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Home ›A proposito del Si Cobas e del sindacato di classe
Con questo articolo intendiamo chiarire la nostra posizione rispetto al Si cobas, sia per ribadire una coerente prospettiva comunista e rivoluzionaria sia per evidenziare come la forma sindacato sia ormai inutilizzabile per la difesa delle condizioni proletarie. Anche perché da quando è apparso sulla scena politica tanti compagni l'hanno preso come punto di riferimento, per quanto riguarda le lotte dei lavoratori, intravedendo in esso il prodromo del fantomatico sindacato di classe. Il nocciolo della questione probabilmente è proprio questo: può esistere un sindacato di classe? Cercheremo di rispondere prendendo in considerazione sia la natura, l'evoluzione storica ed i limiti del sindacato, sia l'esperienze più significative messe in campo dalla nostra classe. Inoltre cercheremo di comprendere la natura stessa di questa organizzazione, attraverso l'analisi valutativa di ciò che esprime politicamente, di come si muove ed agisce e delle sue finalità.
Partiamo da un'affermazione dei compagni del Si Cobas.
Cosa vuole il Si cobas? Dal manifesto inaugurale “Tentare di costruire una rappresentanza, sindacale innanzi tutto”.
Per valutare la giustezza o meno del terreno scelto dal Si cobas, “per la prospettiva anticapitalista”, dobbiamo fare un breve excursus sul sindacato e la sua evoluzione storica.
Il sindacato
Tutti i compagni che seguono la nostra stampa e le nostre pubblicazioni probabilmente già conoscono il nostro punto di vista sul sindacato, inteso come organismo permanente dedito alla contrattazione con i padroni della vendita della merce forza lavoro. Organismo di mediazione tra le classi che, quindi, non mette in discussione il rapporto capitale lavoro ma che anzi si preoccupa di gestirlo, inizialmente negli interessi proletari, ovvero di strappare concessioni e migliori condizioni di vendita della merce umana. In seguito, evolvendosi sulla base dei suoi stessi presupposti, con la fase imperialista del capitale si é integrato nello stato, è andato a gestire quel rapporto (tra capitale e forza lavoro) nell'interesse nazionale, quindi pur sempre di classe ma in termini rovesciati, poiché borghesi. Esempio storico il ruolo assunto dalla CGIL nella ricostruzione del dopoguerra. Gli interessi della nazione vengono prima di quelli proletari. Il sindacato, che in ogni caso non è mai, e ripetiamo mai, rivoluzionario - Lenin lo disse espressamente - diviene da strumento di difesa della condizione operaia, strumento di gestione della forza lavoro nell'interesse del capitale.
Detto ciò, sarebbe quantomeno scorretto e fuorviante non evidenziare le differenze che intercorrono tra i sindacati confederali e quelli di base, in generale, e tra quest'ultimi e il Si cobas, nella fattispecie, poiché, pur ritenendo superata la forma sindacato, quale forma organizzativa della lotta economica del proletariato, sbaglieremmo a considerare i sindacati tutti uguali. Vi è sindacato e sindacato. Ci sono quelli da decenni divenuti strumenti dello Stato, e quindi dei padroni, in seno al proletariato per difendere profitti, produttività e il famigerato “bene del paese”. Dal seno di questo tipo di sindacato escono, anche più infami, nuovi e spietati dirigenti aziendali (un esempio su tutti l'AD di trenitalia Moretti, ex CGIL). Poi vi sono i sindacati di base, un “oceano”, che, pur non potendo svolgere un ruolo fattivo in termini di firme e negoziazioni (a parte l'ex RdB, ora in USB, che ha apposto qui e là firme cosiddette tecniche...) si muovono su di un terreno
- corporativo (frammentando i lavoratori più di quanto già non siano, attraverso sciopericchi divisi per sigle e settori lavorativi)
- nazionalista (si pensi alla richiesta di investimenti nei loro settori di riferimento per rilanciare la competitività nazionale)
- assolutamente all'interno del quadro capitalistico, senza mai mettere in discussione il rapporto capitale-lavoro, fonte dell'irriducibile antagonismo fra la nostra classe e quella dei padroni.
