Fase 2: la salute di tanti sacrificata per i profitti di pochi

Sono ormai settimane che sentiamo parlare di riapertura. Il problema della ripresa economica viene posto sullo stesso piano, se non addirittura al di sopra, di quello dell'emergenza sanitaria. Il bombardamento mediatico si è spostato dal problema sanitario a quello della ripresa economica, supportando il tutto con fiumi di previsioni economiche catastrofiche (non che non lo siano, ma un po’ ci marciano) per l'economia nazionale, secondo una prassi consolidata e già vista più volte, basata sulla diffusione di paura e incertezza del futuro sulle quali far leva per ottenere consenso. L'attenzione dei media, così come di molti politici del palcoscenico istituzionale al soldo di Confindustria, si è spostata dalla progressione del contagio ai numeri negativi del PIL, del fatturato delle aziende, al mancato export che potrebbe restringere fette importanti del mercato internazionale, con il conseguente spauracchio di numerosi licenziamenti, se le aziende dovessero continuare a restare chiuse; della serie: riaprire conviene a tutti, padroni e lavoratori.

Fase 1 e lockdown - La realtà diversa da come ce la raccontano

Intanto dobbiamo verificare quanto di vero ci sia stato nel lockdown e quanto invece vi sia di propaganda. Prendiamo ad esempio la Lombardia, centro nevralgico del capitalismo produttivo italiano con oltre 800 mila aziende ed epicentro del contagio. Di queste 800 mila aziende a fine marzo erano ancora attive 450 mila attività (dati Istat). Questo è stato possibile perché l'accordo del 25 marzo tra governo, confindustria e sindacati (CGIL, CISL, UIL) permetteva alle aziende non essenziali di proseguire la loro attività produttiva semplicemente dichiarando il fatto alle prefetture, le quali avrebbero dovuto verificare la legittimità della continuità produttiva (produzioni essenziali, strategiche per l’economia nazionale o impossibilità di fermare la produzione). Risultato? Delle oltre 23 mila richieste alla prefettura, i controlli sono stati circa 228! Il che si spiega facilmente con il silenzio-assenso delle prefetture.

A livello nazionale le richieste di proroga alle prefettura sono state oltre 100 mila, senza contare la montagna di richieste inoltrate alla camera di commercio per modificare i codici ateco e poter così rientrare nella lista delle attività “essenziali”.

La scelta adottata dalle parti in causa, sindacato incluso, è stata chiara e consapevole: lasciare una porta aperta alla continuità produttiva, senza nessuno che potesse controllarla. Del resto sulla scarsa efficacia dei controlli sui luoghi di lavoro si era a conoscenza da tempo, figurarci in piena pandemia!

Così mentre milioni di persone erano recluse in casa, tra retorica patriottarda e criminalizzazione interessata, nonché a senso unico, di quei pochi che venivano beccati a passeggiare, milioni di lavoratrici e lavoratori - oltre 14 milioni sui 23 milioni impiegati ufficialmente - erano comandati al lavoro per soddisfare non le necessità di una comunità (inesistente) ma quelle del profitto industriale e non.

Milioni di lavoratori ogni mattina si dirigevano e si dirigono tutt’ora a lavoro, stipati nei limitati mezzi pubblici disponibili, comandati a lavorare senza dpi né distanziamento di sicurezza, gomito a gomito coi loro compagni, col rischio di contrarre il virus, diffonderlo nei loro nuclei familiari e morire. È proprio attraverso questa dinamica che si è esteso il contagio in Lombardia e specialmente nel bergamasco e nel bresciano, luoghi strategici dell'industria nostrana, con forti rapporti commerciali con la Cina per oltre 1,3 miliardi annui (joint-venture specialmente nel settore tessile in Val Seriana).

