Grecia - Note a seguito del referendum

Per tutti quelli che hanno ritenuto che fosse tatticamente corretto dare l'indicazione di votare NO al referendum greco.

La trappola del referendum è scattata due volte.

La prima, quando il nazional-riformista Tsipras si è trovato nell'inevitabile impossibilità di dare operativamente seguito alle sue promesse elettorali. Di fronte alla feroce chiusura della Troika (prima si pagano i debiti, si fanno le necessarie riforme, ovvero aumento dell'Iva, riforma fiscale e decurtazione delle pensioni continuando la devastante politica dei sacrifici, poi si possono chiedere nuovi finanziamenti), Tsipras ha prima tentato un negoziato al ribasso, poi, sconfessato dal suo stesso partito, non ha saputo fare altro che buttare la patata bollente nelle mani dell'elettorato greco sotto forma di un retorico referendum: "SI o NO alla politica dei sacrifici" voluta dalla Troika. Ingannando il proletariato greco, e non solo, che attraverso la vittoria del No si potessero avere armi politiche migliori per contrastare la politica dei sacrifici e salvaguardare meglio le condizioni di pensionati e lavoratori sull'orlo del collasso.

La seconda volta, quando la vittoria del NO ha lasciato, ovviamente, le cose come stavano prima, ma funzionando come valvola di sfogo per quelle frange più arrabbiate che, al massimo, si sono espresse con un non voto (3.693.889, superiore, anche se di poco, a quelli che hanno votato NO) senza nemmeno spaventare i giochini politici dell'attuale potere in crisi di liquidità, oltre che di identità politica. Infatti il No non poteva essere una risposta negativa alla politica dei sacrifici, ma soltanto l'ipotesi di riapertura di una discussione interrotta su come e in che tempi subire gli ennesimi sacrifici. In pratica, come nel gioco dell'oca, si è ritornati al punto di partenza con inalterati i termini della questione sul debito, sulle riforme da fare e sugli eventuali futuri prestiti che, detto per inciso, al massimo servono per pagare gli interessi sui debiti contratti e non certo a migliorare la condizioni di vita dei salariati e dei pensionati. Quattro giorni dopo la chiusura delle urne, Tsipras ha dovuto riprendersi nelle sue mani la patata bollente per proporre alla Troika più di quanto la Troika stessa pretendeva in termini di riforme e di sacrifici. Il programma prevede una "finanziaria" da 12 miliardi di euro prelevati dall'allungamento dell'età pensionabile, dalla sospensione degli sgravi Iva per le isole e da un aumento generalizzato delle tasse. Il che significa che l'aumento dell'età pensionabile aumenterà la disoccupazione, soprattutto quella giovanile. L'aumento delle tasse influirà ancora una volta sulla qualità di vita di tutti i greci a stipendio fisso, ovviamente per chi ce l'ha. L'annullamento della facilitazione Iva per le isole, nei fatti un aumento dell'Iva per il commercio e gli operatori turistici, inciderà sull'aumento dei prezzi al consumo sia per i turisti che per i locali. L'unico contentino è che Tsipras ha promesso di tartassare un po' di più i super ricchi e di incominciare a far pagare le tasse (ma con moderazione) agli armatori. Il tutto per ricevere dagli "aguzzini" della Troika quei finanziamenti per non fallire subito e coltivare la debole opportunità di rinegoziare un debito che, peraltro tutti sanno, non è restituibile né subito né forse mai, ma funzionale ai grandi creditori sul terreno del ricatto economico, per quanto riguarda le future commesse e il possibile acquisto "dell'argenteria di famiglia", qualora le imposte privatizzazioni dovessero aprire nuove opportunità agli sciacalli della finanza internazionale. Queste le immediate conseguenze della vittoriosa campagna a favore del NO al referendum.

Poi ci sono altre considerazioni da fare. Il referendum ha finito per essere, da un lato, una prova di fiducia nei confronti del governo, dall'altro un esercizio politico di nazionalismo destrorso e conservatore, che è riuscito a riempire la piazze sotto le bandiere bianco-azzurre greche in un rigurgito patriottico contro l'arroganza tedesca. Non una parola contro la borghesia nazionale, quella degli armatori che non paga le tasse: Tsipras si era limitato a proporre prima del referendum un'imposta "una tantum" sui super-ricchi, peraltro bocciata dalla Troika stessa perché pericolosa per il grande capitale, quella dei finanzieri, che, all'epoca dell'ingresso della Grecia nell'euro, hanno falsificato i conti in collaborazione con una delle centrali del parassitismo finanziario internazionale, contribuendo a rendere ancora più grave la situazione economica interna dopo lo scoppio della crisi dei subprime. La prova referendaria è però riuscita a distorcere l'attenzione delle masse greche dalle responsabilità borghesi interne per concentrarle su quelle estere.