In questo contesto, Si cobas sembra essere diventato, almeno nella logistica, il catalizzatore delle lotte operaie. Ma di ciò che esprime e delle sue differenze con noi torneremo successivamente.
Comunque, pur riconoscendo le differenze che intercorrono tra le varie sigle, dobbiamo ricordare come “la politica sindacale sia pur sempre la politica borghese della classe operaia” - per dirla con Lenin - e come, di conseguenza, il campo sindacale sia assai distante da quello rivoluzionario. Se il tuo fine è l'accordo, farai di tutto per trovarlo e non metterai mai in discussione le compatibilità del sistema. Questo anche se quell'accordo fosse peggiorativo, perché, ad esempio, la chiusura dell'azienda sarebbe peggiore; così i lavoratori perderebbero la possibilità di essere sfruttati e quindi rimarrebbero senza salario. Nelle vertenze, si arriva inevitabilmente al tavolo delle trattative e, spesso, ai conseguenti compromessi. Ma anche di fronte a situazioni capitalisticamente senza alternative, c'è compromesso e compromesso. Per quanto ci riguarda, da rivoluzionari rifiutiamo per principio ogni accordo che rompa la solidarietà e l'unità della classe – per esempio, l'accettazione, come preteso male minore, di “qualche” licenziamento – l'abbassamento del salario, la precarietà, ecc. Tuttavia, specificato questo, una cosa è accettare determinati compromessi, se i rapporti di forza non consentono di meglio, altra cosa è fare del compromesso – e spesso al ribasso – la propria politica e il proprio fine.
Questo è il principio direttivo di qualsiasi sindacato.
Le esperienze storiche del proletariato
Il sindacato non sarà la forma organizzativa attraverso la quale si esprimerà un’aperta rottura della “pace sociale”, neanche sul piano semplicemente rivendicativo. Questo, ovviamente, non significa che non ci sarà più lotta rivendicativa o che l’intervento dei comunisti nella lotta di classe proletaria abbia perso valenza, significa semplicemente che tale lotta si esprimerà attraverso altre forme organizzative.
Quali? La risposta - anche in questo caso - ci viene data dalla storia, dagli stessi lavoratori.
Tutti gli episodi di lotta in cui gli operai hanno difeso con forza i propri interessi autonomi di classe hanno visto questi stessi operai organizzarsi dal basso in organismi di massa che scavalcavano ogni forma d'organizzazione sindacale preesistente, o tendevano a ciò. Polonia '80, sciopero dei minatori inglesi, sciopero dei dockers in Danimarca e Belgio, lotte della siderurgia in Francia, le assemblee e i comitati di lotta durante la rivolta in Argentine (i comitati piqueteros); la protesta contro la legge del CPE in Francia del 2006, le stesse recenti proteste francesi contro la riforma delle pensioni, animate, nelle forme più conseguenti. non dai sindacati, ma dalle assemblee e dai comitati di agitazione. Ed ancora, gli “scioperi selvaggi” degli autoferrotranvieri in Italia (2003), la lotta degli operai della Fiat Melfi (2004: anche in questo caso, la FIOM fu tirata per i capelli dagli operai e assolse il solito compito di moderatrice della lotta, che, al solito, le riuscì), picchetti degli operai di Pomigliano decisi quotidianamente dalle assemblee fuori la fabbrica (2008), le lotte in Cina combattute negli ultimi anni.
In breve, sono tutti momenti in cui i lavoratori si sono trovati spinti dalla necessità di difendersi e superare i limiti organizzativi e politici che i sindacati opponevano loro. Il fatto che tutti quegli episodi siano rimasti tali, rifluendo spesso sotto il controllo di quella medesima istituzione che avevano scavalcato, ma che si ripetano ogniqualvolta i proletari si mettono in moto come tali, deve essere sufficiente a far capire a chiunque si pretenda comunista che quelle sono le forme di organizzazione di massa verso le quali i comunisti devono premere e sulle quali soltanto può esercitarsi la loro direzione politica.
