Sull'attuale economia politica

I movimenti del capitale, sia a livello nazionale sia internazionale, si fanno da tempo caotici, non sopportando regole e vincoli di alcun genere nella ricerca – con ogni mezzo – di plusvalore. Ma la crisi sistemica dà allarmanti segnali di approfondimento anziché quelli di una tanto attesa (dal capitale) “ripresa” economico-finanziaria.

Il lavoro salariato è centrale nella riproduzione dei rapporti sociali capitalistici. Ad esso si accompagna la ricerca della massima produttività di merci attraverso lo sfruttamento della forza-lavoro utilizzata. Ciò che si produce deve avere un valore di scambio e non esclusivamente di uso, al fine di garantire la valorizzazione del capitale. Nel Capitale (Libro primo, Capitolo sesto inedito, pag. 76, Newton, 1976) Marx scrive che

la produttività del capitale consiste innanzitutto nella coercizione al plusvalore (…) La definizione del lavoro produttivo poggia dunque sul fatto che la produzione del capitale è produzione di plusvalore ed il lavoro da essa impiegato è un lavoro che produce plusvalore (…) Dire che il processo di produzione crea capitale è solo un'espressione per dire che esso ha creato plusvalore.

Nonostante non si producano sufficienti mezzi di sussistenza in generale (non soltanto alimentari…) per soddisfare i bisogni di una sempre più grande massa (i proletari) della popolazione, il lavoro interessa dunque il capitale solamente se esso – come lavoro salariato – valorizza il capitale, soddisfa cioè l’unico suo valido bisogno: la produzione di profitto. I lavori – come diceva Marx – «possono valere come tali solo nell'ambito di un modo di produzione miserabile» quale è il capitalismo. Quindi,

non è che si produca troppa ricchezza. E' che si produce periodicamente troppa ricchezza nella sua contraddittoria forma capitalistica.

Il Capitale, Libro terzo, cap. XV, Editori Riuniti 1980, pag. 330

Assillato quindi dalla ricerca di aumenti di produttività per ottenere il massimo profitto, il capitale è impegnato nel suo obiettivo primario: aumentare la differenza «tra il valore della capacità lavorativa (il semplice salario – ndr) e la sua valorizzazione», la quale dipende unicamente dal plusvalore che si può estorcere dallo sfruttamento della forza-lavoro_._ «Il capitale acquista la capacità lavorativa dei proletari solo per il plusvalore che essa procura a chi la impiega». Quindi la somma dei mezzi di sussistenza che l’operaio può acquistare e consumare (con il salario, se ha un “posto di lavoro”!) deve essere, quanto più possibile, minore del “valore di scambio” delle merci prodotte. Marx lo spiega in modo esauriente.

L’aumento della produttività si pone come un imperativo per il capitale. Poiché al momento la tecnologia non viene esasperata più di tanto per il rischio di moltiplicare la massa degli “esuberi” (plusvalore relativo), si punta anche a forme sempre più esasperate di sfruttamento diretto della forza-lavoro occupata (plusvalore assoluto). Ciononostante, il Pil dopo i crolli subiti all’inizio della crisi, segna il passo, con ritmi di crescita troppo deboli per soddisfare le esigenze del capitale: produrre sempre di più; produrre per produrre. Con una “crescita” che però sarebbe causa di altre sempre più approfondite crisi.

Infatti, una maggior quantità di prodotti dovrebbe potersi scambiare contro denaro sul mercato. Ma poiché per battere la concorrenza internazionale si cerca con meno operai (e bassi salari) di aumentare i quantitativi di merci prodotte a basso costo, i mercati si intasano. Non solo, ma anche un eventuale aumento del capitale versato in salari (capitale variabile), richiederebbe un ancor maggiore e «rapido aumento del capitale produttivo» (macchinari e materie prime – capitale costante). Con ripercussioni negative sul tasso di profitto.

