Il grande business della guerra

L'ultima Relazione al Parlamento certifica il record dell'export di sistemi d'arma in Medio Oriente e Nord Africa. (…)
Gheddafi non era ancora morto quando l’inviato del Corriere della Sera metteva piede nel suo bunker e scriveva: “Nelle stanze adibite ad arsenali militari ci sono le scatole intatte e i foderi di migliaia tra pistole calibro 9 e fucili mitragliatori, tutti rigorosamente marca Beretta. A lato, letteralmente montagne di casse di munizioni italiane”.
Non è più un segreto per nessuno: l’Italia che oggi si interroga in chiave anti Is sull’opzione militare in Libia ha armato fino ai denti il regime e probabilmente le fazioni di ribelli che l’hanno fatto cadere. Indirettamente ha rifornito pure gli jihadisti, che ora quelle armi se le prendono a forza mentre avanzano dalla Cirenaica alla Tripolitania. E che cosa dice l’ultima relazione sull’export di armi? Per quanto "opaco e approssimativo", il documento certifica che nel 2013 non c’è stato alcun crollo nelle esportazioni di sistemi militari italiani come sovente sostenuto dalle imprese e da ambienti della Difesa: sono stati infatti spediti nel mondo armamenti made in Italy per oltre 2,7 miliardi di euro, cioè solo poco meno della cifra-record realizzata nel 2012 (€ 2.979.152.816): un calo quindi (del 7,7%) ma non certo un “crollo”.
C’è di più: nel 2013 si è registrato un record di autorizzazioni e di esportazioni di sistemi militari proprio nella zone di maggior tensione del mondo. Su un totale di 2,1 miliardi di euro di esportazioni autorizzate, oltre un terzo (709 milioni) sono state rilasciate ai paesi del Medio Oriente e del Nord Africa. Anche il 29,4% dei sistemi d’armamento, per una cifra pari a 810 milioni di euro, sono stati effettivamente esportati verso questi paesi e nelle zone più calde e conflittuali (1).

Prendiamo spunto da questo articolo comparso su un quotidiano non certo ‘comunista’ (il Fatto Quotidiano), per sviluppare alcune riflessioni sul carattere della guerra nell’attuale epoca imperialista. Che la guerra sia un business noi comunisti lo diciamo da sempre. Proprio noi che certo "pacifisti" non siamo, ma preferiamo definirci “soldati” di ben altra lotta: quella di classe. E che per nulla ci sorprendiamo, né ci 'indigniamo', per il mancato 'controllo democratico' che si dovrebbe "restituire al Parlamento sovrano", consapevoli come siamo che, nell'ormai secolare assetto istituzionale della falsa democrazia borghese, il Parlamento recita il ruolo di mero ratificatore di decisioni assunte di fatto altrove, ma soprattutto perfettamente funzionali a ben altri interessi economici che non quelli dei lavoratori e degli sfruttati.

La guerra è dunque un grande business, certo. Lo è prima, durante e dopo ogni guerra, locale o generalizzata che sia. Mette a nudo e certifica quanto l'affare vendita e traffico d'armi (con tutto il suo "indotto") – “regolari” e “autorizzati” o meno – sia lucroso per i bilanci aziendali delle industrie belliche, anche 'prima' dell'avviarsi o ufficializzarsi di un conflitto armato. Tali aziende, infatti, sia 'in tempo di pace' (non ricordiamo a quando risalga l'ultimo...) che 'di guerra guerreggiata', vendono ugualmente le loro armi agli Stati di mezzo mondo, senza minimamente darsi pensiero se l'acquirente sia una 'perfida canaglia' o finanche un potenziale nemico di domani (2).

Chiaro che al sopravvenire di una guerra l'entità dell'affare lievita di parecchio, perché in quel caso armi e ... 'bagagli' (uniformi, motori e attrezzature di servizio e monitoraggio d'ogni tipo...) vengono "consumati", e non semplicemente 'stoccati' negli arsenali militari. E dunque resi oggetto di ingentissimi e soprattutto continuativi flussi di commesse statali che finiscono rubricati direttamente alla voce 'profitti'.

Non ci pare poi così tanto azzardato supporre dunque che, specie in tempi di tassi o margini di profitto magrissimi nella cd. economia produttiva reale, certe imprese pressino perché scenari prolungati di guerra (le cd. 'missioni umanitarie’) si producano e perdurino nel tempo. Stiamo sostenendo dunque che una guerra scoppia per via di simili pressioni? No di certo, stiamo più semplicemente evidenziando gli appetiti smisurati che le ruotano attorno, e che di certo non sono nè neutrali nè insignificanti.

Persino quando, a destra e manca, i governi quotidianamente si 'addolorano' per la necessità di tagliare la spesa sociale (che definiscono: improduttiva), per le politiche di austerità che sono 'costretti' fare - cosi ci dicono - nel frattempo essi non solo destinano flussi di milioni di euro in sovvenzioni, finanziamenti e sgravi alle grandi imprese e per rimpolpare i patrimoni delle banche, ma acquistano ben 90 aerei F35 e preparano ben 5.000 militari (addestrati professionisti pagati profumatamente) da inviare ad ... esportare un altro po' di 'democrazia' in Libia. Davvero strani i bilanci dello Stato, se da un giorno all'altro la 'carenza' di denari (per famiglie a disagio, malati di sla, disoccupati, cassintegrati, scuole, mense, ospedali, ecc.) sembra letteralmente evaporare... Miracoli della scienza economica borghese, verrebbe da dire...