Sull'autorganizzazione delle lotte
Quindi è l'esperienza storica della classe a mostrarci quali forme assume ed assumerà la classe stessa nella difesa delle sue condizioni di vita e di lavoro. Allo stesso tempo, rintracciamo, sempre nell'esperienza storica della classe, l'impossibilità di rendere permeanti questi organismi spontanei mantenendone immutati i contenuti e le finalità. Organismi che sorgono spontaneamente dalle necessità della classe di lottare, con il rifluire della lotta stessa perdono la loro causa originaria e si trasformano in organismi burocratici e coscientemente riformisti, perché alle necessità della lotta, ora assente, sostituiscono le necessità di sopravvivenza dell'organismo medesimo, che in regime capitalistico non può che assumere la forma sindacale. Da organismo di lotta ad organismo di conservazione il passo è breve.
Organismi di difesa e partito rivoluzionario
Gli organismi della lotta economia devono sorgere ed esaurirsi sulla necessità della lotta, che si vinca o che si perda. Dal nostro punto di vista i proletari non hanno bisogno di organismi burocratici dediti alla contrattazione, ma hanno bisogno del loro protagonismo, che non può che esprimersi nei momenti di conflitto, attraverso comitati di lotta sorti dalla loro volontà di non sottostare ai dettami padronali. Questi organismi di autodifesa proletaria devono esaurirsi con l'esaurimento della lotta stessa. Il partito deve premere affinché i proletari si svincolino dai sindacati e mettano in campo il loro protagonismo, autorganizzandosi in comitati ed assemblee, e allo stesso tempo deve rilanciare la necessità di un'alternativa sociale e quindi necessariamente della sua guida politica: il partito.
Qualsiasi lotta, anche la più dura, può terminare solo in due modi: o rafforzando il domino del capitale o rafforzando il movimento reale che di questo domino si vuole sbarazzare. Da una parte, quindi, troviamo gli organismi che la classe si dà per difendersi, che nascono e muoiono con le lotte, dall'altra lo strumento politico di classe, che deve essere permanente ed operante a prescindere dalla presenza di lotte. Nel mezzo, tra partito e classe, si collocano gli strumenti attraverso il quale il partito si radica nella classe (GIFT: Gruppi comunisti internazionalisti di fabbrica e di territorio), al fine di conquistare organizzativamente gli elementi più coscienti alla causa socialista.
Purtroppo, non si può dire che il Si cobas faccia questo, anzi. Pur utilizzando una fraseologia rivoluzionaria, si attesta su di un piano economicista. In primo luogo, perché fa politica sul solo terreno economico. Il suo sindacalismo, pur essendo radicale, è pur sempre sindacalismo, quindi, politica borghese della classe operaia. Uno dei suoi aspetti peggiori – con l'aggravante di trascurare lo stato oggettivo del processo di accumulazione: sviluppo o crisi, il che non è secondario – è quello di indurre i lavoratori a credere che attraverso una generalizzazione della lotta le condizioni proletarie possano migliorare e che lo scontro di classe sia esclusivamente finalizzato a questo obbiettivo, fermo restando il lavoro salariato, dimenticando completamente la questione della rivoluzione. Un'impostazione assolutamente gradualista, dove si individua l'aspetto economico come prioritario su quello politico.
Sulla ricomposizione di classe
...con lo scopo precipuo di comprendere, imparare e soprattutto invertire la tendenza alla frammentazione sociale imposta dalla classe padronale (e dai loro ruffiani) in questi decenni.
Dal Coordinamento a sostegno delle lotte della logistica
Il problema dei sindacati è che hanno come fine del loro essere la mediazione. Ma quando gli spazi di mediazione sono praticamente assenti, e diventa palese la necessità di superare il capitalismo per potere vivere dignitosamente, che senso ha costituire un altro sindacato se non perpetuare nella classe l'illusione di una condizione diversa nel capitalismo? Forse l'errore che soggiace all'impostazione del Si cobas è quello di credere eccesivamente ad una possibile ricomposizione di classe sul terreno squisitamente economico. Ma è la stessa dinamica capitalistica a negare tale ricomposizione.
