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Home ›Siria: ultimo atto?
In tempi non sospetti abbiamo scritto che la durata dello Stato Islamico sarebbe stata inversamente proporzionale all'affermarsi degli interessi di quegli imperialismi che ne avevano facilitato, se non inventato, la sua nascita, il suo sviluppo basato sulla conquista territoriale in Siria come in Iraq, con tanto di possesso di pozzi petroliferi, sino a diventare una piccola potenza in grado di finanziare un altrettanto piccolo e potente esercito. La sua nascita è stata finanziata, sponsorizzata, armata e politicamente coperta in tutti i modi da quelle potenze d'area, come l'Arabia Saudita, gli Emirati, il Qatar e la Turchia che volevano disfarsi della presenza alawita di Assad in Siria e del regime sciita iracheno. Governi questi, rei di essere sciiti, quindi alleati del loro nemico N°1 l'Iran. Dietro il paravento religioso la perenne sfida economico-commerciale della supremazia nella gestione della rendita petrolifera e dei conseguenti percorsi di commercializzazione del greggio, ossia l'ormai vecchia ma sempre attuale “guerra dei tubi”.
Non a caso nel 2011, a scoppio avvenuto della primavera araba in versione siriana, le suddette potenze d'area citate hanno incominciato a finanziare tutte le formazioni, jihadiste e non, che si opponevano al regime di Assad, Isis compresa, non tanto per favorire un fronte sunnita rispetto a quello sciita, quanto per impedire che entrasse in funzione un accordo per costruire entro il 2016 un gasdotto che avrebbe collegato South Pars (Iran), il più grande giacimento mondiale di gas naturale, alla Siria e dunque al Mediterraneo. Sarebbe stato un ottimo affare per Assad e per la Russia che aveva a disposizione i porti strategici siriani nel Mediterraneo, un po’ meno per la Turchia che vedeva nel progetto una pesante interferenza dell'Iran in tema di gestione di materiali energetici nel “mare suum”. Per di più, il 16 agosto 2016 Assad annuncia la scoperta di un vasto giacimento di gas a Qara, vicino a Homs.
Per gli Usa, altri finanziatori dell'Isis, la partita da giocare era sempre quella di impedire la presenza delle navi russe nel Mediterraneo, per cui la lotta ad Assad era l'unico mezzo per raggiungere il risultato che la VI flotta americana fosse l'unica a solcare le acque di un mare interno così vicino a tre punti strategici come l'Europa, il Nord Africa e la porta turca all'Asia. Dunque, non meraviglia che immediatamente dopo i primi segnali di opposizione al governo di Assad, il Fronte sunnita sostenuto dagli Usa iniziasse a foraggiare ogni tipo di opposizione, in modo particolare quella siro-irachena dell'Isis. Dal 2011 al 2014, data della nascita ufficiale dello Stato Islamico, l'Isis ha potuto godere di ogni sorta di finanziamenti e di privilegi, poi, dopo il decisivo intervento russo, le cose sono cominciate a cambiare. Nascono la coalizione a conduzione americana e poi quella a conduzione saudita per non lasciare il monopolio a Mosca della lotta contro il terrorismo jihadista che, oltretutto, nella sua fase di espansione, un po' di piedi dei suoi sponsor li aveva pestati. Formalmente tutti contro al Baghdadi, in realtà ognuno a difendere i propri interessi economici e strategici, la cui portata andava ben al di là delle ambizioni dell'aspirante sultano.
Oggi, dopo sei anni di guerra, di distruzione spaventosa, di massacri inauditi perpetrati da ambo le parti con centinaia di migliaia di morti civili, di ospedali distrutti, di intere città rase al suolo, di milioni di profughi costretti a bussare alla porte dell'Occidente che non li vuole accogliere, ingigantendo una tragedia storica perpetrata dallo stesso Occidente e dai suoi alleati medio orientali, si sta arrivando alla resa dei conti.
Lo Stato Islamico è ormai ridotto al lumicino. Per il suo totale annientamento mancherebbe soltanto un paio di operazioni di “bonifica” negli ultimi, quanto precari, insediamenti attorno a Raqqa e Mosul, ma la situazione rimane stazionaria per il semplice motivo che le forze vincitrici si stanno ancora mettendo d'accordo su come dare soluzione alla “questione siriana”, ricca di una serie di annessi e connessi che vanno dal problema dei curdi siriani alle richieste di “aree di sicurezza” da parte israeliana, dal pretenzioso ruolo della Turchia e dalle più consistenti ambizioni di spartizione di Russia e Usa. Per non parlare dell'ex area Isis in territorio iracheno, con tutti i problemi energetici relativi al governo iracheno, ai suoi accordi petroliferi con l'Iran e, non da ultimo, quale collocazione politica dare allo Stato non Stato curdo di Massud Barzani e al suo eventuale ruolo catalizzatore del mondo curdo siriano sotto il patrocinio di Washington.
