A cento anni da Livorno 1921

In occasione del centenario della fondazione del Partito Comunista d'Italia, avvenuta a Livorno il 21 gennaio del 1921, ripubblichiamo uno scritto del 1971 di Onorato Damen che, in quegli anni drammatici ed esaltanti insieme, partecipò, in veste di intransigente interprete delle posizioni politiche della sinistra bordighiana, a tutto quel travaglio politico-organizzativo che, dal Congresso di Bologna al Convegno di Imola, e da Imola a Livorno condusse alla nascita del Partito Comunista d'Italia. È soprattutto grazie a quella sinistra se si costituì anche in Italia lo strumento politico indispensabile della rivoluzione, il Partito Comunista d'Italia, poi degenerato fino alla sua scomparsa, dopo la sconfitta del moto rivoluzionario cominciato con l'Ottobre e la vittoria della controrivoluzione, che per comodità di sintesi chiamiamo stalinismo. La costruzione del partito rivoluzionario è, oggi come allora, il compito di coloro che vogliono farla finita con questo sistema economico-sociale disumano, brutale e mortifero per la vita stessa sulla Terra (1).
Non è un percorso facile, lo sappiamo, bisogna superare gli ostacoli enormi disseminati dallo stalinismo e dalle sue eredità politiche, dalla socialdemocrazia vecchia e nuova, che hanno lasciato confusione, disorientamento, sfiducia nella possibilità di un'alternativa al dominio del capitale. Occorre ricomporre, politicamente, una classe che negli ultimi decenni è stata sconvolta, frantumata e rimescolata socialmente dalla crisi e dalle trasformazioni da essa prodotte a scala internazionale. È necessario, fin da subito e più che mai, collocare in un'ottica internazionale la costruzione dell'organizzazione rivoluzionaria, perché come sempre e, anzi, in maniera ancora più accentuata, il ribaltamento dell'ordine sociale borghese deve essere compito del proletariato rivoluzionario mondiale.
In tal senso, la Tendenza Comunista Internazionalista, di cui facciamo parte, ritiene di poter dare un contributo di primo piano, anche grazie al patrimonio politico che la “Sinistra italiana”, all'origine del Pcd'I, ci ha lasciato. Un patrimonio non da recitare a memoria, ma da far vivere nella lotta di classe oggi.

Il cinquantenario del Congresso di Livorno, da cui è nato il Partito Comunista d’Italia, per noi non è semplice data commemorativa ma occasione per un severo e pensoso riesame di quel lontano avvenimento, passato, per ragioni di evidente tornaconto politico, al centro dell’attenzione non solo di certa storiografia e di certa pubblicistica ufficiale che attinge a piene mani e ad occhi chiusi nel magma di una agiografia di partito i motivi, le impostazioni e il ruolo di certi uomini, al posto di certi altri secondo una precettistica propria della cultura borghese solita a portare acqua al mulino del più forte e in genere di chi ha saputo fare.

Per facilitare quest’opera di aggiornamento storico-politico e nel contempo critico dell’avvenimento, pubblichiamo in opuscolo un inserto che togliamo da “Prometeo” n. 2 – febbraio 1951 – Serie II, che raccoglie i documenti più significativi del Congresso di Livorno e del Convegno di Imola con il dovuto riferimento al Congresso di Bologna e alle tesi del II Congresso della III Internazionale. Rileggendo oggi questi documenti è possibile mettere in evidenza e senza possibilità di equivoco, alcuni dati che illuminano il corso seguito dalle vicende posteriori del Partito Comunista d’Italia che diventerà, ad un certo momento, il Partito Comunista Italiano e delle altre correnti dello stesso partito che continueranno la loro strada e che alla tappa storica di Livorno ritornano come alla loro fonte d’origine. E crediamo che sia questo il modo migliore di ricordare il cinquantenario.

  1. Soltanto Bordiga ha, per primo e meglio d’ogni altro, intuito tempestivamente la necessità storica indilazionabile del partito rivoluzionario che sarebbe sorto spezzando ogni legame col Partito Socialista destinato a rimanere un partito parlamentare con coloritura di sinistra per il verbalismo rivoluzionario adoperato per la platea elettorale.
  2. Quando Bordiga puntava tutti gli sforzi alla costruzione del Partito Comunista, come futura sezione della III Internazionale e rimaneva isolato in questa battaglia, condotta in un partito socialista tutto preso dalla frenesia elettoralistica, Gramsci sosteneva l’unità delle forze in questo partito impantanato nel mare magno del massimalismo più infecondo, dopo aver ipotizzato per i «Consigli» quella funzione di forza di punta rivoluzionaria che di fatto mancava al Partito Socialista.