Negli ultimi trenta e passa anni la nostra classe è stata completamente smembrata e divisa attraverso una miriade di espedienti: dalla precarietà alla nascita di decine di nuove tipologie contrattuali (oltre ad un massiccio utilizzo del lavoro nero e del caporalato), che, differenziando posizioni, livelli e retribuzioni, mettono i lavoratori gli uni contro gli altri. Una solida ricomposizione della classe, tale da porre in prospetiva il proletariato come soggetto di trasformazione della società, può avvenire solo sul terreno politico, attraverso il radicamento del partito tra le fila proletarie. È per ciò fondamentale, oggi più che mai, la costruzione e il rafforzamento del partito rivoluzionario e non di un sindacato, perché la prospettiva storica non è migliorare le condizioni dei salariati ma l'abolizione del lavoro salariato.
Nel documento citato prima si legge:
La vertenza Ikea ha certamente superato i confini nazionali, ma lancia soprattutto un segnale a chi lotta e a tutta la classe lavoratrice con la consapevolezza che per fare dei passi avanti generali e complessivi occorre non rimanere nel singolo orticello.
Per fare dei passi verso cosa? La risposta ce la danno gli stessi autori dell'articolo:
È in tal senso che vogliamo lanciare per inizio febbraio un assemblea di confronto (a Piacenza?) che sia capace di fare il punto sulle lotte sociali, partendo dalla specificità delle cooperative per arrivare ad un confronto generale con i vari comitati di lotta in grado di fare un passo avanti verso la messa in rete delle varie forme di conflitto.
Eccoci al punto! L'obiettivo è, per usare le parole degli autori,
la messa in rete delle varie forme di conflitto...
ma ovviamente sotto il cappello del Si cobas! Infatti, là dove si è parlato di unificare le lotte, l'unificazione, o il suo fallimento, non è passata per la volontà dei lavoratori coinvolti, ma è sempre stata frutto delle trattative tra le dirigenze delle varie sigle. Non unione proletaria ma, bensì, fronte sindacale.
Dulcis in fundo,
Ogni lotta per i diritti e per la dignità è la lotta di tutti.
Diritti e dignità? In un momento storico in cui i padroni ci tolgono anche le mutande rivendicare diritti (borghesi) non vuol dire altro che muoversi sul terreno economicista, sindacale, in sostanza portare avanti la politica borghese della classe operaia. Non significa altro che riformismo, perché si fa credere alla classe che all'interno dei rapporti dati – ripetiamo: dai padroni - ci siano le possibilità di “diritti e dignità”, quegli stessi “diritti” che i padroni, prima, in accordo coi sindacati, ci hanno graziosamente concesso per farci star buoni (visto che l'effervescenza operaia, rischiava di sfuggire di mano), ma che oggi non possono più riconoscerci, e quella stessa dignità che il lavoro salariato non potrà mai garantirci.
Insomma, invece di denunciare l'impossibilità nel capitalismo di una reale libertà, di un reale soddisfacimento dei nostri bisogni, della impossibilità di vivere una vita dignitosa per noi lavoratori, e di conseguenza propagandare la necessità di organizzarsi per il superamento di questo sistema, si persevera nell'errore. Gli anni settanta sono li a dimostrare come qualsiasi conquista sindacale (ammesso, naturalmente, che si possa parlare di conquista), dallo Statuto dei Lavoratori all'art 18, non sia altro che conquista effimera e temporanea, e così sarà finché il proletariato non conquisterà il potere.
Come agisce il Si cobas?
Là dove abbiamo potuto tastare con mano le pratiche del Si cobas dobbiamo rilevare che:
- a Pioltello come a Piacenza ed altrove, la lotta è partita dai lavoratori, ma il comando delle operazioni è stato preso dal sindacato;
- l'assemblea quotidiana che veniva spacciata per momento decisionale non era altro che il momento della comunicazione dei passi successivi, priva di qualsiasi potere decisionale;
- la linea politica veniva decisa dai delegati sindacali, inclusi...
- tempi dello sciopero (quando chiudere)
- rivendicazioni (reintegro, ccnl, gestione turni etc..)
- obiettivi.
