A due passi dal paradiso, dice Letta - Ma per chi?

Falchi” e “rettili” vengono aizzati dal Grande Evasore di Arcore contro gli avversari-alleati per garantirsi quell'immunità perseguita da un ventennio, ma nonostante artigli e spire avvolgenti puntate alla gola, Letta trova il modo di consolarsi e di spargere ottimismo sull'imminente fine della recessione, sulla svolta che l'economia italiana starebbe per imboccare assieme alle economie dei cosiddetti paesi avanzati.

A fine agosto sono usciti dati dell'OCSE che attesterebbero una ripresa del PIL per certe aree: dagli Stati Uniti d'America alla Germania, nel secondo trimestre di quest'anno l'economia sarebbe cresciuta di uno zero virgola qualcosa e addirittura dell'1,1% in Portogallo, paese in cui la crisi ha colpito particolarmente duro, così come particolarmente caro è il prezzo fatto pagare al proletariato e, in generale, alle classi sociali più basse, più o meno come in Grecia. Alcune nazioni, però, non vengono baciate dal sole della “ripresa” e, tra queste, l'Italia, il cui PIL continua a segnare una diminuzione, dello 0,2%. Tanto basta, però, per autorizzare Letta e compagnia a una moderata esultanza, visto che nel primo trimestre la discesa è stata dello 0,6%, e dichiarare che la caduta sta rallentando, che la risalita comincerà, senza ombra di dubbio, già da fine anno o, al massimo, nei primi mesi di quello nuovo. Altre volte, dal 2008 in poi, governi ed economisti di grido (buoni, quelli...) avevano intravisto la famosa luce in fondo al tunnel, ma, com'è sotto gli occhi di tutti, sono stati clamorosamente smentiti da una realtà che ha continuato a brancolare nel buio di quel tunnel. Può darsi che adesso ci sia una pausa nella tormenta economica e, appunto, che qualche raggio di sole faccia capolino tra le nubi: aspettiamo a vedere cosa accadrà nei prossimi mesi, anche se dubitiamo, per così dire, che le cause della crisi siano state rimosse, come si dice in un altro articolo del giornale. Non abbiamo sfere di cristallo né siamo dentro alle “segrete cose”, cioè i centri di potere economico-politico da cui si domina, in tutti i sensi, il panorama mondiale, ma nel solco dell'analisi marxiana possiamo legittimamente nutrire scetticismo verso le ragioni dell'entusiasmo borghese.

Una cosa, invece, è certa e cioè che se “ripresa” ci sarà, non riguarderà le condizioni del lavoro salariato-dipendente, che ben difficilmente miglioreranno, anzi, è invece probabile – per usare un eufemismo – che continueranno a rotolare verso il basso, come sta avvenendo da decenni.

Attorno alla metà di agosto, è uscito uno studio della CNA (Confederazione nazionale artigianato) che prospetta un quadro sociale ancora più drammatico di quanto non lo sia già: a dicembre i disoccupati potrebbero aumentare di 400.000 unità, rispetto a giugno, arrivando a toccare in tal modo i tre milioni e mezzo. Da notare, come sottolinea il manifesto (2013-08-17), che la CNA ha preso in considerazione solo il lavoro del settore privato, “fisso” e “garantito” dalle norme contrattuali nonché dagli ammortizzatori sociali come la cassa integrazione. Ne sono esclusi il lavoro una volta detto atipico – autonomi o, meglio, finti autonomi, precari di ogni specie ecc. – e il settore del pubblico impiego che, in quanto a precarietà, non è secondo a nessuno. Non per niente, il governo (se durerà) deve affrontare il problema della scadenza del contratto per 150.000 precari della pubblica amministrazione: si ventila l'ipotesi dell'assunzione di 50.000 di essi e la proroga (un'altra) di un anno o due per gli altri. In ogni caso, visto che siamo nel pubblico impiego, l'esecutivo ha dato una certezza ai lavoratori di quel comparto e cioè che fino al 2015, almeno, non ci saranno aumenti di stipendio né lo sblocco degli scatti di anzianità (con relative ricadute sulla pensione) e che anzi andrà già “bene” se non verrà cambiato, naturalmente in peggio, l'organizzazione del lavoro (orari, mansioni ecc.).

D'altra parte, che il mondo del lavoro subordinato debba aspettarsi poco dai governi (ossia dal capitalismo) lo conferma, sia pure indirettamente, l'ILO (Organizzazione internazionale del lavoro, agenzia dell'ONU). Questo organismo, la cui fede nella collaborazione tra capitale e lavoro è incrollabile, a inizio estate, in uno dei suoi rapporti periodici, calcolava che, sommando le perdite occupazionali (circa 600.000 unità, dal 2008) all'aumento della popolazione in età lavorativa, «servono all'Italia circa 1,7 milioni di nuovi posti di lavoro per riportare il tasso di disoccupazione ai livelli pre-crisi» (www.rassegna.it, 2013-06-03). Forse, lo stesso Berlusca avrebbe pudore a promettere un “nuovo miracolo italiano” da quasi due milioni di posti di lavoro; ma non c'è da sperarci troppo, vista la sua cialtroneria illimitata. Fatto sta che se negli ultimi mesi è calata sensibilmente la domanda di cassa integrazione, è aumentata del 20% la richiesta di sussidi di disoccupazione, segno che il quadro presentato dall'ILO si è ulteriormente deteriorato.

In ogni caso, anche ammesso (e non concesso) che con la “ripresa” le aziende cominceranno ad assumere, che tipo di occupazione sarà, dal punto di vista quantitativo e qualitativo? Lo abbiamo appena detto: poca e di pessima qualità (assumendo dunque la logica borghese del lavoro salariato). Basta guardarsi attorno, basta osservare il peggioramento inarrestabile delle nostre condizioni di lavoro (o non lavoro), basta dare un'occhiata oltre oceano, nel paese più avanzato del mondo per vedere il “trailer” del nostro futuro, che è già presente. Secondo il Wall Street Journal, negli USA «più della metà dei nuovi posti di lavoro sono stati creati nella ristorazione o nella vendita al dettaglio» vale a dire in quei settori dove i salari sono notoriamente molto bassi. Non solo, altre fonti dicono che «il 97% dei posti di lavoro creati nel primo semestre del 2013 è part-time» (citazioni tratte da: “Un lavoro pagato sempre meno”, www.rainews24.it, 2013-08-09). Se così, fosse – ma ci sono poco elementi per dubitarne – il compiacimento dell'amministrazione obamiana per il calo della disoccupazione si baserebbe sui soliti giochi contabili di tanta statistica borghese, così come l'ottimismo di Letta, a un'analisi meno superficiale – e interessata – della situazione economico-sociale avrebbe più di un motivo per ridimensionarsi.

L'approssimarsi del paradiso evocato dal primo ministro per indicare, metaforicamente, l'uscita vicina dalla crisi, ha in ogni caso poco a che vedere col mondo reale in cui deve vivere, o sopravvivere, il proletariato.

CB
Martedì, August 27, 2013