Solidarietà ai lavoratori della GDN Logistica

Nel primo pomeriggio di martedì 30 gennaio, la polizia ha caricato e sgomberato un gruppo di lavoratori della GDN Logistica di San Cipriano Po (Pavia) che manifestavano davanti ai cancelli dell’azienda per chiedere la revoca del licenziamenti e delle sospensioni (dunque per il reintegro) adottati dall’azienda ai danni di alcuni colleghi per il solo fatto di essere “iscritti al Sicobas”. Lo sciopero si protraeva dalla mattina, la carica è avvenuta dopo più di 10 ore di blocco nelle quali i lavoratori in protesta impedivano l’ingresso dei camion all’interno dei capannoni. Il sindacato parla esplicitamente di “politiche repressive e reazione padronale” con “la complicità della Prefettura di Pavia” (in questo caso) che si ripetono in tutta Italia “contro il lavoratori più combattivi”.

Tre lavoratori sono rimasti feriti, soccorsi dal 118 e medicati al pronto soccorso dell’ospedale cittadino, e tra essi una donna di 29 anni. Mezzora dopo la carica, un centinaio di lavoratori hanno manifestato in corteo nel centro di Stradella fino al municipio per solidarietà coi colleghi aggrediti.

Non vogliamo fermarci all’espressione di una formale solidarietà.

La nostra non vuol essere una mera testimonianza di sostegno a parole, che in nulla muterebbe la grave sostanza di tali episodi. Fatti peraltro non nuovi e non meno feroci di altri precedentemente accaduti: basti ricordare la tragica morte - avvenuta alla GLS di Piacenza durante una rivendicazione sindacale - del lavoratore egiziano Abd Elsalam Ahmed Eldanf (53 anni, padre di cinque figli), travolto e schiacciato da un Tir dell’azienda davanti alla quale manifestava coi suoi compagni la notte del 14 settembre 2016.

Quanto accaduto ieri non è il primo né purtroppo l'unico episodio, ma solo l'ultimo in ordine di tempo di una lunga serie destinata ad aumentare di numero e intensità nel prossimo futuro.

Un paio di riflessioni e di indicazioni ci paiono assai più opportune e utili da fare.

  • La crisi agguerrisce la concorrenza (sia sul piano interno che, soprattutto, internazionale), costringendo i padroni ad una corsa sfrenata - e senza remora alcuna – al contenimento dei loro costi, al fine dunque di tenere a freno ogni pur minima rivendicazione di un qualche miglioramento economico e ogni conflittualità che “osi” turbare ritmi e tempi della produzione e della distribuzione. Il tutto imponendo ai lavoratori precarizzazione, flessibilità e, per chi rimane sul posto di lavoro, tempi di lavoro sempre più duri per incrementarne al massimo la produttività e poter così competere rispetto ai concorrenti internazionali.
    In questo contesto, il padrone che siede davanti a noi al tavolo delle trattative non ha più nulla da concedere, neanche le briciole di un tempo. E quando finge di farlo, è perché ha già in mano gli strumenti per neutralizzare immediatamente la falsa concessione.
  • Dunque non si può e non bisogna lottare per migliorare le proprie condizioni economiche? Niente affatto: bisogna lottare eccome, e in modo duro, fermo, organizzandosi e unendosi, ma mantenendo sempre, o acquisendo, la consapevolezza che i padroni, nel contesto di questa crisi mondiale, non possono essere disposti a concedere alcunché di duraturo o di concretamente utile. «Mors tua, vita mea, il tuo salario contro il mio margine di profitto, il costo che tu, lavoratore, costituisci per me contro il mio guadagno»: ecco i termini di uno scontro che la crisi acuisce e rende sempre più feroce.
    La consapevolezza, dunque, che come ogni concessione formalmente ottenuta è destinata ad essere neutralizzata dai padroni (direttamente o per il tramite del loro strumento di dominio: lo Stato), così ogni pratica meramente rivendicativa non può produrre alcun miglioramento reale e duraturo delle nostre condizioni di lavoratori salariati.
    E quindi, in quanto tale, va superato il piano rivendicativo e imboccato quello politico: comprendendo cioè la necessità di dover ribaltare questo sistema del profitto che sul lavoro salariato si fonda, che ci sfrutta, ci precarizza, ci ammazza di lavoro, che non può concederci più neanche un minimo di benessere e di sicurezza per il nostro futuro. E che l’unico modo per farlo è lottare per conquistare il potere politico, e non andare all’arrembaggio elettorale delle istituzioni parlamentari dello Stato dei padroni.
  • Come si può infatti ancora ritenere lo Stato e i suoi organismi tutori del cosiddetto ordine pubblico una entità super partes, neutrale, da poter in qualche modo costringere e schierare a tutela di chi lavora? Lo Stato che da decenni da un lato elargisce alle imprese bonus, regalie, sgravi, agevolazioni, contributi a fondo perduto per centinaia di miliardi, dall’altro lato elargisce ai lavoratori leggi di precarizzazione del lavoro (legge Treu, legge “Biagi”, Jobs act, voucher, ecc.), di drastico taglio ai salari indiretti (stato sociale) e di quelli differiti (pensioni).

