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Home ›Egitto tra tensioni interne e collocazioni internazionali
Come previsto, il dopo Mubarak sta presentando una serie di problemi alla borghesia egiziana, sia interni che di carattere internazionale. La crisi, che aveva già pesantemente colpito l’economia egiziana, dopo gli avvenimenti di piazza Tahrir, ha ulteriormente aggravato le cose. La Borsa egiziana è precipitata negli abissi. In poche sedute i listini hanno perso il dieci per cento del loro valore e la caduta si è fermata solo grazie all’automatico fermo dei computer, altrimenti il crollo sarebbe stato ben più pesante. Negli ultimi mesi la disoccupazione è arrivata ai massimi livelli, l’inflazione galoppa, il Pil si è letteralmente dimezzato e le casse dello stato sono vuote al punto da non poter pagare gli impiegati pubblici. Il processo di pauperizzazione sembra non avere mai fine. Morsi, per tentare di uscire dalla depressione, ha urgente bisogno di almeno 14 miliardi e mezzo di dollari da versare nelle vuote casse dello stato. Per ottenerli, è costretto a corteggiare le principali istituzioni politiche e finanziarie internazionali dall'Unione Europea al Fondo Monetario, dai governi di antica a quelli di nuova alleanza. Come se non bastasse, lo scorso 24 Novembre Standard & Poor’s ha declassato a B+ i titoli di stato egiziani, facendo precipitare nel panico la nuova amministrazione
Nel frattempo, per far fronte alla drammatica situazione economica, lo stato egiziano è costretto a mettere mano alle riserve monetarie strategiche della sua banca centrale. In un solo anno della sua amministrazione le suddette riserve strategiche sono passate da 36 mld di dollari agli attuali 22. Nello stesso periodo, si sono volatilizzate tutte le promesse elettorali di migliori condizioni di vita, di occupazione e di sostegno all’economia. Si calcola che la crisi economica del dopo Mubarak sia costata la bellezza di 230 milioni di euro al giorno. E’ il baratro, le piazze si sono riempite di nuovo e il futuro della società egiziana è ancora da scrivere.
Il governo Morsi e il suo partito LG (Libertà e Giustizia) di ispirazione islamista, i suoi alleati salafiti, hanno pensato di risolvere le cose usando il braccio di ferro. Nello spazio di pochi mesi ha sciolto il parlamento, destituito Tantawi, ex capo dell’esercito e numero due del vecchio regime, ha ingabbiato la magistratura, si è attribuito, con un colpo di mano, poteri eccezionali e ha indetto un referendum sulla nuova costituzione basata sulla Sharia. (Il referendum, mentre scriviamo è ancora in corso, ma dovrebbe vedere un voto negativo da parte dell’elettorato delle grandi città, come il Cairo e Alessandria, mentre il progetto Morsi dovrebbe avere ascolto nelle città minori e nelle campagne, dove la fratellanza musulmana è più radicata). Le opposizioni si sono rimesse in moto dando vita ad un confronto scontro, tutto all’interno del “sistema paese”, tra il governo Morsi, gli antagonisti laici di Mohammed el Baradej e i quadri alti dell’esercito, che hanno sempre rappresentato, nel vecchio regime, il potere politico e quello economico, che conta tuttora per il 40% del Pil egiziano.
