Guerra civile in Venezuela - Una catastrofe economica e umana

Le ultime informazioni ci dicono che a Caracas, ma non solo, le manifestazioni pro e contro il governo Maduro continuano. L'esercito, che è prevalentemente con il presidente eletto, interviene duramente sui dimostranti e si cominciano a contare a decine i morti di piazza.

Non siamo più in presenza di un rischio di guerra civile, ma del suo virulento esprimersi. Maduro da una parte che grida al golpe, Guaidò dall'altra che, auto nominatosi presidente, rivendica il potere. Potere del petrolio, che per Maduro rappresenterebbe la continuazione alla sopravvivenza della casta politica e militare, corrotte sino al collo, grazie proprio alla rendita petrolifera. Il tutto in nome della difesa del socialismo bolivariano che di bolivariano ha poco, se non il percorso nazionalistico, e di socialismo assolutamente nulla. Potere che l'opposizione di Guaidò vuole a tutti costi, sia per sostituirsi nella gestione della rendita petrolifera, sia per continuare nella tradizione della corruttela, male endemico delle borghesie sud americane. Anche in questo caso in nome di una ideologia opposta, ma altrettanto falsa, quella della “vera” democrazia.

In mezzo un popolo di diseredati, ridotti alla fame e alla miseria più nera, portati in piazza a manifestare e, in qualche caso a morire, dalle due fazioni in lotta per i loro giochi di potere, usando la disperazione dei disoccupati (40%), dei sotto occupati, di un proletariato che vive sotto la soglia di povertà da sempre, ma oggi in termini drammatici.

Alla base di tutto ciò, come abbiamo avuto modo di scrivere nel precedente numero di Battaglia Comunista, c'è la devastante crisi economica derivante dalla diminuzione del prezzo del greggio e aggravata dell'embargo americano. I numeri della crisi sono terribili. L'inflazione è talmente alta da essere calcolata ora dopo ora. Il PIL in 5 anni è passato da 480 miliardi di $ agli attuali 93. L'estrazione di petrolio è diminuita di quasi la metà. Il 91% della popolazione vive sotto la soglia della povertà.

In questa catastrofe economica e umana che rischia di fare una fine peggiore di quelle che hanno fatto l'Iraq dal 2003, la Libia dal 2011, la Siria nello stesso anno, per non parlare dell'Afghanistan dei talebani e il Sudan che è stato spezzato in due parti, non potevano mancare le voraci fauci dei due grandi imperialismi, Russia e Usa. Trump spera di rovesciare il governo Maduro per completare l'opera di riconquista del Sud America e di consentire, con un governo più compiacente, una maggiore possibilità da parte delle Major americane sull'estrazione e la commercializzazione del petrolio e del gas venezuelani. Trump usa le solite armi: l'intelligence militare in loco, finanziamenti e armi all'opposizione di Guaidò, embargo nei confronti del Venezuela e, non da ultimo, la minaccia di una aggressione militare in grado di dare la spallata definitiva a Maduro e al suo esercito, se le misure precedenti non dessero gli effetti sperati.

Sulla stessa lunghezza d'onda, ma dalla parte opposta a difesa di Maduro, si è schierata la Russia, minacciando gli Usa che, in caso di attacco al Venezuela, Mosca non starebbe con le mani in mano. Innanzitutto perché non potrebbe assolutamente permettere un reingresso americano in Sud America senza colpo ferire. In seconda battuta perché il presunto socialismo bolivariano, già dai tempi di Chavez, rappresentava un ottimo alleato e Maduro deve essere la sua naturale continuazione. Infine ci sono il solito petrolio e il gas venezuelani che fanno gola anche alle compagnie russe che lì hanno trovato casa da tempo.

Ma in atto c'è qualcosa di più. La crisi venezuelana è importante per le ragioni che abbiamo visto, interessa un intero sub continente come quello americano, ma è solo un tassello di un quadro di guerra che si sta pericolosamente ampliando. Mentre Washington alla fine del 2018 aveva solennemente dichiarato di aver sconfitto l'Isis e lo jihadismo (cosa peraltro non vera), oggi sta recuperando i resti di Daesh e lo stesso al Baghdadi in chiave anti sciita contro l'eterno nemico della Repubblica degli Ayatollah, rinfocolando e reinventando la competizione armata tra sciita e sunniti che hanno letteralmente devastato buona parte del Medio Oriente. Area che a tutt'oggi continua a subire le conseguenze della guerra che, per molti versi, è ancora in atto come in Siria, in Libia, nello Yemen e che la perdurante crisi del capitalismo rischia di inserire anche in Venezuela, senza l'orpello dello scontro religioso. Nel 1980 il gioco contro l'Iran degli Ayatollah ebbe risultati alterni. Oltre all'embargo gli Usa diedero via libera a Saddam Hussein perché annientasse la neonata repubblica di Khomeini, rea di aver scacciato gli Usa dal suolo iraniano e dal suo sottosuolo petrolifero. Ma nel 1990, quando Saddam Hussein, pieno di debiti per gli 8 anni di guerra contro i Pasdaran, tentò di conquistare il Kuwait, si trovò contro Washington per il semplice motivo che gli interessi dell'imperialismo maggiore non coincidevano più con quello minore. Lo stesso vale per l'aggressione alla Libia di Gheddafi(2011) le cui conseguenze si fanno sentire ancora oggi sotto forma di guerra civile che, come al solito, vede le due super potenze e i loro alleati di strada attestate ai lati opposti del conflitto, dopo che tutti i tentativi di spartizione della Libia sono miseramente falliti..

Oggi potrebbe toccare al Venezuela di Maduro con la farsa delle democrazia che, in questo caso, non verrebbe esportata con la forza, ma soltanto aiutata con la stessa forza di prima, in nome della salvezza del popolo venezuelano contro la dittatura del chavismo. Tutta colpa dell'imperialismo americano? Sì, ma solo in parte.

In questo quadro la Russia è stata costretta a giocare di rimessa. Lo ha fatto in Siria con successo. Lo sta facendo in Libia appoggiando Haftar contro il governo di Tripoli. Lo fa con l'Iran sostenendolo contro gli embarghi americani. Lo farà con il Venezuela di Maduro, in caso di intervento americano.

Una sola considerazione a termine di questa analisi. Che gli imperialismi giochino d'attacco o di rimessa non dipende dalla loro buona volontà nell'affrontare le questioni di crisi internazionali, dipende soltanto dai rapporti di forza, dalle alleanze fatte e da quelle da fare, dalle opportunità che si aprono o, banalmente, da chi arriva per primo a mettere le mani sul malloppo, costringendo l'imperialismo concorrente a rispondere a colpo subito. Se oggi siamo costretti a commentare solo episodi di guerra, a ricercare le cause contingenti dei vari conflitti e a fare il conto dei morti e delle devastazioni ambientali che gli imperialismi producono, è soltanto perché la crisi in atto sta criminalmente accelerando gli scontri. Il capitalismo mondiale non può uscire da una crisi che si basa su di una troppo alta composizione organica del capitale (troppe macchine e troppo pochi lavoratori in proporzione) che annichilisce la produzione, ne abbassa i saggi del profitto, aumenta la speculazione e porta verso la guerra come unica soluzione ai suoi insanabili problemi. Ieri guerra locale in Iraq, poi in Siria e Libia. Oggi in Venezuela e poi si andrà verso una guerra i cui confini la renderanno mondiale con scontri diretti e non più per procura come adesso.

FD
Lunedì, May 6, 2019