Bordiga può aver commesso l’errore di credere di poter forgiare il partito sul presupposto teorico-politico e organizzativo della frazione astensionista, ma al congresso di Bologna e dopo, era in lui vivo il senso drammaticamente positivo della scissione da operare nel grande partito per liberare dal suo seno le forze nuove e sane della rivoluzione socialista, esigenza, questa che non turbava, neppure in prospettiva, la visione politica di Gramsci. Convegno di Imola (nov. 1920)

Perché Imola e non, ad esempio, Bologna, la grande Bologna proletaria, come sede del I Convegno che doveva assumere tanta importanza nella costruzione del Partito Comunista? Ragione di maggior sicurezza oppure di maggior disponibilità, data la presenza del buon amministratore Marabini, il compagno di Graziadei, anch’egli di Imola, nella iniziativa della «mozione passerella», uno dei tanti tentativi del pre-Livorno per lo sbloccamento del massiccio centrale del partito, rappresentato dai massimalisti unitari di Serrati? Forse l’una e l’altra insieme e basterebbe un breve cenno alla situazione determinatasi allora in Bologna per rendere giustificata una tale ipotesi.

Dopo i fatti di palazzo D’Accursio, la numerosissima e potentissima federazione bolognese era praticamente in disarmo; lo scrivente, che aveva avuto da Gennari, come segretario del Partito, durante i lavori del Convegno di Imola, l’incarico di riunire almeno gli elementi più responsabili della federazione bolognese, si era trovato nella impossibilità di eseguire, anche in minima parte, il compito assegnatogli.

Del resto, anche nei mesi precedenti il fattaccio, l’organizzazione cittadina del partito aveva dimostrato di non essere in grado di assicurare da sola la difesa armata della locale Camera del Lavoro dai reiterati assalti delle squadre fasciste; fu necessario attingere ogni volta alla organizzazione d’Imola sorretta da gruppi di validissimi combattenti che dimostrarono in quella fase, pur calante, del movimento operaio capacità, abnegazione e sacrifici degni di essere ricordati.

Su questo Convegno per la prima volta è apparso il sinistro uccellaccio del «compromesso». Abbiamo affermato in altri scritti che sotto molti rapporti il Convegno di Imola ha svolto un ruolo non solo di preparazione del Congresso di Livorno, ma ha sciolto i nodi di contraddizioni e d’immaturità che irretivano da troppo tempo le maggiori correnti della sinistra rivoluzionaria ancora incapsulate nei ranghi del Partito Socialista. Il problema centrale incombente sul Convegno risiedeva nel fatto che la creazione del partito presupponeva lo scioglimento sia della frazione astensionista (Il Soviet), come del gruppo torinese dell’«Ordine Nuovo» con la sua organizzazione dei «Consigli». Chi scrive ricorda la veemente e perentoria richiesta formulata in questo senso dal viareggino Luigi Salvatori, una delle voci più toscanamente vive e appassionate del massimalismo parlamentare di quel tempo.

A proposito, è successo al Convegno di Imola pressappoco quello che è capitato alla spedizione dei Mille di Garibaldi e sarebbe onesto che Spriano, lo storico del P.C.I., ridimensionasse il numero di coloro che erano presenti, delegati o no, ma c’erano, dopo quel po’ po’ di sfilza di giovincelli che egli ha menzionato dall’Unità, che all’epoca del «Convegno» forse erano tra i figli della Lupa o poco più innanzi.

Per concludere sull’importanza storica del Convegno di Imola, va detto che l’accettazione del compromesso da parte degli astensionisti e degli ordinovisti, poneva sul primo piano la necessità di amalgama di forze che trovava la sua espressione e, diciamo forse, il suo imperio sulla influenza esercitata su tutti dalla rivoluzione d’Ottobre e dal pensiero di Lenin. Questo nodo dell’amalgama delle forze non si poteva dire che fosse del tutto sciolto, ciò che graverà negativamente sulle idee e sulla condotta del futuro partito.

Sotto il profilo organizzativo dei primi quadri e dei primi centri d’irradiazione, si può affermare che il Convegno di Imola aveva messo in moto, con efficienza, un partito in miniatura nello spazio più vasto del Partito Socialista, ma già partito nel partito ed anche e soprattutto contro questo partito.

La spaccatura tra rivoluzionari e riformisti era generalizzata come stato d’animo tra i presenti al Convegno; la misura e l’ampiezza di tale spaccatura, che la sinistra aveva posto nella sua totalità come problema fondamentale, subirà i limiti e i temperamenti delle forze politiche mediate nel Convegno che opereranno nel prossimo Congresso di Livorno.