Il cerchio si richiude… e non se ne esce: il capitale, più si accumula, più cerca di valorizzarsi e più produce quelli che sono i fattori oggettivi di crisi di sovrapproduzione al seguito di aumenti della produttività che per il capitale devono significare solo ed unicamente l’aumento della quota di plusvalore intascato (oltre a ridurre il salario e il numero degli operai). Lo scriveva anche un Kautsky prima di diventare un revisionista:

Nella produzione di merci sovrapproduzione significa produzione eccedente la domanda dei consumatori in possesso di denaro.

Tornando a Marx (Il Capitale, Libro terzo, cap. XV, pag. 320):

Il vero limite della produzione capitalistica è il capitale stesso; è il fatto che il capitale e la sua autovalorizzazione appaiono come punto di partenza e come punto di arrivo, come movente e come fine della produzione; il fatto che la produzione è soltanto produzione per il capitale e non, inversamente, i mezzi di produzione sono puri e semplici mezzi per una espansione sempre più diversificata e completa del processo di vita per la società dei produttori. I confini entro i quali soltanto può muoversi la conservazione e la valorizzazione del valore capitale, poggiante sull’espropriazione e l’immiserimento della grande massa dei produttori, entrano perciò continuamente in conflitto con i metodi di produzione che il capitale deve utilizzare per i suoi scopi, e che tendono ad un aumento illimitato della produzione, alla produzione come fine in sé, all’incondizionato sviluppo delle forze produttive sociali – entrano in permanente conflitto con il fine angusto della valorizzazione del capitale esistente. Se perciò il modo di produzione capitalistico è un mezzo storico per sviluppare la forza produttiva materiale e creare il mercato mondiale ad essa corrispondente è, al tempo stesso, la contraddizione permanente fra questa sua missione storica e i rapporti sociali di produzione che gli corrispondono.

Ai margini del tutto, risalta la stupidità di quel che resta di una “sinistra” borghese (democratica, costituzionale, eccetera) la quale vorrebbe un governo che presenti “leggi di bilancio con prospettive e strategie di sviluppo”…

Sviluppo e regresso - E’ stato Marx a portare alla luce le leggi di movimento del modo di produzione capitalistico; a definire le regole di formazione e di trasformazione del capitalismo seguendo quella dinamica di “sviluppo”, oggi inceppatasi fino a diventare di “regresso”, che inizialmente ha consentito al sistema di prendere il via, ormai due secoli fa, ed espandersi. Nel medesimo tempo però, durante questa sua crescita, il capitalismo ha ingigantito quei vincoli e quelle strozzature che lo hanno portato a crisi patologiche sempre più gravi; crisi di natura strutturale, ponendo all’ordine del giorno, assieme alla sua temporanea storicità, il suo possibile superamento e la sua concretizzabile trasformazione in un opposto modo di produrre e distribuire.

La forte crescita demografica in ampie zone del pianeta ha prodotto una sempre più numerosa classe di proletari e quindi potenzialmente di lavoratori che potrebbero essere sfruttati per la valorizzazione del capitale. Anche, e soprattutto, nei paesi industrialmente più arretrati. Ma ovunque, non solo nel settore industriale ma pure nel settore dei servizi, cresce il capitale costante e diminuisce quello variabile. Si è così formata, ed aumenta di anno in anno, una sovrappopolazione costituita da un imponente esercito industriale di riserva, nel quale affluisce anche una parte di lavoratori espulsi dalla produzione e una parte (specie giovani) non assorbibili in una produzione sempre più automatizzata. Il capitale “utilizza” meno lavoratori salariati, cioè proprio chi (vendendo la propria forza-lavoro allo sfruttamento del capitale) costituisce l’unica fonte di plusvalore! E naturalmente si guarda bene dal ridurre drasticamente le ore di lavoro per tutti.

Ha preso quindi il via un processo di impoverimento globale, per le masse di proletari e sotto-proletari definito, dalla dominante ipocrisia, una… “grave deprivazione materiale”! Perdere una possibilità di lavoro significa perdere il salario quale unica opportunità di sopravvivenza. Vi si aggiunga la preoccupante previsione di possibili catastrofi ecologiche, sia per i cambiamenti climatici già in corso che per l’inquinamento di aria, terra e acqua che il capitalismo va diffondendo. Un pericolo gravissimo per la vita dell’intera specie.