In sostanza, la lotta partiva dai lavoratori che richiedevano la copertura legale all'unico sindacato che gliela avrebbe riconosciuta, in cambio di un loro tesseramento naturalmente. Una volta giunto sul posto, il Si cobas dettava la linea da seguire e decideva come e quando chiudere lo sciopero. Questo ha portato in certe circostanze (Piacenza), nelle quali i lavoratori volevano portare avanti la lotta, a dei duri scontri tra le volontà dei lavoratori stessi, a volte anche appartenenti al Si cobas, e quelle del sindacato.
Per quanto riguarda le rivendicazioni, dato che poi si parla di “vittorie”, andiamo a vedere cosa ha rivendicato il Si cobas. A Pioltello si è rivendicata l'applicazione di un ccnl firmato dalla CGIL, che prevede il non pagamento dei primi 3 giorni di malattia, oltre al rivendicare la possibilità del sindacato di mettere bocca sulla gestione dei turni e dei carichi di lavoro, praticamente chiedendo di cogestire lo sfruttamento proletario. Nella sostanza, si è rivendicato qualcosa che i padroni avevano già concesso (un contratto capestro), perché compatibile con le loro esigenze, ma che a causa della debolezza proletaria non era stato applicato.
Naturalmente, non intendiamo dire che il rispetto del contratto, per quanto scadente esso possa essere (e lo è), specialmente a fronte di condizioni ancora peggiori, semischiavistiche, sia una cosa da guardare con sufficienza. No. Vogliamo dire che anche le vertenze sindacali di un qualunque settore, per quanto radicali, non possono far altro che adeguarsi alle compatibilità del settore specifico e, più in generale, dello stato dell'economia. In più, il Si cobas ha battagliato per la rappresentanza sindacale all'interno delle cooperative, cioè, per diventare il legittimo mediatore tra gli interessi dei lavoratori e quelli dell'azienda.
Il Si cobas ha portato avanti anche un piano legale come se la giustizia borghese potesse difendere i lavoratori e i loro interessi. Si tratta di una prassi cui il salariato, in certi casi, è costretto e che percorre a titolo individuale. A questo livello, quindi, non ci scandalizza, ma non può essere teorizzata da chi, tra le righe, si propone non solo come sindacato “rosso”, classista, ma anche come organismo politico rivoluzionario. Politicamente la scelta di seguire le vie legali è un riconoscimento della giurisdizione borghese in materia di lavoro.
In conclusione
Le lotte che hanno visto il Si cobas protagonista sono esempi di come il sindacato non serva per lottare: sembra un affermazione contraddittoria ma non è così. Come esplicitamente dichiarato da vari lavoratori, delle diverse aziende della logistica che hanno messo in campo i picchetti, sono stati gli stessi lavoratori ad organizzarsi autonomamente per poi richiedere la copertura legale del Si cobas.
Questi eventi confermano le nostre tesi sull'autorganizzazione (delle lotte) e allo stesso tempo evidenziano come qualsiasi forma sindacale non faccia crescere la coscienza e l'organizzazione rivoluzionarie, ma ne impedisca lo sviluppo e il rafforzamento. Perché costituire un organizzazione che esprime una coscienza economica a cui i lavoratori posso giungere anche da soli, invece di fornire gli strumenti affinché gli operai maturino una coscienza rivoluzionaria a cui non possono pervenire da soli? Perché rinunciare al ruolo di avanguardia teorica politica e organizzativa comunista per fungere da mediatore della spontaneità operaia?
I lavoratori possono maturare spontaneamente la coscienza dell'opposizione dei loro interessi con quelli dei padroni, ma non possono pervenire alla coscienza di come superare tale antagonismo. Se ci si ferma a fare ciò che la classe è capace di fare anche da sola, non faremo un solo passo verso la costruzione del partito della rivoluzione, ma rafforzeremo soltanto l'idea che questo sia l'unico mondo possibile e che solo al suo interno vi possa essere un cambiamento.
I proletari non hanno bisogno dei sindacati per lottare, ma hanno bisogno del partito per fare la rivoluzione. Dobbiamo dare ai lavoratori ciò a cui da soli non possono giungere, vale a dire una chiara prospettiva di alternativa sociale, politica ed economica: il programma per il comunismo!
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