La “Patrimoniale”: cerotto per le ineguaglianze o piede di porco ridistribuivo? Sicuramente, fumo negli occhi del proletariato

Parte prima

Un fantasmino si aggira per l'Europa, quello della “Patrimoniale”.

Così, con una battuta, si potrebbe riassumere quello che ultimamente è diventato uno dei cavalli di battaglia di tanta parte della “sinistra”, dentro e, soprattutto, fuori dal Parlamento, non solo in Italia.

La “Patrimoniale”, come si sa, è una forma di imposizione fiscale che colpisce i ricchi, in particolare i più ricchi, coloro che dispongono di un patrimonio, appunto, molto elevato, con un'aliquota progressiva che cresce in base al livello del patrimonio stesso. Da molti è considerata una misura di giustizia sociale, perché ridistribuirebbe una parte della ricchezza, concentrata in poche mani, ai settori più economicamente svantaggiati della popolazione, Inoltre, aumentando la capacità di spesa, allargherebbe il mercato, contribuendo a rimettere in moto l'economia, soprattutto in questo periodo, dominato dagli effetti drammatici della pandemia. In ogni caso, dicono i suoi sostenitori parlamentari, non sarebbe una manovra sovversiva, espropriatrice della borghesia, ma solo la traduzione di un dettato costituzionale, secondo il quale i cittadini devono concorrere al bene pubblico in proporzione delle loro possibilità economiche.

In tal senso, due deputati, Fratoianni di LEU e Orfini del PD, avevano presentati la loro proposta di “Patrimoniale”, subito bocciata dalla coalizione governativa di cui fanno parte e, va da sé, dal centro-destra, con motivazioni varie, non escluse alcune umoristiche, data l'inconsistenza surrealista delle motivazioni medesime. E sì che la proposta era molto moderata, perché a fronte dell'abolizione di alcune imposte – tra cui l'IMU sulla seconda casa – prevedeva una tassazione dello 0,2% a partire da una base di 500.000 euro, per arrivare al 2% per i patrimoni superiori ai 50 milioni di euro. Il numero di coloro che sarebbero stati toccati varia a seconda delle stime, ma in ogni caso pare che avrebbe interessato il 6% dei contribuenti, con un gettito fiscale stimato attorno ai dieci miliardi, o forse qualcosa in più. Si sarebbe trattato di una misura simile a quella attuata dal governo “di sinistra” spagnolo, anch'essa molto timida, molto più timida, o di quella presa dalla sinistra boliviana, da poco tornata al governo dopo il golpe parlamentare del novembre 2019.

Fatto sta che, nonostante la timidezza, l'intero arco parlamentare non ha nemmeno preso in considerazione un intervento che, al massimo, avrebbe messo delicatamente le mani nelle tasche degli straricchi per alleggerirli di qualche spicciolo, a paragone delle ricchezze possedute. Una prova in più, se si vuole, che per la genìa di avventurieri e parassiti seduti sugli scranni parlamentari, il popolo di cui parlano, di cui pretendono di rappresentare gli interessi, in realtà coincide con una sola classe, quella borghese, a cominciare dai suoi vertici.

D'altra parte, aumentare le tasse sui redditi/patrimoni più alti vorrebbe dire invertire la politica fiscale seguita dai governi del mondo intero da una cinquantina d'anni.

Per restare da queste parti,

se avessimo mantenuto i criteri di allora [fino al 1974, ndr], oggi le aliquote Irpef andrebbero dal 12% all'86%, invece che avere l'attuale vergognosa forbice che va dal 23% al 43% (1).

È infatti dagli anni Settanta del secolo scorso che si comincia ad abbassare le tasse per i redditi più alti, mentre si alzano per quelli più bassi, e non a caso: di fronte al manifestarsi delle difficoltà del ciclo di accumulazione a scala mondiale, ossia della caduta del saggio di profitto, la borghesia cerca di correre ai ripari in tutti i modi. Uno di questi è proprio quello di alleggerire la tassazione sui ricchi (capitale compreso, naturalmente), con la convinzione – così almeno viene spacciata – che se si diminuiscono le tasse in alto, la ricchezza risparmiata “sgocciolerebbe” in basso, beneficiando ogni classe sociale, perché gli imprenditori ricomincerebbero a investire, creando così ricchezza per tutti. Ragionamento che, in apparenza e secondo una certa logica formale, non fa una grinza, se non fosse che il capitale viene investito nella “economia reale” solo se è in grado di assicurare un saggio di profitto adeguato all'entità dell'investimento, nel quadro di quella determinata composizione organica. Così però non è stato e non è, visto che il livello degli investimenti si mantiene basso e il denaro risparmiato con l'alleggerimento fiscale prende per lo più la via della speculazione finanziaria. Infatti, nonostante in questi decenni lo sfruttamento della forza-lavoro sia cresciuto in ogni forma, le condizioni di esistenza del proletariato siano costantemente peggiorate, sfruttamento e peggioramento – può sembrare un paradosso, ma non lo è – non sono ancora sufficienti per dare vita a un ciclo di accumulazione ascendente o, detto in altri termini, a una nuova fase di “prosperità”.