L’esercito industriale di riserva (i disoccupati, forza-lavoro che il capitale non è più in grado di sfruttare per ricavarne plusvalore) si è allargato a limiti insostenibili. Ancor più che nel passato, quando questo esercito serviva a mantenere basse le remunerazioni salariali in conseguenza della “concorrenza” di manodopera disponibile. Un esercito oggi composto, nel mondo, da quasi 2 miliardi e mezzo di individui (Organizzazione Internazionale del Lavoro). Vi si dovrebbe aggiungere anche la massa di potenziali lavoratori costituita dai milioni di individui incarcerati nei diversi Stati, in maggioranza “minoranze di disperati”…)

Nella sola Europa, il settore manifatturiero ha “perso” 4,5 milioni di posti di lavoro fra il 2008 e il 2012 (il 12% dell’occupazione industriale); in Italia, specie tra i giovani, dilaga la disoccupazione, con la produzione industriale che dal 2008 è calata di circa il 25% e la capacità produttiva è diminuita del 13%. Cifre che rischiano di collassare il capitalismo.

Si è avviato uno stato di “concorrenza” fra gli stessi lavoratori per ottenere un’occupazione, anche se momentanea, con un conseguente abbassarsi dei salari e il diffondersi di condizioni di miseria anche per chi ha la… fortuna di potersi vendere al capitale! E cresce anche l’altra povertà, quella estrema (individui che in molte zone del globo sopravvivono con meno di 1,25 dollari al giorno). L’84% della popolazione mondiale, nel 2011, viveva con meno di 20 dollari al giorno, secondo la Banca mondiale e Pew Research Center. Nel 2010, circa 942 milioni di lavoratori poveri – uno su tre lavoratori nel mondo – si trovava al di sotto della soglia di povertà di 2 dollari giornalieri. (Mancano dati più recenti, ma tendenzialmente la situazione non è migliorata, anzi!) Il “fenomeno” è diffuso soprattutto nelle “regioni in via di sviluppo”, ma non solo. Anche nella “sviluppata” Gran Bretagna sono quasi raddoppiati i tassi di povertà e del lavoro a basso salario (due terzi o meno della retribuzione media nazionale), mentre in Germania i lavoratori poveri, tra il 2005 e il 2013, sono passati dal 4,8 al 8,6%.

Intanto fra i lavoratori a tempo pieno (proporzionalmente sempre meno) l’orario di lavoro subisce allungamenti anche notevoli. In Germania si applica un livello attorno alle 41 ore settimanali; in Gran Bretagna i tempi di lavoro si allungano, con un occupato su cinque a basso salario: un quinto degli occupati lavora di regola più di 45 ore alla settimana. In Italia una parte degli occupati lavora per più di 45 ore la settimana: quasi il doppio rispetto al 2002.

Il tasto della produttività è quello sul quale maggiormente battono la borghesia e le sue bande di ruffiani servitori. Ma è proprio lì dove il capitalismo approfondisce gli scavi della propria fossa, poiché il produrre più merci impiegando meno operai e più macchinari (quindi più capitale costante investito), non solo provoca la diminuzione del saggio medio del profitto, (il plusvalore ottenuto sfruttando il lavoro), ma vede ridursi anche il numero di quelli che solo avendo un salario possono acquistare le merci. Come conseguenza si avrà una sovrapproduzione di merci che non trovano acquirenti. Il capitalismo entra in crisi.

