Bilanci in rosso per l’economia e la finanza del Capitale

Lo stato di salute dell’imperante “ordine economico-sociale” è più che preoccupante: un trend negativo per il capitalismo, che allarma gli stessi analisti borghesi, in tutto il mondo dove persiste quella tendenziale caduta del saggio di profitto che rappresenta oggi uno dei principali problemi – addirittura di vita o morte – che attanagliano il capitalismo con lo sviluppo delle forze produttive. La massa totale del plusvalore aumenta, ma diminuisce il saggio di profitto in rapporto al capitale investito, la cui composizione organica è aumentata di oltre il 60% in mezzo secolo. Segue il rimpianto per il cosiddetto periodo "neoliberale" (1982-1997) quando il tasso del plusvalore fu +16%, con una composizione organica del capitale +11%. Merito del massimo sfruttamento della forza-lavoro, con un rialzo anche del saggio di profitto, ma fra alti e bassi e tendendo sempre ad una diminuzione, tanto che dal 1997 anche il tasso degli utili Usa scendeva ufficialmente di circa il 5% (con la composizione organica a +17% e il saggio del plusvalore a +4%). Nei conti societari si inserivano quei “profitti fittizi” provenienti dai movimenti astratti di azioni, obbligazioni e derivati (circa 2,2 milioni di mld, cioè 33 volte il Pil mondiale).

I dati sono forniti dagli “esperti” borghesi mentre si concentrano – fiutando il peggio – i poteri forti, le oligarchie industriali e finanziarie con la coorte di privilegiati che ideologicamente e politicamente si è posta al loro servizio. Un insieme di totalitarismo (materiale e… spirituale) al quale ci si aggrappa invocando politiche monetarie da ultima spiaggia. Vedi la Fed in affanno, coi tagli dei tassi e le distribuzioni di QE: figurerebbe poi con un attivo a 4 trilioni di dollari acquistando il debito statale Usa (oltre 22mila mld di dollari), con “trasferimenti” che figurano in attivo e “accomodano” condizioni finanziarie che sono invece al lumicino… Per la Fed si tratta di 4.500 mld di dollari in cataste di titoli fra i quali le famose obbligazioni di Freddie Mac e Fannie Mae, i due colossi dei mutui collassati nel 2008.

Si mormora che la Fed potrebbe arrivare a 6,5 trilioni, cioè il 31 per cento del Pil americano; la Bce ha pur essa un “attivo” di questo tipo: il 41% (4,7 trilioni di euro) del Pil della UE. Se dovesse rispondere a nuovi tagli di oltre Oceano, beh, la follia sarebbe al culmine per un sistema sospinto colpo dopo colpo dai sussulti della irrecuperabile crisi nei settori produttivi di “ricchezza”. I quali poi assorbono, sempre nella CEE, solo il 27% della liquidità emessa col QE dalla BCE, mentre il 73% va nelle tasche speculative dell’alta finanza. E a proposito di ricchezza, gli Usa hanno ammesso che dopo i tracolli del 2008, le famiglie medie hanno perso oltre 19mila mld di dollari, con un loro reddito annuo fermo (51mila dollari) a 25 anni fa.

Dunque, si stringe la cintura di debiti e bolle finanziarie accumulatesi nel mondo nonostante i blocchi dei tassi e le illusioni di salvifiche manovre monetarie. Vedi ancora la Fed che a fine 2018 ha provato a rialzare i tassi dei Fed Funds e poi ha rallentato le iniezioni di una liquidità che vede il dollaro indebolirsi anche come valuta di riserva: lo dice lo SWIFT (sistema di scambio per i trasferimenti interbancari). E’ vero che oltre la metà del commercio internazionale è ancora fatturata in dollari, ma la quota Usa tende a ridimensionarsi. E i Bond Usa detenuti dai cinesi sono in diminuzione, mentre i russi in un anno se ne sono liberati per circa 90 mld di dollari e hanno incrementato le riserve in yuan fino al 15% del totale.

Investimenti e consumi (ossigeno per il sistema) sono fermi: sarebbero 13 mila mld di dollari i debiti sovrani mondiali con rendimenti negativi. Una cifra spaventosa, con un vorticoso giro di imbrogli mentre aumentano le infiltrazioni di riciclaggio di stampo criminoso, dietro gli aggressivi interventi di Assicurazioni, Fondi di investimento e gestione. Ci si aggira fra cumuli di astratti simboli e di cartacei titoli del tesoro e obbligazioni immobiliari di agenzie statali (ceduti, ripresi, azzerati…).