No, le guerre non si alimentano e non scoppiano certo soltanto - come amano farfugliare i teorici del tanto diffuso 'complottismo' alla Giulietto Chiesa - per input di tali centri di interesse economico-finanziario, che su esse gonfiano i loro stratosferici affari. Esse piuttosto sono il risultato e l'esito del feroce scontro imperialistico tra gruppi di capitali concorrenti sul piano internazionale, alla disperata quanto feroce, cinica e spregiudicata ricerca, conquista e difesa dei mercati. (3)

Attualmente il delinearsi e l'assestarsi dei rispettivi fronti di alleanza politico-militare resta ancora confuso e in itinere, specie dopo il crollo del cinquantennale “muro” eretto a sancire l’equilibrio bipolare da “guerra fredda” succeduto a Yalta, e di certo rivelerà ancora possibili sorprese. Ciascuno, per adesso, tira acqua al proprio mulino come meglio può e ritiene di fare: chi a forza di 'pacifici' e succulenti accordi commerciali, chi condonando prestiti, chi "rinnovandoli" o "proponendoli" ai competitori più "azzannati” dalla crisi mondiale (vedi Grecia), chi infine bombardando e fomentando destabilizzazione perenne nelle aree strategiche-chiave dello scontro in atto (Siria, Iraq e Medioriente tutto, Libia, Ucraina, Sud-est asiatico, Africa centrale, ecc.) e lì piazzando i propri eserciti con funzioni di controllo o ... peacekeeping.

Sono i classici e ormai collaudati strumenti del dominio capitalistico mondiale, già da lungo tempo entrato nella sua fase imperialista. Ci preoccuperemo, alle prossime occasioni, di addentrarci più e meglio nella questione - ma soprattutto nei suoi molteplici e dolorosissimi risvolti sulle condizioni generali di vita e sulla pelle di milioni di lavoratori – con successivi articoli di questo giornale.

PF

(1) "Libia, l’Italia fa affari su export armi...", di Thomas Mackinson, sul Fatto Quotidiano del 18 febbraio 2015.

(2) Riporta Arturo Peregalli nel suo “La natura della seconda guerra mondiale…”, una sua relazione del 15 marzo 1987 al Convegno su “L’altro movimento operaio”, lavoro rimasto poi inedito che raccoglie una notevole mole di dati ufficiali sulla questione a suffragio di quanto affermiamo:

… il nazismo non era il risultato della «brutalità» e della «barbarie» del solo «popolo» tedesco o di una presunta anima bellicista insita nella tradizione germanica.
Nel 1939 la macchina bellica nazista era forse il congegno economico meno «nazionale» che si potesse trovare sull’arena degli Stati che avevano partecipato alla Prima Guerra mondiale. L’economista Charles Bettelheim ha scritto che _«si può dire che settori vitali dell’economia tedesca erano controllati (...), almeno parzialmente, dal capitale internazionale».
La compenetrazione tra il capitale tedesco e il capitale cosiddetto «democratico» occidentale in Germania aveva raggiunto nel 1939, quando scoppiò la guerra, una fase molto avanzata.
Nel 1938 l’industria automobilistica ‒ essenziale per un’economia di guerra moderna ‒ presentava la seguente situazione: delle quattro maggiori case produttrici presenti in Germania (Daimler, Auto Union, Ford e Opel), la Ford (filiale della Ford statunitense) e la Opel (di proprietà dal 1929 dell’americana General Motors) producevano ben il 52% delle vendite in Germania.
Nel 1935, su richiesta dello Stato Maggiore nazista, la direzione della Opel, con sede a Brandeburgo, aveva realizzato un camion pesante che avrebbe dovuto essere «meno vulnerabile agli attacchi degli aerei nemici». Così, a partire dal 1937, l’Opel Blitz, prodotto a ritmi accelerati, equipaggiò l’esercito tedesco. Due anni dopo anche la statunitense Ford aprì, alla periferia di Berlino, una fabbrica di montaggio per automezzi destinati alla Wehrmacht. Gli affari andarono talmente bene che nel 1941, in piena guerra, Ford decise di aumentare il capitale della sua filiale tedesca, che lavorava per i nazisti, portandolo da 20 a 32 milioni di marchi. Agli inizi del 1939 la General Motors adibì gli stabilimenti Opel di Rüsselsheim alla fabbricazione di aerei militari. Dal 1939 al 1945 quegli Stabilimenti produssero, da soli, il 50% di tutti i sistemi di propulsione destinati allo Junkers 88, considerato come il miglior bombardiere della Luftwaffe.

Pdf liberamente scaricabile dal nostro sito: leftcom.org

(3) Mercati di approvvigionamento a basso costo di materie prime e manodopera sempre più schiavile, mercati di sbocco per le loro merci e i loro capitali finanziari, controllo delle principali vie di estrazione e commercializzazione delle fonti energetiche (gas e petrolio in primis), controllo e posizionamento militare nelle aree geo-strategiche (rispettivi “cortili di casa” del nemico compresi).

Sabato, March 28, 2015

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.