Quale rilancio? - La “sinistra” istituzionale (ufficialmente seduta sulle poltrone parlamentari o esclusa al momento ma desiderosa anche lei di “occuparle”) blatera attorno all’assenza di un programma di rottura (i più radical-riformisti) col capitalismo. Cosa poi significhi per loro il modo di produzione capitalistico, non è dato sapere. Si tratterebbe semmai di applicare, sempre s’intende “democraticamente”, una tattica (?) politica che attraverso l’ipotesi di sviluppo di non meglio chiarite forme di potere alternative alla politica borghese istituzionale, dovrebbe “rilanciare” l’economia borghese dipingendo con un po’ di antiruggine qualche sbarra della galera in cui si trova imprigionato il proletariato.

In realtà, via via che le forze di produzione sono spinte ad un potenziale loro aumento (scienza e tecnologia) gli attuali rapporti di produzione mostrano chiaramente i loro soffocanti limiti. Si evidenzia la rottura del rapporto fra la liquidità monetaria circolante (artificialmente creata) e la ricchezza (nel capitalismo si tratta di cumuli di merci) effettivamente prodotta. Invano da decenni il capitale insegue come rimedio un sempre più accentuato aumento della produttività industriale di merci attraverso un intensivo sfruttamento del lavoro vivo e un allargarsi degli investimenti in mezzi di produzione ed impianti altamente tecnologizzati. Ma questo non fa che aggravare una diminuzione costante di quei proletari che dovrebbero avere maggiore potere d’acquisto delle merci prodotte per assicurare la valorizzazione del capitale.

Gli imponenti e costanti aumenti della composizione organica del capitale (+ C – V) sono invece la base della caduta tendenziale del saggio medio di profitto; la maggiore quantità di merci prodotte per una medesima unità di tempo finisce col non trovare sbocchi sui mercati: i prodotti (merci) aumentato ma diminuisce, e non cresce, sia il numero sia il potere d’acquisto di quelli che dovrebbero essere potenziali compratori. Anche la stessa massa del profitto (che compenserebbe la caduta del suo saggio) rischia a lungo di avere un freno.

Quanto basta per sconvolgere le “idee” della classe (borghesia) che ha nel profitto l’unico motore per muovere la macchina della valorizzazione e accumulazione di capitale.

Il capitale come limite della produzione - Nel Terzo Libro del Capitale (pag. 303-316, Editori Riuniti - 1980) Marx lo spiega chiaramente:

Il_ vero limite della produzione capitalistica è il capitale stesso, è questo: che il capitale e la sua autovalorizzazione appaiono come punto di partenza e punto di arrivo, come motivo e scopo della produzione; che la produzione è solo produzione per il capitale_. (…) Il mezzo – lo sviluppo incondizionato delle forze produttive sociali – viene permanentemente in conflitto con il fine ristretto, la valorizzazione del capitale esistente. (…) Il modo capitalistico di produzione è solo un modo di produzione relativo, i cui limiti non sono assoluti ma lo diventano per il modo di produzione stesso. (…) L’estensione o la riduzione della produzione non viene decisa in base al rapporto fra la produzione e i bisogni sociali, i bisogni di un’umanità socialmente sviluppata, ma in base all’appropriazione del lavoro non pagato e al rapporto tra questo lavoro non pagato e il lavoro oggettivato in generale o, per usare un’espressione capitalistica, in base al profitto a al rapporto tra questo profitto e il capitale impiegato, vale a dire in base al livello del saggio di profitto. Si arresta, non quando i bisogni sono soddisfatti, ma quando la produzione e la realizzazione del profitto impongono questo arresto. (…) La legge della produttività crescente del lavoro, non ha dunque per il capitale un valore assoluto.

La lotta di classe, se non fosse condotta a proprio vantaggio solo dal più forte dei due attori principali – cioè la borghesia contro un proletariato confuso e indebolito, come purtroppo ancora oggi avviene – renderebbe certamente più acuta la crisi in cui si dibatte il capitale. Ma oggi, soprattutto, non si può ignorare che gli effetti di una tale lotta (ancora deviata dai suoi veri obiettivi) possono essere ben diversi da quelli di una totale emancipazione del proletariato (e con lui dell'intera umanità). Ciò dipende dalla direzione e dal programma tattico-strategico della lotta, sia sul terreno politico sia su quello economico, da parte della classe sfruttata e sottomessa. Non si tratterebbe più di puntare – è questo l’obiettivo presente nel canto delle sirene “anticapitaliste” che si prefiggono una riforma del sistema – ad un controllo operaio sulla produzione di merci, e pretendere una differente distribuzione del plusvalore, limitando la sua quantità con un aumento del salario e quote di maggior investimento di capitale. Questo è esattamente il programma tendente alla illusoria visione di un possibile miglioramento dell’attuale “stato di cose” che – al contrario – sta entrando nella fase della sua putrefazione.