La complessa situazione interna deve però fare i conti con i (ri)assetti imperialistici internazionali. La profonda debolezza economica e le tensioni politiche costringono il governo Morsi a comportamenti non lineari, se non addirittura ambigui nei confronti delle pressioni da parte dei grandi centri dell’imperialismo mondiale che nell’area giocano le loro carte a suon di promesse e minacce. La base del partito islamico di LG, filiazione della Fratellanza musulmana che lo ha eletto plebiscitariamente, pretende una rottura con Israele, un atteggiamento antiamericano, la ridefinizione degli accordi di Camp David e un appoggio incondizionato al nazionalismo palestinese. Se così fosse, salterebbe il vecchio asse di alleanze tra l’Egitto gli Usa e Israele con tutte le conseguenze del caso, in termini politici, economici e di aiuti finanziari. Per cui Morsi è costretto a muoversi su più fronti, tentando di coniugare le spinte interne con le variegate pressioni internazionali. Con gli Usa un ipotetico, progressivo allontanamento, pur dilazionato nel tempo, comporterebbe la cessazione dell’ombrello militare americano, la rinuncia ai generosi finanziamenti di Washington, la perdita di quel minimo di sicurezza economica particolarmente necessaria in una fase di profonda crisi e, non ultimo, il ridimensionamento dell’esercito, da sempre struttura portante del capitalismo indigeno. Non per niente Obama ha esplicitamente fatto sapere a Morsi, attraverso la mediazione diplomatica di Illary Clinton, che i 480 milioni di dollari promessi a sostegno dell’economia egiziana a favore delle piccole e medie industrie, e il quasi miliardo e mezzo di dollari da sempre erogati a favore dell’esercito, potranno arrivare nelle esauste casse dello stato solo a condizione che le cose procedano come prima, ovvero che il nuovo governo si mantenga all’interno del quadro politico precedente, quello da Camp David in poi. Per il nuovo “faraone” l’alternativa è prendere o lasciare. Il che lo mette nella condizione di ammorbidire i toni, di mantenere lo “status quo” e di non operare lo strappo, dichiarando, al contempo, di costruirsi una parvenza di autonomia pur di mantenere il sostegno della sua base elettorale.
Sul mercato imperialistico però c’è la presenza di altri soggetti che pressano da vicino il nuovo governo. L’Ue che non ha esitato a tentare di cogliere l’occasione di un suo, anche se composito e articolato inserimento nell’area, promettendo finanziamenti di oltre 4 miliardi di euro per garantirsi delle entrature nel corridoio egiziano, premessa per affari economici e finanziari, che i suoi più attrezzati componenti ambiscono di concludere al più presto possibile.
Altro attore che preme alle porte del Cairo è la Cina. Il 29 agosto 2012 Il presidente egiziano Mohamed Morsi ha scelto, non a caso e con un seguito di 80 imprenditori egiziani, di visitare la Cina nel suo primo viaggio ufficiale al di fuori dei confini arabi , con il dichiarato obiettivo di stabilire nuovi rapporti e di potenziare quelli già esistenti con Pechino, per avere aiuti finanziari, investimenti e una sponda politica di sicuro affidamento. Hu Jintao, omologo di Morsi, ha ovviamente apprezzato la mossa del governo egiziano, esaltando la necessità del rafforzamento dei rapporti bilaterali quale premessa ad uno sviluppo economico intenso e duraturo. L'interscambio commerciale tra i due Paesi, che nei fatti rappresenta le esportazioni della Cina verso l’Egitto, è arrivato a sfiorare i dieci miliardi di dollari nell’ultimo anno, con un incremento di oltre il 50% rispetto ai due anni precedenti. La Cina ha anche promesso prestiti e investimenti nel settore agricolo, in quello del turismo, nelle telecomunicazioni e nella ricerca scientifica. Inoltre Pechino si è impegnata a fornire al Cairo attrezzature di vario genere e autovetture per le forze di polizia e la China Development Bank ha sottoscritto un accordo per un prestito di 200 milioni di dollari alla Banca Nazionale Egiziana.
Al viaggio in Cina è seguito quello in Iran per la riunione dei paesi cosiddetti non allineati. Altro significativo passo verso nuove alleanze, anche se non definite come tali, ma che mostra il tentativo di Morsi di dare un colpo al cerchio e uno alla botte per non perdere ciò che ha sul piano dei vecchi aiuti internazionali, senza perdere l’occasione di averne di nuovi.
E’ il difficile equilibrio tra le necessità interne e la complessa collocazione sullo scenario imperialistico mondiale che preme, che lusinga o minaccia, a seconda dei vecchi o nuovi rapporti. E’ il barcamenarsi tra le spinte del suo elettorato e i rapporti con l’Iran e Israele, tra le minacce degli Usa e le lusinghe della Cina. Tra Ue e Fmi, tra le pressioni dell’Arabia saudita e quelle del Qatar che ha già versato un contributo di 500 milioni di dollari allo stremato Egitto.