L'abbassamento delle tasse per i ricchi e l'aumento per chi ha meno – dunque, il proletariato e parte della piccola borghesia – è una delle cause della crescita enorme delle disuguaglianze sociali, della povertà e dell'impoverimento, eppure il “meno tasse per tutti” continua a essere uno dei pifferi più efficaci con cui ipnotizzare l'elettorato, anche quello “popolare”.

Se quella, in sintesi, è la “dottrina fiscale” del cosiddetto neoliberismo, la multiforme area del riformismo di sinistra, come si diceva più indietro, è invece convinta che seguendo la strada opposta, cioè innalzare la tassazione sui redditi/patrimoni più alti, sia la strada da percorrere per uscire dalla crisi e dagli sfracelli economico-sociali causati dal coronavirus. Il gettito fiscale così accresciuto, può essere utilizzato per restaurare i servizi sociali (cominciando con la sanità), istituire o potenziare forme di sostengo al reddito, soprattutto per i disoccupati e i sottoccupati (il mondo della precarietà), nonché per mettere in atto la riconversione “verde” della società. Il risultato sarebbe appunto un gigantesco aumento della capacità di spesa e, quindi, una ripresa economica su basi più eque ed ecosostenibili. Il tutto vedrebbe, naturalmente, un ritorno in grande stile del capitalismo di stato classico, vale a dire della gestione diretta di alcuni settori portanti dell'economia da parte dello stato.

Anche in questa versione, però, il pensiero borghese vende fumo, non importa quanto consapevolmente, perché come il suo fratello-coltello neoliberista, non sa vedere nella insufficiente valorizzazione del capitale, cioè nella troppo bassa estorsione di plusvalore alla forza-lavoro, l'origine e la persistenza della crisi. Tutti e due saltano il punto di partenza, eludono la questione di fondo, che credono di risolvere con i giochi di prestigio fiscali, ora a favore dell'offerta, ora a favore della domanda (per usare il linguaggio borghese). Lo stesso FMI, dopo aver predicato per anni spietate politiche “dell'offerta” (tagli delle tasse ai ricchi, tagli ai salari, all'occupazione ecc.), puntualmente messe in pratica dai governi, ora fa una parziale marcia indietro e pensa che bisognerebbe tassare di più anche i profitti delle imprese più redditizie, per tenere in carreggiata il sistema capitalista mondiale, il che comprende l'aiuto alla popolazione collocata in fondo alla scala sociale dagli effetti della pandemia:

Questo [l'aumento delle tasse per i ricchi] aiuterebbe a pagare per i servizi essenziali, come la sanità e le reti di assistenza sociale durante una crisi che ha colpito in modo sproporzionato i segmenti più poveri della società (2).

Se il FMI, rappresentante del “capitale in generale”, dice cose che sicuramente irritano i “molti capitali(3) (i singoli padroni), significa che una delle teste pensanti della borghesia, che ragiona secondo l'interesse complessivo del sistema, è preoccupata delle possibili esplosioni sociali. Non è però meno preoccupata delle prospettive economiche poco incoraggianti e per questo, mentre auspica il mantenimento dell'intervento statale (e delle banche centrali), ritiene che l'aiuto dello stato debba essere selettivo ossia debba andare alle imprese in grado poi di stare sul mercato con le proprie gambe, mentre le altre – le cosiddette imprese zombie – che vadano incontro al loro destino, cioè al fallimento. In pratica, prospetta una decisa svalutazione del capitale esistente secondo le regole del “darwinismo economico” (sopravvivenza del più adatto), accompagnata dall'aiuto selettivo dello stato alle imprese “meritevoli” (altra forma di capitalismo di stato) e dalla messa in atto o dal mantenimento di ammortizzatori sociali per impedire o controllare eventuali esplosioni di rabbia sociale. Naturalmente, per non smentirsi, si dovranno tagliare il più possibile le spese improduttive, a cominciare, manco a dirlo, dai lavoratori pubblici. Per inciso, le raccomandazioni del FMI non sono molto diverse dalle conclusioni di un documento elaborato a fine dicembre dal “Gruppo dei 30” (4), di cui Draghi è l'esponente più noto, e riecheggiano quanto il finanziere Buffet va dicendo da anni ossia che per tenere assieme una società che sta scricchiolando da più parti, è necessario che i possessori dei patrimoni più alti comincino a pagare le tasse per lo meno come i loro dipendenti, che subiscono un livello di imposizione fiscale più alto. Naturalmente, benché queste considerazioni vengano dai piani altissimi del capitale (che siano sincere o meno, è naturalmente da vedere...), scivolano via senza colpo ferire. Un parte non indifferente della borghesia, se dovesse pagare le tasse dovute, vedrebbe il margine di profitto ridursi, così come il tenore di vita condotto “al di sopra delle proprie possibilità”. Anche per questo è dubbio che i governi - sovranisti o non sovranisti – possano davvero calcare la mano fiscale sui ricchi: c'è in gioco, tra le altre cose, la comoda poltrona parlamentare che nessun “rappresentante del popolo” si sente di rischiare approvando leggi che, in genere, padroni di ogni stazza vedono appunto come fumo negli occhi, anche se fossero prese per il bene del loro sistema sociale.