Tentativi per frenare la caduta del saggio di profitto - Marx ha elencato (Terzo Libro del Capitale) le principali “controtendenze” alla caduta del tasso medio del profitto sociale, la quale affligge strutturalmente il capitalismo. Esse sono: la svalorizzazione e la distruzione del capitale in eccesso, la centralizzazione del capitale monetario e la concentrazione dei mezzi di produzione, l’aumento dello sfruttamento del lavoro intensificando i ritmi di produzione (plusvalore assoluto), l’abbassamento del valore della forza lavoro, il ribasso del prezzo degli elementi del capitale costante, la sovrappopolazione relativa, il commercio estero, l’aumento del capitale produttivo d’interesse.

Le medesime cause che determinano la caduta del saggio del profitto, danno origine a forze antagonistiche che ostacolano, rallentano e parzialmente paralizzano questa caduta.

Tutte queste “controtendenze” sono oggi vanamente messe in atto dal capitalismo agonizzante. La prima, in particolare, merita una sottolineatura: come scriveva Marx (Il Capitale, Libro terzo, cap. XV, UTET 1987, pag. 319-320),

la svalorizzazione periodica del capitale esistente, che è un mezzo immanente del modo di produzione capitalistico per frenare la caduta del saggio di profitto e accelerare l’accumulazione di valore capitale mediante la formazione di nuovo capitale, turba le condizioni date in cui si svolge il processo di circolazione e riproduzione del capitale, ed è quindi accompagnata da improvvisi arresti e crisi del processo produttivo. (…) La produzione capitalistica tende incessantemente a superare questi suoi limiti immanenti, ma li supera solo con mezzi che le contrappongono di nuovo, e su scala più imponente, questi stessi limiti.

Alla fine sono destinati ad un rovinoso fallimento tutti questi tentativi di ottenere una supplementare estrazione di ricchezza che il settore produttivo di merci più non fornisce (plusvalore) a sufficienza per valorizzare le colossali masse di denaro che si aggirano per il mondo senza la possibilità di avviare nuovi cicli di accumulazione. In conclusione: pieno sviluppo degli effetti della caduta del saggio di profitto, della crisi di sovrapproduzione che intasa i mercati dove il consumo pagante ristagna, nonostante una generalizzazione degli indebitamenti, pubblici e privati. Compreso la panacea, fragorosamente fallita, del ricorso a un più o meno spinto “deficit spending”. Infine, quel “capitalismo cognitivo” – ultima spiaggia dei servi sciocchi del capitale – il quale si appoggerebbe sulla diffusione (peraltro numericamente molto limitata!) di nuovi “schiavi” appositamente istruiti. La loro “costosa” preparazione intellettuale ha poi come fonte di finanziamento un’altra montagna di debiti che i futuri schiavi sono costretti a “stipulare” col loro futuro padrone. Così negli Usa, per esempio, i 2/3 degli studenti diplomati dall’università risulta indebitata; nel 2010 (dati forniti da una ricerca FED) erano 37 milioni gli studenti che si erano indebitati per poter terminare gli studi.

La sfera finanziaria - Anche le più grandi imprese industriali si lanciano nel campo finanziario dove “investono” i loro profitti nella illusoria speranza di poterli incrementare, visto che nella sfera produttiva questo non avviene in modo soddisfacente nonostante i modelli “macroeconomici” sfornati dalla ottusità ideologica degli “esperti”. Al fianco di questi ultimi imbonitori, esaltanti le virtù della produzione e i vizi della finanza (!), si schiera tutta la sinistra borghese e quel “sindacalismo sociale” che si presenta con la maschera – a brandelli! – della ricerca di inesistenti spazi di mediazione salariale, di posti fissi (o anche precari) per un lavoro che dia al capitale la possibilità di essere “produttivo” di plusvalore.