Ritornando alla Siria, potremmo dire che la fase attuale, così come è uscita dalla riunione del G 20, è di assoluto stallo. Ciò che resta dello Stato Islamico rimane in piedi perché non tira vento e i vari spezzoni dell'imperialismo concertano sul da farsi, come se la preda siriana fosse matura per essere sezionata e che l'unico dubbio consisterebbe nel come spartirne le membra tra i suoi sanguinari cacciatori. Inizialmente, prima cioè dell'intervento armato russo, vigeva una sorta di programma massimo per il quale gli Usa perseguivano l'obiettivo totale, ovvero la distruzione del regime di Bashar el Assad, la sua sostituzione con un governo filo occidentale che eliminasse la presenza nel Mediterraneo della flotta russa, a compimento di un lungo processo di isolamento di Mosca a favore degli interessi strategici americani nel mare che bagna l'Africa, l'Europa e la Porta dell'Asia. L'intervento russo ha cambiato le carte in tavola. Putin aveva il suo programma massimo, quello di battere tutte le opposizioni al governo di Assad, quale condizione prima per il mantenimento della sua flotta militare nei porti strategici della Siria e di poter usufruire di eventuali gasdotti da accoppiare al South Pars da cui, eventualmente, rifornire l'Europa attraverso una rotta più meridionale. Le dinamiche imperialistiche hanno poi ridimensionato i due piani “massimi” e proposto, nella dinamiche delle cose, cioè dei reali rapporti di forza, dei programmi “minimi” ai quali si sta ancora lavorando. Putin e Trump pare siano sostanzialmente d'accordo nella spartizione della Siria, meno d'accordo sulle aree e sui gestori delle stesse. A latere del G 20 i due leader pare abbiano trovato un punto d'incontro che soddisfacesse innanzitutto le loro priorità e, in via subordinata, quelle dei loro alleati, sempre che le due cose possano coincidere e non collidere, e sempre che l'attuale disputa sulle sanzioni Usa alla Russia non rimetta in discussione il tutto. L'accordo (versione Usa che rielabora il vecchio piano B sulla spartizione della Siria) ruota attorno ad una sorta, l'ennesima, di cessazione del fuoco tra tutte le parti fatta eccezione per quella contro i terroristi dell'Isis. Poi si passerebbe alla creazione di “corridoi” umanitari che consentano alla popolazione civile, che loro stessi hanno pesantemente contribuito a massacrare al pari, se non peggio, dei jihadisti, di abbandonare la zona.
Terza e ultima parte degli accordi sarebbe la messa in atto di “aree di sicurezza”. In pratica saremmo in presenza del vecchio e famigerato piano B che prevedeva la spartizione della Siria in quattro parti. La prima area a nord est verrebbe affidata alla SDS (forze democratiche siriane) sotto l'egida militare e il controllo politico degli Usa. E' la vasta area va dalla città di Hasaka sino all'Eufrate, abitata da Kurdi siriani che spingono per una loro autonomia sulla scorta dei loro cugini iracheni. Ma il progetto ovviamente non piace ad Ankara che deve in qualche modo essere accontentata da qualche altra parte.
La seconda area si sviluppa da Aleppo verso nord, dalla città di al Bab sino ai confini turchi. Sempre zona curda che verrebbe data come contentino alla Turchia, che amministrerebbe una porzione di territorio curdo profonda una novantina di chilometri, ben lontano dalle richieste di Ankara, ma sufficienti a garantire un minimo di controllo sulla popolazione curda affinché rinunci alle sue ambizioni che potrebbero innescare il virus nazionalistico anche alle popolazioni curde in territorio turco.
La terza sarebbe affidata in maniera obliqua, diplomaticamente contorta, ma di fatto certa, alla Giordania e soprattutto ad Israele che ne ha sempre ambito il controllo per questioni di “sicurezza”.
Geograficamente l'area parte dalle alture del Golan, sale sino a Derna e alla città di Souweida. Regalo territoriale che Trump e i suoi collaboratori hanno pensato di fare all'alleato di sempre, per rinforzare “un'amicizia” militare di cui, in questa delicata fase, entrambi hanno assoluto bisogno.