E’ nella logica del capitalismo che i riposizionamenti borghesi dell’ala islamista di Morsi con i suoi contorcimenti, che le rivendicazioni democraticistiche dell’opposizione laica che si propone come alternativa all’attuale governo, rappresentate del leader nasseriano Hamdin Sabbahi, di Mohamed el Baradei e Amr Mussa siano tutti all’interno di un quadro nazionale e nazionalistico, che oscilla tra la feroce reazione del primo e la “illuminata” conservazione dei secondi. In entrambi i casi si configura inevitabilmente un allineamento con l’imperialismo di turno, variabile solo a seconda delle opportunità economiche e politiche prioritarie che i due schieramenti ritengono di perseguire. In mezzo, l’esercito con il suo enorme peso che agisce da ago della bilancia sia per le questioni interne che per quelle internazionali.
Intanto, è nella logica della cose che tutto questo può andare avanti, in un senso o nell’altro, se non c’è l’inizio di una opposizione che si collochi fuori dagli schemi delle fazioni borghesi e che inizi a porre i problemi in termini di lotta di classe, di anti capitalismo, combattendo la gabbia religiosa dell’islamismo al pari dell’inganno laicista.
In questi giorni di dicembre qualcosa si è mosso. Scioperi a ripetizione si sono svolti nell’area economica legata ai traffici commerciali del canale di Suez. Il 7 di dicembre, nella più grande fabbrica tessile egiziana di El Mahalla El Kubra, è esploso uno sciopero di massa che ha coinvolto gli operai di altre sette fabbriche del settore. Secondo alcuni resoconti, in aiuto degli operai tessili sono arrivati consistenti nuclei di lavoratori ospedalieri e studenti che hanno occupato il municipio, hanno bloccato le entrate della città e fermato i treni in entrata e uscita. Hanno inoltre dato vita a comitati di lotta fuori e contro i sindacati ufficiali, dichiarando di voler assumere un atteggiamento di distacco dallo Stato egiziano.
Nell’arido terreno politico della “primavera araba” in stile egiziano, episodi che vedano l’affacciarsi di una ripresa della lotta di classe in settori importanti del proletariato egiziano, è da salutare con entusiasmo. Innanzitutto è positivo che frange significate di proletariato abbiano avuto il coraggio di alzare la testa e di battersi contro le angherie del nuovo regime. E’ anche positivo che le lotte siano partite al di fuori del controllo dei sindacati individuati come controparte e non come difensori degli interessi di classe, come è politicamente rilevante che abbiano richiesto e ricevuto solidarietà da parte di altri proletari. Ma di questa lotta vanno anche denunciati gli inevitabili limiti. Va infatti sottolineato come i lavoratori di El Mahalla, dopo aver superato l’intralcio dei sindacati istituzionali e presa nelle proprie mani i destini della lotta, si siano riorganizzati all’interno di nuovi sindacatini rimanendo all’interno di una prospettiva rivendicativa, anche se radicale sul terreno delle richieste economiche e nelle modalità di lotta per raggiungerli. Sempre che le informazioni circolate siano vere, lo sciopero ha posto la questione delle gestione autonome della fabbrica senza porre minimamente la questione di uno scontro contro il sistema economico se non, e questo se è vero è sintomo di una gravissima arretratezza politica, per dichiarare una sorta di secessione nei confronti dello Stato egiziano.
Tutto ciò indica chiaramente quattro cose.
- Che se non tutte le crisi economiche spingono alla lotta le masse proletarie, non c’è il muoversi di queste che non abbia alle spalle il propellente della crisi.
- Che quando le lotte partono si collocano inevitabilmente su di un terreno rivendicativo ed economicistico, anche quando prendono le distanze dai sindacati ormai collusi con il sistema economico di cui hanno accettato l’impianto generale e le sue necessità di sopravvivenza.
- Che inevitabilmente qualsiasi ripresa della lotta di classe, anche la più dura e determinata, finisce per essere sconfitta dalla repressione o riassorbita all’interno del sistema se rimane senza una prospettiva politica.
- Oggi in Egitto e in qualsiasi paese arabo, domani in Europa o in un qualunque paese del mondo, se alle lotta manca una visione anticapitalistica, una tattica e una strategia rivoluzionarie, se cioè manca lo strumento politico della lotta di classe, anche le rivolte più generose del proletariato sono destinate al fallimento.
Il piccolo ma significativo episodio dei proletari di El Mahalla dicono questo: è l’ora storica del partito rivoluzionario internazionale, affinché i futuri episodi di ripresa della lotta di classe non rimangano sul terreno della rivendicazione, del nazionalismo economico, ma diventino le piccole tessere del futuro mosaico della rivoluzione internazionale.
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