O il profitto o la morte - Assistiamo in ogni campo ad una ricerca, (che in non pochi casi si fa disperata) di margini di profitto quanto più alti sia possibile. Il problema assillante attorno al quale si consuma la materia grigia degli “esperti” dell’economia capitalista, pone la domanda: come investire, cosa produrre? Quella “spesa pubblica” che dovrebbe avere la funzione di “creare in ultima istanza” nuovo lavoro, è al lumicino di fronte al prosciugarsi delle entrate. Senza le quali anche la cosiddetta «socializzazione degli investimenti» si dissolve nel nulla. L’iniezione di enormi quantità di liquidità nel circuito bancario monetario non viene assorbita in consumi e investimenti; alimenta bolle speculative di ogni genere, con denaro che anziché trasformarsi in capitale crea soltanto un valore fittizio, esterno a quelli che sono i circuiti dell’economia reale borghese. Cioè da quei cicli produttivi dai quali il capitale trae la sua valorizzazione.

Il famoso Big Government di Kinsey anziché stabilizzare l’economia, alla fine ha fatto nuovamente precipitare il sistema in un baratro: gli investimenti pubblici si sono esauriti (anziché produrre plusvalore se lo sono mangiato!) e i “piani del lavoro”, assieme alla vagheggiata crescita della “domanda interna” e ad una espansione della produzione di merci, sono diventati un miraggio in un deserto di crescente miseria e sofferenza per centinaia e centinaia di milioni di esseri umani. E’ crollato il mito di un costante allargarsi dei mercati all’infinito per assorbire l’aumento di cataste di merci di ogni genere.

«Una circolazione di merci largamente sviluppata» – come ci ricorda Lenin – non è soltanto un bisogno per ogni nazione capitalistica sulla quale incombono «le leggi della realizzazione del prodotto sociale e in particolare del plusvalore», ma si tratta di una determinazione vitale per il capitalismo, il quale «ha bisogno di un mercato estero essendo esso il risultato di una circolazione di merci largamente sviluppata, che si estende oltre le frontiere dello Stato».

Il risultato è davanti a tutti noi: i bisogni dell’intera umanità aumentano ma miliardi di uomini e donne (e per loro si tratta di bisogni “primari”, per molti addirittura di “sopravvivenza”!) non hanno un “reddito” che gli permetta di acquistare l’immensa quantità di merci che il capitalismo sarebbe oggi in grado di produrre potenzialmente. La legge del valore di scambio è il mostro sacro ai cui piedi si sacrificano vite umane, mentre le intelligenze (?) borghesi di una “sinistra” da decenni allo sfascio si consumano al seguito, ancora, di un fantasmagorico programma di spesa pubblica da direzionare (cosa e come produrre) – sottovoce, evidentemente consapevoli del vuoto ideologico che si pretende diffondere – “in campi ad alta intensità di conoscenza”. Possibilmente automatizzati, con il minor impiego possibile di “salariati”! Naturalmente i cosiddetti nuovi e avanzati “sistemi di produzione” hanno come unico loro obiettivo quello di sfornare merci da vendere nel mercato, confermando appunto le parole del superato (ottocentesco!) Carlo Marx:

Non bisogna mai dimenticare che nella produzione capitalistica non si tratta direttamente del valore d’uso, ma del valore di scambio…

K. Marx, Storia delle teorie economiche, II, p. 546, Einaudi, 1955

Un valore sui cui altari i “sacerdoti” del dio capitale reclamano i sacrifici – all’ultimo sangue – dell’immenso gregge di pecore che ormai non sanno nemmeno più come alimentare per poterlo tosare all’infinito.

DC
Sabato, November 26, 2016