Brasile: anche all'interno dei BRIC si cominciano a vedere i segni della crisi e dello sgretolamento sociale

Fatte le debite differenze, i successi economici e politici di Chavez e Lula si sono essenzialmente basati su due fattori. Il primo sulla abbondanza di materie prime strategiche come il petrolio e, nel caso del Brasile, anche di miniere di ferro. Il secondo sulla possibilità di spendere le briciole di simili rendite a favore di un elettorato di riferimento che garantisse il potere in salsa populista, contrabbandata per socialismo, o qualcosa di simile. La crisi internazionale ha però mostrato la corda di queste esperienze, legate a forme diverse di capitalismo di Stato, nonostante le privatizzazioni operate in Brasile sotto la presidenza di Dilma Rousseff.

Le recenti dimostrazioni di piazza scoppiate in tutti i grandi centri, da San Paolo a Brasilia, da Belem alle città dell'interno, stanno a dimostrare un disagio economico e sociale che va al di là delle rivendicazioni stesse. Quello che molto frettolosamente era stato definito uno dei paradisi economici dei BRIC è diventato improvvisamente un inferno, le cui fiamme stanno incendiando l'intero paese. La miccia che ha innescato l'incendio è stata l'aumento del costo dei trasporti pubblici e le spese stanziate per l'organizzazione dei mondiali di calcio del 2014. In un paese in cui il gioco del calcio ha rappresentato da sempre “l'oppio del popolo”, questi episodi di rivolta diventano ancora più gravi e sintomatici di una realtà sociale pesante e carica di effetti imprevedibili.

Se si abbandona per un attimo la vetrina lucente dei recenti successi economici brasiliani e si affonda l'analisi dei fattori economici che hanno innescato le rivolte, la realtà appare più chiara e più drammatica, sia in termini di rallentamento della macchina produttiva che delle condizioni sociali della maggior parte della popolazione.

In primo luogo va constatato come la crisi internazionale non abbia risparmiato i BRIC né tanto meno il Brasile, non fosse altro per una drastica diminuzione delle esportazioni su cui il “miracolo” economico di Brasilia si è basato nell'ultimo decennio. Alcuni dati: il Pil è passato dal 6,3% del 2008 all'attuale 0,6. Un decremento notevole accompagnato da una riduzione, anche se meno rilevante, degli investimenti esteri. IL credito interno si è contratto a fronte di un forte indebitamento privato, sia delle imprese che delle famiglie. Il nuovo governo della Rousseff, delfino e presidente designato dopo Lula, ha pensato di rilanciare l'economia svalutando la divisa nazionale, il Real, ma la manovra non ha sortito gli effetti sperati e, in compenso, ha messo in seria difficoltà i salari e gli stipendi dei lavoratori. Il governo ha anche messo in atto la diminuzione degli incentivi fiscali per i consumi, favorendo l'indebitamento delle famiglie, e una manovra analoga ha diminuito l'ammontare dei salari minimi garantiti, che, accanto all'istituto della “Bolsa Familia” (che consiste nella concessione di mini crediti per mini attività economiche e sostegno per le spese scolastiche), erano il cavallo di battaglia del regime, ovvero del partito al governo (PT) sin dai tempi di Lula. Partito al governo che ha sempre operato in stretto rapporto con il gigante energetico Petrobras, vero perno di tutta l'economia nazionale, dispensatore di profitti e corruzione, concussione e posti di lavoro. Il patto tra il governo e il gigante energetico era semplice ed efficace sino a che le cose andavano bene. Il governo garantiva una sorta di monopolio alla Petrobras, ne assecondava economicamente e giuridicamente tutte le richieste, comprese quelle relative alle “necessità” di deforestazione e devastazione dell'ambiente per far passare i condotti di trasporto della “ricchezza nazionale”. In cambio, una parte della rendita petrolifera finiva nelle casse del partito al governo che si garantiva la continuità politica e gestionale del paese concedendo le briciole del “business” all'elettorato popolare, dei quartieri proletari e delle favelas, con aiuti economici, scolarizzazione dei figli e occupazione “garantita”.

E' bastato che il vento della crisi internazionale lambisse il paese amazzonico perché il fragile equilibrio, su cui si sono basate le fortune del capitalismo brasiliano e della relativa pace sociale, entrasse fragorosamente in crisi.

Nello spazio di cinque anni, come già detto, il Pil si è quasi azzerato. Le esportazioni non soltanto di petrolio, ma anche di ferro, soia e caffè sono sensibilmente diminuite. Nell'industria tessile la produzione è diminuita del 10%. Lo Stato sociale ha iniziato a subire i primi smantellamenti. I 110 miliardi di Real di finanziamenti alla Bolsa Familia si sono notevolmente ridotti. Al riguardo non ci sono dati ufficiali, ma è la stessa stampa interna a denunciare il fenomeno. Così come sta ondeggiando pericolosamente l'istituto del salario minimo garantito (garantito dalle briciole della rendita petrolifera in calo).

Mentre le briciole si riducono, la tavola del capitalismo brasiliano propone un “menù” dietetico per giovani e proletari. I poveri stanno aumentando in una società in cui la miseria è sempre stata all'ordine del giorno e non solo nelle favelas. Le grandi concentrazioni agricole hanno consentito di creare un “proletariato agricolo” numericamente ridotto a fronte di un contadiname che lavora nella grandi aziende agricole private a livello di quasi schiavitù. I salari sono bassissimi e, molto spesso, non bastano nemmeno per mangiare e dormire, per cui i lavoratori sono costretti ad indebitarsi con i padroni, diventandone una sorta di proprietà basata sul debito e sul ricatto. Il Brasile è uno dei paesi in cui il divario tra la concentrazione della ricchezza in poche mani e l'estensione della povertà raggiunge i massimi livelli. I più diseredati, come capitalismo moderno insegna, sono le donne e i giovani. A fronte di questa situazione, lo Stato ha preventivato di spendere miliardi di Real per l'allestimento dei campionati mondiali di calcio nel 2014. Miliardi che vengono sottratti alla sanità, alla scuola e ad altre voci di quello Stato sociale di cui il governo stesso si faceva vanto. In più, l'inflazione, arrivata a sfiorare il 6%, sta massacrando il potere d'acquisto dei salari e degli stipendi. Se è vero che negli ultimi dieci anni i salari sono mediamente aumentati del 700%, è pur vero che i prezzi dei beni di consumo sono aumenti del 1500%, ovvero di più del doppio. Oggi un lavoratore del pubblico impiego guadagna circa 1200 Real, ovvero poco meno di 400 euro al mese, mentre un operaio arriva a malapena a 300 euro.

E' in questo contesto che sono maturate le condizione per le proteste di piazza. A nulla è valso il ritiro della norma sull'aumento del prezzo dei biglietti per il trasporto pubblico e le promesse televisive della Presidentessa. Ben altro bolliva nel calderone della società brasiliana, e forse siamo solo all'inizio.

FD
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Domenica, June 23, 2013