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Home ›Lettera da una fabbrica dell'Italia del nord
Pubblichiamo molto volentieri questa corrispondenza di fabbrica che ci viene da un giovane compagno: molti, indipendentemente dal luogo di lavoro in cui sono costretti a vendere la loro capacità lavorativa al capitale, si riconosceranno in questo quadro.
Entrando, forti rumori continui ed un penetrante odore di plastica bruciata riempiono il cervello. In questa stagione, c'è un caldo che gli stessi operai dicono difficile da sopportare. Ci sarebbero le ventole, ma il padrone ha deciso che, visto il momento di crisi, si può risparmiare su questo. In questo momento, ogni piccolo sacrificio del proletariato è utile ai padroni. Bisogna stare attenti a camminare entro l'area pedonale definita dalla striscia continua, e fare attenzione a come si cammina in generale perché diversi muletti girano veloci trasportando carichi ingombranti. Tutto intorno, centinaia di macchine e a fianco ad ognuna di queste un operaio, che continua a fare la stessa cosa. Considerando le pause, continuerà a fare quella stessa attività per almeno 7 ore. Tranne i capiturno. I capiturno si godono quel po' di libertà che gli è concessa dopo anni della stessa schiavitù che stanno vivendo i loro sottoposti. Il loro ruolo si potrebbe paragonare a quello del secondino. Intravvedere i miseri vantaggi del piccolo borghese spesso li porta a diventare autoritari e severi, dimenticando di aver subito lo stesso fino a poco prima. Dalla macchina non ci si può muovere senza chiedere al capoturno.
Camminando per i reparti, ci si imbatte in alcuni pannelli a cui sono attaccati dei grafici che riportano dati riguardanti la produzione. A seconda dello scostamento dell'andamento reale dalle aspettative, ci sono delle faccine, che possono essere tristi, indifferenti o allegre. La faccina relativa alla produttività del personale non è mai allegra. Ma anche gli operai non sono molto allegri, tra la recente minaccia di delocalizzare in Romania, scampata poi in cambio della rinuncia alla quattordicesima per le nuove assunzioni (risparmiando così inoltre su un discreto numero di interinali, i quali vengono effettivamente assunti in media una volta a settimana), gli stipendi da fame, il lavoro duro e altre cose, di minore importanza volendo, ma che contribuiscono sempre a peggiorare le condizioni lavorative degli operai. Come il divieto di fumare all'interno dei cancelli dello stabilimento, così da essere costretti per fumare ad andare sulla strada in mezzo al cemento, con un caldo insopportabile d'estate e freddo d'inverno. Un incentivo coatto ad aumentare la produzione. Come anche i servizi igenici nel reparto produttivo. Bagni con la “turca”, ovviamente, in un tugurio. Spesso si trovano intasati.
Un giovane operaio, un ragazzo alle prime esperienze di fabbrica, finito il turno si sfoga dicendo che era uscito per prendere un po' d'aria, perché il caldo era diventato insopportabile, e non si sentiva bene. Il capoturno l'ha ripreso subito, dicendogli che non può muoversi dalla macchina senza chiedere. Gli viene spontaneo, parlandone, di accostare quella fabbrica ad una prigione. Dice che lì dentro c'è gente psicotica (testuali parole) che parla da sola. Sono gli effetti dell'alienazione, quello stato degradante in cui versano gli operai che devono per ore e ore continuare a fare la stessa cosa, sempre la stessa cosa.
Oggi si tende a pensare che le condizioni di lavoro siano migliorate, perché questo l'ideologia borghese ci mette davanti agli occhi. Fino a qualche anno fa, prima che la crisi capitalistica stroncasse l'espansione della classe media, o meglio della piccola borghesia, e che il capitale si riprendesse molto più di ciò che aveva potuto dare, c'era un diffuso sentimento positivo, come se per ottenere ciò che serviva non ci fosse più bisogno di sudore e sacrifici. Anche questo, come abbiamo avuto modo di sperimentare, non era altro che un miraggio creato dalla borghesia. Ma dentro alle mura delle fabbriche, il proletariato vive in quelle condizioni da sempre, e se qualche miglioramento c'è stato, non bisogna certo ringraziare il cielo o un impersonale evoluzione del capitalismo, e neppure le urla dei riformisti, ma il proletariato stesso, che si è organizzato e ha lottato per le sue necessità.
Oggi il bisogno di tornare a lottare è concreto, ma questa volta è necessario distruggere definitivamente il capitalismo e lo stato borghese attraverso la presa del potere del proletariato, che si riconosce nella direzione politica del partito rivoluzionario. Il capitalismo è ormai un sistema obsoleto che sfrutta, uccide, inquina, umilia e mortifica l'uomo. Esso va superato e solo la classe proletaria potrà liberarci dalla sua violenza.
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