Mentre a fine gennaio il virus comincia a mietere le prime vittime, intasando le terapie intensive lombarde, nonostante il blocco dei voli per la Cina, i rapporti diretti tra imprenditori italiani e cinesi continuano, aggirando il blocco attraverso scali internazionali (Russia e Thailandia), perché la macchina del profitto non può fermarsi. Nel mese di febbraio la situazione si aggrava, i morti sono centinaia, la paura cresce, specialmente tra gli operai, ma la Lombardia non viene resa zona rossa grazie alla pressione della confindustria e al beneplacito della politica locale (PD E LEGA), di governo e regione, che anzi esorta la popolazione a non smettere di produrre e consumare. Tanto è sfacciata l'arroganza dei padroni che in rete inizia a girare un video prodotto da confindustria #Milanononsiferma #l'Italianonsiferma, che anche il sindaco di Milano ed altri rilanciano.

La borghesia ed i suoi reggicoda politici hanno provocato la diffusione della pandemia per non bloccare la produzione e non avere perdite economiche e di fette di mercato estere. Per loro i morti sono un giusto prezzo da pagare, pur di non fermare i profitti. La salute di tutti, lavoratori in primis, non vale niente perché il profitto è tutto.

E così, dopo quasi due mesi di “lockdown” - piegato alla doppia esigenza di alleggerire il carico sulle strutture sanitarie ormai al collasso, da una parte, e garantire la continuità della produzione, dall'altra - e con numeri tutt’altro che tranquillizzanti sulla progressione dell'epidemia, come un mantra si ripete:“riaprire tutto!

Certo mettono in conto qualche nuovo focolaio, specialmente sui luoghi di lavoro, ma che qualche morto sia accettabile sulla bilancia economica non è oggi che lo scopriamo. Questa pandemia ci ha mostrato, con una chiarezza mai vista, quanto questo sistema economico e sociale renda lavoratrici e lavoratori carne da macello sacrificabile sull'altare del profitto. Non solo per gli operai e le operaie, delle fabbriche e della logistica, ma anche per il personale sanitario mandato in prima linea nella lotta al virus, irreggimentato al lavoro sino a morire. Dietro la retorica dell'eroismo patriottico si nasconde la condanna al sacrificio obbligato di questi lavoratori. Un sacrificio imposto dalla condizione di un SSN colpito da decenni di tagli a strutture, personale e servizi da cui è maturata una rifunzionalizzazione del servizio pubblico a logiche di aziendalizzazione basata su criteri di economia e, al contempo, uno spostamento di risorse effettive verso la sanità privata che anche in piena emergenza si è voluta riproporre come “modello di riferimento centrale”, come l'ospedale della Fiera di Milano.

Fase 2: come la fase 1 anzi peggio

Si parla di necessità di accordo tra parti sociali (sindacati), padroni e governo sulle norme che le aziende devono tenere per poter riaprire. È un bel teatrino, perché sebbene l'accordo dovrà essere nazionale, poi dovranno trovare accordi regione per regione ed addirittura, cosi come per la contrattazione, azienda per azienda, con una capitolazione sindacale già scritta. In Lombardia Fontana blatera delle 4 D (diagnostica, distanziamento, dispositivi e digitalizzazione), ma se non sono stati capaci di controllare le aziende aperte durante il lockdown, come pensano di poterlo fare nella fase del “liberi tutti”? Ovviamente la domanda è retorica, non possono e non vogliono farlo, l'importante è far ripartire il sistema paese, il resto è noia. Perché la pandemia è brutta ma il crollo dei profitti molto peggio.