Parte seconda

Se la borghesia si spreme le meningi per cercare soluzioni a questa crisi epocale, ipotizzando persino una parziale revisione delle politiche fiscali degli ultimi decenni, anche da tutt'altra parte la leva tributaria è diventata uno degli strumenti principali con cui si ritiene di mettere a cuccia l'aggressività borghese e far affluire nelle tasche esauste del proletariato favolosi “ristori”.

Ci stiamo riferendo, va da sé, a quell'area politica gravitante attorno al SiCobas, che ultimamente ha figliato organismi di natura ibrida – sindacale e politica assieme – i quali, pur nelle sigle diverse, spesso sono animati dalle stesse persone e/o hanno programmi molto simili, per non dire uguali. Dal Patto di unità d'azione anticapitalista, all'Assemblea dei Lavoratori/trici combattivi e altri ancora, è stata stilata una lista della spesa di obiettivi da raggiungere, qui e ora, che rappresenta “al meglio” l'essenza del radical-riformismo.

Per sua natura, questa visione della lotta anticapitalista pensa che si possa ottenere un anticipo del comunismo non solo dentro gli attuali rapporti di produzione (e dunque di distribuzione), non solo dentro le strutture politico-istituzionali attuali – lo stato borghese – ma addirittura nel bel mezzo di una delle crisi più devastanti della storia del capitale. È una visione estremamente dannosa, catastrofica ai fini della lotta di classe. In primo luogo, perché non ha niente a che vedere con la realtà e, come si dice, scambia i propri desideri per la realtà; poi, ma non secondariamente, perché invischia in queste illusioni a buon mercato frange significative del proletariato più combattivo o meno rassegnato, oltre che di parecchi compagni/e sinceramente convinti che questa specie di “tradeunionismo rivoluzionario” (una contraddizione in termini) sia realmente praticabile. La “lista della spesa” è nota e, in ogni caso, facilmente reperibile in rete (per esempio, sul sito del SiCobas): si va dal “salario medio garantito per disoccupati, sottoccupati, precari e cassintegrati”, al classico “riduzione drastica e generalizzata dell'orario di lavoro a parità di salario: lavorare meno, lavorare tutti; per il lavoro socialmente necessario(5), fino a una “Patrimoniale”, naturalmente molto più drastica di quella pensata da esponenti dei partiti di centro-sinistra. Infatti, il documento del Patto d'azione, al punto 4 dice:

I costi della pandemia e della crisi siano pagati dai padroni, a partire da una patrimoniale del 10% sul 10% più ricco della popolazione i cui proventi vanno destinati alla copertura al 100% di tutti i salari e al salario medio garantito per disoccupati e precari. Rifiuto del debito di stato come strumento per soffocare le rivendicazioni proletarie e sociali.

A parte il fatto che il debito di stato, più che uno strumento per soffocare le rivendicazioni proletarie e sociali (6), è uno strumento per spogliare il proletariato e settori della piccola borghesia, in che modo si potrebbe imporre alla borghesia queste misure? Il Pungolo Rosso, una delle componenti del Patto e del SiCobas, sostiene che è possibile

aggredendo con la forza di una mobilitazione di classe straordinaria il potere della borghesia, la sua libertà di appropriarsi e di disporre per i suoi fini della ricchezza generale prodotta dai proletari (7).