In una sua nota finanziaria (16 ottobre), il FMI lanciava l'allarme:

Nel caso di un brusco rallentamento delle attività, il 40% del debito delle imprese nelle 8 più grandi economie, vale a dire 19.000 miliardi di dollari, sarebbero esposti ad un rischio di default, superiore al livello registrato nell'ultima crisi finanziaria.

Infatti, nel corso dei primi tre mesi del 2019 il debito totale delle imprese manifatturiere è arrivato al 91,4% del PIL mondiale. Seguono i Governi con un debito all’87,2% del PIL, e poi quello delle famiglie (59,4%). Tutti sull’orlo di un profondo baratro, nonostante con i bassi rendimenti dei Bond, gli Usa abbiano contenuto i costi di rifinanziamento del debito. Si aggira quindi lo spettro del 2008 quando la Fed dovette acquistare 3.400 mld di Titoli stampando moneta giorno e notte, “creandola” dal nulla senza un corrispettivo valore in merci prodotte. Una svalutazione del dollaro che fu in parte “competitiva” per gli Usa ma non ebbe alcun “effetto leva”. A parte il naufragio delle ricette keynesiane (alzare i salari e la produttività!) e le spinte della Reaganomics per un abbassamento delle aliquote fiscali ai ricchi. Ed ora continua il calo dell’occupazione “produttiva”: le innovazioni tecnologiche, necessarie per competere sui mercati, minano l’unica reale fonte della produzione di plus-valore.

Merita attenzione anche l’Asia, dove si diffonde la paura di una crisi finanziaria specie nei paesi fino a ieri “emergenti”. I debiti di molte imprese del continente sono dati al 150 del PIL; quelli privati anche peggio. Le istituzioni cinesi sarebbero proprietarie della metà di molti crediti, solo in India per 160 mld: trema la Banca Asiatica di Sviluppo e, secondo la società di consulenza Deloitte LLP, i debiti in sofferenza sarebbero 640 mld di dollari. Molti di proprietà cinese, costringendo Pechino a salvataggi in extremis (Baoshang, Banca di Jinzhou, Hengfeng Ban). Senza contare le “imprese zombi” prossime al fallimento…

In un mercato commerciale “inquieto”, anche il Pil cinese frena (sono finiti i tempi delle due cifre!) e il capitale “socialista” soffre. Usa e Cina litigano sui dazi, ma intrecciano “affari”: Pechino ha dato campo libero a Deutsche Bank, Bnp Paribas e JpMorgan per la creazione di joint venture. Inoltre gli Usa devono tener conto che la Cina, pur avendo diminuito l’acquisto dei suoi TBond, mantiene un notevole flusso finanziario in direzione di Wall Street. E per i prodotti agricoli americani, Pechino versa la bella cifra di 50 mld di dollari, assicurando così l’appoggio a Trump degli agricoltori del MidWest.

Si notino gli allarmi della Fed per una certa carenza di dollari, di cui risentirebbe anche la Banca “socialista cinese”, fortemente esposta per i finanziamenti alla “Via della seta”. Una nota “preoccupante” é poi quella dei cosiddetti default sul mercato interno di Pechino, per un controvalore record di oltre 119 mld di yuan, quattro volte quello del 2017. Ecco allora il calo degli investimenti cinesi (National Bureau of Statistics of China, Press Release – 2019) assieme al saggio e alla massa del profitto: si parla di un meno 4,79 per il primo e un meno 14 per il secondo nei primi due mesi dell’anno… E su Pechino si aggira il debito della China Minsheng Investment Groupc: oltre 230 mld di yuan (a metà 2018). Insomma, avanzano nubi oscure offuscanti un Pil sempre meno dinamico: la Banca Centrale inietta liquidità spacciata per “nazional-socialista” e il paziente – nel settore industriale – si agita con scadenze di pagamento di obbligazioni il cui controvalore sarebbe di 43,7 mld di dollari)…

Concludiamo con auguri di buon anno alla nostra amata Vecchia Talpa!

DC
Domenica, January 19, 2020