Alla fase 1, fatta di comando al lavoro per milioni di proletari esposti al contagio per non inceppare la macchina del profitto, decurtazioni salariali e ferie forzate per chi un contratto lo aveva ed è rimasto a casa, di smart working tutt'altro che smart, di perdita del reddito e nuova povertà per chi lavorava in nero, di restrizione delle libertà personali e della intensificazione dei dispositivi di controllo sociale, seguirà la fase 2. La fase 2, quella del comando forzato ed irreggimentato al lavoro (per chi un lavoro ce l'avrà ancora) con molte garanzie messe a rischio, dalla mancanza di dpi e di rispetto da parte delle aziende delle norme anti contagio, al peggioramento dei ritmi, degli orari e di tutte le condizioni materiali di produzione con una intensificazione dello sfruttamento reale, alla compressione dei cosidetti “diritti del lavoro”, pur formalmente riconosciuti, per contrastare la possibile ripresa della protesta operaia fin dal suo nascere e sterilizzarne le possibilità di sviluppo con tutti i mezzi a disposizione : da una azione che limita e ridisegna il diritto di sciopero in maniera costante sul piano generale, agli accordi fra padronato e cengtrali sindacali che costituiscono la gabbia costruita attorno alla protesta operaia a salvaguardia degli interessi padronali, alla azione più capillare e pervasiva nei posti di lavoro che vuole intimorire e sanzionare in particolare tutti quei lavoratori che si mobilitano o anche semplicemente denunciano pubblicamente le condizioni in cui sono costretti a lavorare, in particolare sul nodo della sicurezza. Oggi in particolare questa “pubblicità negativa” su questo terreno deve essere evitata e quindi silenziata e colpita il più possibile. Di fatto il peggioramento delle nostre condizioni di lavoro e di vita, non può che sostenersi con un controllo sociale sempre più esteso e un comando di fabbrica sempre più ferreo, fattori presentati strumentalmente come funzionali alla gestione dell’epidemia, ma che si configurano sempre più come armi contro chi tenterà di rialzare la testa. Poi verrà la fase 3, quella dei sacrifici che saremo chiamati a fare perché, come dicono loro, siamo tutti sulla stessa barca, peccato si dimentichino di dirci che su questa barca c'è chi è schiavo e chi è padrone.

Anche noi vogliamo che si riparta... ma con la lotta di classe contro il capitale!

Il piano che padroni e governo hanno in mente è questo: maggior sfruttamento, precarietà, subordinazione, incertezza e sacrifici. Farci pagare la crisi del loro sistema. Ma che il loro piano passi dipende da NOI. Se ci faremo trovare succubi, avranno vita facile, ma se saremo combattivi potrebbero trovare un argine. Se daremo seguito a quelle fiammate di lotta proletaria che, attraverso scioperi spontanei e blocchi della produzione (in barba al divieto di sciopero!), hanno inceppato la macchina del profitto e della morte al grido "la nostra salute vale più del vostro profitto", potremo ricominciare a marcare una linea netta che divida il terreno degli interessi in campo: quelli del profitto, da una parte, e quelli di lavoratrici e lavoratori, dall'altra.

Questo primo passo è indispensabile e potrà concretizzarsi solo attraverso un rifiuto delle logiche sindacali (sempre succubi degli interessi del capitale nazionale), ma porta con sé un altro passaggio assolutamente necessario e al tempo stesso politico: se la pandemia ci ha dimostrato chiaramente l'inconciliabilità dei nostri interessi, della salute della collettività, con quelli del profitto, ci ha al tempo stesso dimostrato che il sistema capitalista è il vero virus sociale da combattere.

Non ci sarà fine alle crisi (sanitarie, economiche ed ambientali) finché il sistema del profitto si imporrà sulle nostre vite, non ci sarà vita degna di essere vissuta finché ci sarà il capitalismo. Per tale ragione dobbiamo tornare ad immaginare un altro mondo possibile ed una strategia per poterlo realizzare. Strategia che vede al centro la costruzione dello strumento politico della lotta di classe e della sua indipendenza politica ed organizzativa: il partito di classe, rivoluzionario ed internazionalista.

Per difendere davvero le nostre condizioni di vita e di lavoro saremo costretti a superare gli steccati sindacali che vorrebbero legarci alle necessità dell’economia nazionale, ma se non sapremo legare questo passaggio immediato alla prospettiva politica comunista, continueremo a vivere ma soprattutto a morire di capitalismo.

Per difendere le nostre vite dobbiamo combattere il capitalismo fino a sconfiggerlo. Non ci sono altre strade.

Martedì, May 5, 2020

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.