Questo ci pare il modo migliore per esprimere – in questo caso specifico come negli innumerevoli altri - una solidarietà e un appoggio reali, concreti, nei fatti: indicare ai lavoratori l’unica strada percorribile, quella della lotta di classe e dell'unità e della solidarietà oltre i rispettivi luoghi fisici di lavoro e dunque su quel territorio nel quale altri lavoratori si trovano isolati nella loro precarietà e nel loro sfruttamento sempre più bestiale.

La strada dello sciopero unitario ad oltranza per il blocco dei ritmi produttivi, ma soprattutto la strada dell'organizzazione autonoma, della creazione di propri organismi di decisione e lotta, fuori e contro i sindacati perché fuori e contro ogni logica sindacalistica, ossia concertativa, contrattualistica, delegante e meramente “rivendicativa sì, ma pur sempre nel rispetto delle compatibilità e necessità dei padroni”, coi quali sedersi ad un tavolo e … trattare.

La strada, dunque, dell'unità contro ogni tentativo di divisione e di contrapposizione perpetrata sia dai padroni che dai sindacati (di vertice o di base) che dallo Stato, per indebolire la compattezza e l'unità, uniche armi in mano ai lavoratori: la falsa contrapposizione tra giovani e vecchi, italiani e stranieri, pubblici e privati, privilegiati e no, del nord e del sud, garantiti e precari ecc.

La divisione e la corporativizzazione delle lotte è il miglior regalo offerto ai padroni, perché è il miglior modo per dividerci. Questa è la politica adottata sinora dalla miriade di sigle sindacali piccole e grandi, più o meno istituzionalizzate, centrali o sedicenti radicali e 'di base', la cui reale gestione sfugge ad ogni protagonismo diretto decisionale e operativo dei lavoratori, e la cui reale pratica resta quella contrattualistica, intesa come accettazione, di fatto, del quadro economico-sociale capitalistico.

Noi diciamo ai lavoratori: se si è costretti a trattare con ci sfrutta e ci opprime, lo si faccia almeno dopo un percorso di autentica lotta di classe, fuori e contro qualunque pratica concertativa col nemico (il padronato) o rivendicazionista fine a se stessa. Saranno gli organismi realmente di base – non sindacali! – espressi dai lavoratori in lotta e condurre, su mandato dei lavoratori medesimi, l'eventuale trattativa, che escluderà per principio le misure carognesche volte a dividere la classe (licenziamenti parziali, aumenti salariali selettivi, per “salvare” gli altri posti di lavoro ecc.).

Il capitalismo mantiene e manterrà sempre il suo dominio sui lavoratori fintantoché riuscirà a convincerli che l'organizzazione del lavoro basata sul sistema del lavoro salariato non può essere cambiata.

Noi sappiamo che così non è. Che un’altra società è possibile e necessaria.

Chi lavora, chi sostiene e manda avanti l’intera “baracca sociale” deve dirigerla politicamente. Deve cambiarne i meccanismi infernali di funzionamento esclusivamente finalizzati al profitto di pochi sulla pelle di tutti gli altri. Deve distruggere politicamente il capitalismo e costruire la vera società comunista.

Il potere ai lavoratori!

Invece del motto conservatore, “Un giusto salario giornaliero per una giusta giornata lavorativa!”, i lavoratori dovrebbero scrivere sulle loro bandiere la parola d'ordine rivoluzionaria: “Abolizione del sistema del lavoro salariato!”.

Marx, Salario, prezzo e profitto, 1865
Lunedì, February 5, 2018