La quarta spetta “di diritto” alla Russia ed è quella che comprende tutta la costa parallela all'asse Aleppo -Homs- Damasco e che prevede, ovviamente, la gestione i porti strategici di Tartus e Latakhia.
La stessa Russia però, con Iran e Turchia, ha elaborato un piano di spartizione della Siria che va sotto il nome di “zone di de-escalation” non dissimile da quello americano sul concetto di spartizione, ma con alcune significative varianti. Le zone prescelte per essere inserite nel piano di “de-escalation” elaborato negli accordi di Astana rispecchiano i “desiderata” dei tre paesi firmatari degli accordi stessi. Intanto le aree sarebbero tre o anche quattro, che i paesi contraenti si impegnano a gestire in termini di cooperazione, se il tutto va per il verso giusto, in aperta contrapposizione se le cose dovessero assumere contorni non graditi. Le aree in questione dove verranno costituite queste “zone di de escalation”, comprendono la provincia di Idlib, alcune consistenti parti delle province di Latakia, Aleppo,Hama e Homs, la zona circostante di Ghouta a est di Damasco e parti delle province di Dara’a e Quneitra, a ridosso del confine con la Giordania. I tre paesi garanti, si legge nell'accordo, creeranno dei “check-point e punti di osservazione” ai limiti dei confini delle “zone a bassa tensione”. I check-point dovrebbero garantire il movimento dei civili disarmati. Detto in altri termini, l'accordo di Astana tra Russia, Iran e Turchia segna un punto fermo sul processo di spartizione della Siria. In “primis” la Russia avanza la pretesa di gestire la “solita” parte mediterranea della Siria con la presenza dei porti citati, e l'asse Aleppo-Homs-Damasco con relativo contenuto economico, strategico e militare. L'Iran pretende il controllo dell'area al confine con il Libano nel tentativo palese di avvicinarsi alle coste del Mediterraneo e di mantenere, anche geograficamente, più stretti contatti con gli Hezbollah libanesi. La Turchia che non digerisce il poco che il piano Trump le attribuisce, mirerebbe ad entrare in “possesso” amministrativo del nord della Siria, proprio quella che gli Usa darebbero in amministrazione alla SDS sotto la sua attenta supervisione.
Palesemente, le doppie proposte di spartizione confliggono in più punti, tra i quali hanno particolarmente valenza l'opposizione turca al progetto americano di attribuire la zona curda all'amministrazione delle Forze Democratiche Siriane. Ankara non vuole correre il rischio che in Siria, prima o poi, si dia vita ad una “autonomia” curda che potrebbe allearsi o fondersi con quella irachena, creando un pericoloso precedente nazionalistico ai suoi confini che galvanizzerebbe quello curdo turco del PKK. L'altra frizione è rappresentata da Israele e Iran ai confini meridionali. Mentre l'Iran aspirerebbe a collegarsi con il libano sciita degli Hezbollah, Israele intende considerare la stessa zona come area di sicurezza ai suoi confini nord, contro la Siria di Assad ma contro anche l'anti-sionismo degli stessi Hezbollah. Sono i problemi che quotidianamente, in questa fase storica, l'imperialismo si trova a dover affrontare. Li affronta a volte con la diplomazia aggressiva o con l'aperto uso della forza. Nel caso siriano sono entrate in azione tutte e due le linee, anche se la seconda ha avuto per ben sei anni il sopravvento e la prima stenta a decollare a causa dei numerosi attori che sono sulla scena. Il che non esclude che, nella prima delle vie percorribili, quella di un accordo di vertice tra Usa e Russia, intravista nelle tre telefonate scambiate tra Trump e Putin a latere del Convegno di Astana, non ci sia stata la velata proposta degli Usa di non interferire più di tanto nelle complicate vicende siriane in cambio di una promessa di mano libera in Iraq. In questo assolutamente ipotetico caso saremmo in presenza non di uno smembramento di un paese Medio orientale, ma di una parte consistente del Medio oriente stesso. Anche se, va detto, un simile quadro, qualora avesse una minima possibilità di essere non solo pensato ma anche praticato, dopo le recenti manovre americane di replica delle sanzioni contro la Russia, rimarrebbe sulla carta, spalancando contemporaneamente una porta all'intensificazione degli scontri armati che prolungherebbero di anni il massacro siriano e iracheno con il concreto rischio di incendiare tutto il resto dell'area. Purtroppo ai limiti delle “soluzioni negoziali” delle contese imperialistiche, quasi sempre subentra l'uso della forza che tutto distrugge per ricostruire ogni cosa a immagine e somiglianza dei propri interessi.
FD, 4 agosto 2017Inizia da qui...
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