Era chiaro sin dall'inizio che con il referendum non si sarebbe andati da nessuna parte, che le cose sarebbero rimaste esattamente come prima, ma il mimare un inoperante NO alla politica dei sacrifici, almeno nel breve periodo, avrebbe tenuto le piazze sotto controllo, all'interno del solito involucro nazionalistico, borghese e capitalistico, senza nessuna speranza per una futura alternativa al sistema; e così è stato.

Una posizione rivoluzionaria che avesse voluto essere di piccolo riferimento alternativo alla vulgata nazional borghese del falso referendum, avrebbe dovuto, come prima cosa, dire da dove veniva la necessità referendaria, quali i veri obiettivi che voleva raggiungere e quali le conseguenze. Da lì bisognava partire, non perché il referendum in sé avesse qualche interesse intrinseco, o perché avesse l'opportunità di cambiare, anche se di poco, i termini della questione dei sacrifici e del pagamento del debito, ma perché il partito al potere, operante sul terreno nazionalista e borghese, non ottenebrasse ancora di più le coscienze politiche dei proletari con ulteriori false promesse o ridimensionate illusioni, con l'indicazione di strani percorsi economici e finanziari che non possono portare da nessuna parte, se non sul solito terreno della conservazione borghese, con l'aggravante di presentarsi in chiave sinistrorsa.

Definire la natura, lo scopo e la trappola che rappresentava il referendum era il necessario primo passo da cui partire per arrivare a introdurre il secondo e basilare concetto, quello relativo alla necessità della ripresa della lotta di classe. In questo caso, nella specificità della situazione greca, la seconda delle indicazioni, quella relativa alla necessità della ripresa della lotta di classe, se non voleva cadere dal cielo come un "ufo" politico, doveva partire dalla denuncia di che cosa rappresentasse la prima. Il SI alla ripresa della lotta di classe doveva essere la logica conseguenza della negazione degli obiettivi del referendum. Detto in termini ancora più sintetici, il SI alla lotta di classe si intrecciava al NO al referendum. Bisognava ribaltare completamente il giochino borghese del SI e del NO ad una politica dei sacrifici che tutti sapevano, Tsipras per primo, che sarebbe arrivata comunque. Prima bisognava togliere il velo, smascherare il trucco e poi dare una prima indicazione. Fare invece appello alla necessità della ripresa della lotta di classe senza partire dall'inganno del referendum, senza denunciarne gli obiettivi di conservazione e di imbrigliamento politico della classe operaia è, quantomeno, un errore tattico.

Se poi si arriva ad invocare la necessità della ripresa della lotta di classe, passando dall'accettare "tatticamente" il NO, siamo in aperta contraddizione. E' un modo perlomeno confuso di porsi alle masse, perché le due indicazioni sono difficilmente conciliabili se non nella forma ibrida e comunque contraddittoria: "se accettate il referendum e andate a votare, allora votate NO perché l'unica soluzione è la lotta di classe". Ma la lotta di classe non solo non passa dai referendum, che ne sono la sua negazione, ma ne deve prendere le distanza per iniziare a partire. Meglio essere chiari, diretti nelle formulazioni politiche: si evitano malintesi e si danno delle indicazioni comprensibili e non ambigue. A meno che la formulazione "ibrida" non contenga un altro messaggio, quello che dice: "bisogna saper essere duttili, tatticamente intelligenti, e non rimanere attaccati a formule, corrette sì, ma di difficile divulgazione”. Giusto, ma l'intelligenza tattica è quella di saper trovare le formule espositive delle posizioni politiche corrette, non quella di modificarle o, peggio ancora, di dirle solo in parte o in maniera scorretta e contraddittoria, perché ciò non servirebbe ad aumentare la chiarezza, ad essere più propositivi sul terreno propagandistico, ma sarebbe soltanto un pericoloso esercizio di allineamento verso il basso, che potrebbe portare nell'anticamera dell'opportunismo. Il non rimanere isolati (se questa fosse la maggiore delle preoccupazioni, che, già di per sé, non dovrebbe far parte del bagaglio di una organizzazione rivoluzionaria) non passa dall'annacquare le posizioni politiche, ma nel proporle "secche e asciutte" come sono, altrimenti si corre il rischio di accodarsi alle masse, alle sue arretratezze politiche per poi rimanerci dentro, prima soltanto con un piede, poi con una gamba e, alla fine, con tutto il corpo. L'intelligenza tattica è un'altra cosa, è rendere comprensibile una linea politica con i dovuti strumenti di comunicazione, le giuste analisi e i conseguenti slogan, ma all'interno di una corretta linea politica che non può cambiare di volta in volta con posizioni contraddittorie, confuse e ai limiti dell'opportunismo.

FD
Domenica, July 12, 2015