Che cosa significa “mobilitazione straordinaria”? Scioperi proclamati due mesi prima o forse, in maniera “un po' più” incisiva, scioperi ad oltranza, cortei permanenti, occupazione delle fabbriche e delle aziende in generale? Privare la borghesia della “libertà di appropriarsi della ricchezza...” significa ucciderla in quanto classe, inaridire la fonte che dà la vita al modo di produzione capitalista, ma a questo punto una mobilitazione di tipo economico-sindacale, per quanto straordinaria e radicale, è largamente insufficiente. “Prendere la piazza” o “prendere la fabbrica” non basta se larghi settori del proletariato, quelli più coscienti (8), non prendono il potere: il potere, coi suoi organismi rivoluzionari (i consigli), non la nomina di qualche ministro in un governo “di sinistra” espresso da qualche parlamento borghese. La storia è piena di esempi in cui un grandioso slancio proletario è stato condotto dai pifferai radical-riformisti – in buona o malafede, non importa – a disfatte epocali. Dall'occupazione delle fabbriche di un secolo fa ai Fronti Popolari del 1936 - per citare alcune delle sconfitte proletarie più brucianti – un proletariato estremamente determinato si è fermato davanti ai cancelli dello stato borghese e ha pagato conseguenze dolorosissime. Ma questo è dimenticato, o ignorato, dalla versione XXI secolo di quel massimalismo socialista che tanto danno ha fatto alla classe operaia. Si vogliono imporre alla borghesia misure che potrebbero costituire i primi, immediati provvedimenti del potere proletario, ma non si dice mai che prima bisogna conquistarlo, il potere, spezzare la macchina statale borghese e sostituirla con gli organi dell'autogoverno proletario, con la dittatura del proletariato; per altro, se il proletariato avesse la forza di imporre alla borghesia quei “punti”, tanto varrebbe che conquistasse direttamente il potere.

Non si prepara lo strumento politico indispensabile per arrivare al “lavorare meno, lavorare tutti”, vale a dire il partito di classe, l'Internazionale rivoluzionaria, puntando invece alla costruzione di un surrogato politico-sindacale dalle basi teorico-politiche assai malferme. Ci si fa beffe degli “avvertimenti” della borghesia, cioè del terremoto economico che la “lista della spesa” provocherebbe (fuga di capitali, per dirne una), quando invece andrebbero presi sul serio, tanto quanto l'aperta azione repressiva che lo stato, affiancato dalle bande paramilitari extralegali, metterebbe in campo.

In un contesto storico molto diverso per tanti aspetti, due rivoluzionari di calibro massimo mettevano in guardia la classe operaia più cosciente dalle insidie del radical-riformismo del tempo, il cui velleitarismo – che può diventare avventurismo – attraversa inossidabile le epoche storiche:

Se i democratici proporranno l'imposta proporzionale; se i democratici proporranno essi stessi un'imposta progressiva moderata, i lavoratori insisteranno per una imposta così rapidamente progressiva, che il grande capitale ne sia rovinato; se i democratici reclameranno che si regolino i debiti dello Stato, i lavoratori reclameranno che lo Stato faccia bancarotta.

Ma, premettevano, questo presuppone l'«organizzazione del partito del proletariato» (9) e quindi la conquista rivoluzionaria del potere da parte del proletariato.

Oggi, va da sé, siamo purtroppo molto lontani da questo orizzonte, ma ciò non toglie, anzi, che al proletariato bisogna parlare chiaro, non illuderlo con indicazioni che starebbero bene in bocca al personaggio di “Cetto Laqualunque(10), ma che nella vita reale possono provocare disastri. A questo proposito, il neomassimalismo ci si sta mettendo d'impegno, com'è nella sua natura.

CB

(1) Marco Bersani, E' ora che paghino i ricchi, il manifesto, 28 novembre 2020.

(2) Redazione ANSA, 14 ottobre 2020.

(3) Le espressioni sono di Marx.

(4) Da Wikipedia:

Il Gruppo dei Trenta (Group of Thirty in inglese), spesso abbreviato in G30, è un'organizzazione internazionale di finanzieri e accademici che si occupa di approfondire questioni economiche e finanziarie esaminando le conseguenze delle decisioni prese nei settori pubblico e privato.

(5) Ricordiamo che nel capitalismo il lavoro socialmente necessario è quello erogato dalla forza-lavoro in cambio del salario. Tra l'altro, è strano che nella “lista” non si faccia cenno alla riduzione dell'età pensionabile o a una riforma in senso favorevole alla classe lavoratrice del sistema pensionistico, a meno che la cosa non ci sia sfuggita.

(6) A questo pensano le forze dell'ordine borghese, specialmente se e/o quando gli ammortizzatori sociali sono insufficienti allo scopo o le lotte scavalcano i limiti consentiti, magari sfuggendo di mano ai sindacati...

(7) Vedi, sul sito del SiCobas, Pungolo Rosso, Patrimoniale: e con Grillo come la mettete?

(8) Va da sé, che per noi è indispensabile la presenza attiva del partito rivoluzionario nella classe, perché settori significativi di essa possano maturare la coscienza della necessità del salto rivoluzionario.

(9) K. Marx – F. Engels, Indirizzo del Comitato centrale della Lega dei comunisti.

(10) Il trotskysmo, in tutte le sue varianti, è il personaggio politico che più si avvicina al personaggio cinematografico, anche se altre correnti, dalle origini ben più gloriose, non se ne allontanano molto...

Mercoledì, January 6, 2021