se stessi, non innalzano la coscienza di classe e non danno fastidio al sistema, anzi, spaventano i ragazzi che tornano a casa malmenati provocando in loro un comprensibile moto di paura e rigetto per tali “violenze” e per le manifestazioni. Non solo: mettono lo Stato nella condizione di reprimere al meglio perché la condizione per esso ideale, che meglio sa gestire, è proprio quella che abbiamo visto in quest'occasione (così come fu per il 14 dicembre 2010 e per il 15 ottobre 2011, seppur con numeri e dinamiche differenti): la manipolazione e la repressione della piazza "violenta".

Gli scontri hanno assunto infatti forme “estreme” anche per il chiaro intendo da parte dello Stato di andarci giù pesante. In molte città – e questa non è una novità–la Polizia ha messo in campo forze e metodi del tutto sproporzionati rispetto al “pericolo” che stava affrontando. Molti i giovani completamente inermi brutalmente caricati. Lo Stato ha voluto mostrare i muscoli, così come del resto aveva fatto pochi giorni prima contro i lavoratori dell’IKEA. La borghesia fa del ricorso alla repressione medesima un'arma preventiva per intimidire e scoraggiare qualsiasi voce fuori dal coro: la crisi morde e morderà, l'unico intervento che lo Stato borghese può garantire è il bastone, visto che le carote sono finite o appassite.

Arrabbiarsi è sacrosanto, ma tale rabbia deve essere incanalata in maniera politicamente produttiva e non solo distruttiva. Serve a poco manifestare davanti al parlamento quando questo è solo il comitato che difende gli interessi della classe dominante: gli studenti dovrebbero porsi con maggior forza il problema di andare alle periferie, di coinvolgere i proletari che sono colpiti dalla crisi per sviluppare quella lotta di classe, a partire dai luoghi di lavoro e dal territorio, che sola potrà mettere in discussione il capitalismo e la sua crisi. La violenza insomma è immanente al sistema, ma una cosa è difendere un corteo, difendere una lotta, essere determinati a raggiungere un obiettivo dal significato politico anticapitalista (e in questo caso la “violenza” della piazza è condivisibile), un’altra è dare vita a scontri per arrivare simbolicamente sotto il parlamento.

Inoltre, fino a che non sarà chiara la prospettiva della lotta di classe e della necessità di superare il capitalismo, ogni forma di conflitto, compreso lo scontro con le forze dell’ordine borghese, non potrà che collocarsi in un'ottica di riforma del sistema. Dare vita a scontri violenti non significa di per sé essere rivoluzionari, ma può significare anche il solo porsi con mezzi violenti sul terreno della riforma (in veste radicale) del sistema, indipendentemente dalle intenzioni soggettive.

Da ultimo, in mancanza dell'intervento attivo dell'avanguardia comunista, organizzata in partito, la rabbia che ribolle confusa (e abbiamo visto in questi mesi come tale fermento sia presente soprattutto fra i giovani), le generose fiammate di rivolta, sono destinate a essere riassorbite e/o represse dal sistema, senza poter compiere l'indispensabile salto di qualità in senso anticapitalistico.

Noi comunisti internazionalisti siamo stati e saremo sempre nelle lotte per innalzare il livello della lotta di classe e della coscienza rivoluzionaria dei proletari, fino a che questo infame sistema non sarà superato una volta per tutte.

Venerdì, November 23, 2012