Il Congresso di Livorno (21 gennaio 1921) ha avuto un proscenio, un lancio pubblicitario e una coreografia quali il modesto teatrino di Imola non aveva potuto offrire al Convegno; ma, sotto il profilo della consistenza e della validità ideologica e politica, il rapporto è stato inversamente proporzionale.

Una nota di colore, che diverrà tra poco il colore più acceso del nuovo corso della politica italiana, era data dal fatto che i congressisti lungo il tragitto, dagli alberghi al teatro Goldoni, erano fiancheggiati da numerosi gruppi di fascisti pronti ad aggredire quei delegati, più o meno noti, che avevano avuto a che fare con le squadracce in agguato.

Era il segno della marea montante della reazione padronale dopo la grande paura della occupazione delle fabbriche che tuttavia si era chiusa con un compromesso a tutto vantaggio del fronte capitalista. E ciò significava soprattutto che il Partito Comunista nasceva, come era logico e naturale che nascesse, non in una fase di ascesa del movimento operaio, ma in quello della sua tragica ritirata; nasceva, cioè, come l’amministratore d’una situazione fallimentare e di sconfitta del proletariato nella quale si sarebbero bruciati non pochi quadri, per quanto limitati, ma validi fino all’eroismo e al sacrificio, del giovane movimento rivoluzionario.

L’antifascismo militante ed eroico di questo periodo non si limitava certo ad affrontare le squadracce prezzolate, ma mirava a colpire con le armi del conflitto di classe il capitalismo nel suo complesso; l’antifascismo posteriore, quello del ’45 che vedrà il PCI inserito trionfalmente sul fronte della guerra democratica di liberazione e nel moto partigiano della resistenza, e quello attuale, che vede sempre il P.C.I. sul fronte dell’antifascismo dopo le bombe di Milano e quelle più recenti di Catanzaro, è l’antifascismo di comodo, velleitario e svirilizzato, fatto di polemica chiacchierona che si avvale ancora una volta della ingenuità e della inesauribile capacità di sacrificio delle masse operaie per salvare la democrazia dei padroni e le istituzioni parlamentari che sono le vere cause portatrici naturali del fascismo.

La storia, nel suo sviluppo ulteriore, ha offerto questa inoppugnabile dimostrazione: ogni qualvolta il movimento rivoluzionario si distacca dalle fonti, dai modelli ideali e dal metodo che sono stati alla base della elaborazione teorico-politica che concludeva col Congresso di Livorno in una paurosa sintesi le esperienze della prima guerra mondiale, dell’imperialismo e della rivoluzione d’Ottobre, imbocca inevitabilmente la strada del tatticismo deteriore che conduce, presto o tardi, al compromesso e alla capitolazione di fronte all’avversario di classe. Come infatti è avvenuto. Tuttavia non debbono essere ignorati o sottovalutati certi errori di fondo commessi nell’analisi del fenomeno fascista se si vuole che l’esperienza insegni a non ripeterli e riguardano chi aveva teorizzato il fascismo come una esperienza di folclore paesano (Gramsci) e chi, come Bordiga, aveva sottovalutato, in sede tattica, la sua consistenza negando al fascismo, come prospettiva immediata, la sua ascesa al potere e proprio nel momento in cui si svolgeva, quasi del tutto pacificamente, la marcia su Roma voluta e realizzata con il beneplacito della monarchia e del clero, i due pilastri tradizionalmente più validi della conservazione poggianti sul capitalismo monopolistico e sulla grande proprietà fondiaria; industriali e agrari in felice connubio per partorire quel mostriciattolo aberrante passato alla storia col nome di fascismo.

Sempre sotto il profilo della più rigida distinzione di classe, è merito del Congresso di Livorno aver posto e risolto, anche se non completamente, il problema della distinzione tra le forze politiche socialiste che già convivevano nello stesso organismo della III Internazionale: la socialdemocrazia, da una parte, proiettata verso gli obiettivi delle trasformazioni graduali che trovava nei paesi più evoluti e ad economia più avanzata, Stati Uniti d’America e paesi dell’occidente europeo, un esempio vivente di avviamento al socialismo parlamentare; dall’altra il movimento comunista liberato da ogni sudditanza socialdemocratica e parlamentare che si avviava sulla strada della costruzione del partito secondo gli insegnamenti di Lenin e dell’Ottobre bolscevico.

Basterebbe soltanto questo per considerare il Congresso di Livorno come una pietra miliare lungo il tormentato cammino del socialismo per la formazione del partito della rivoluzione.

Se al Congresso di Livorno la mozione per la scissione e per la nascita del nuovo partito, è stata chiamata la mozione di Imola è perché ad Imola era stata elaborata come punto d’incontro delle varie correnti, che in essa avevano espresso quanto tra di esse era in comune e avevano sottaciuto quanto tra di esse non lo poteva essere. Ecco la ragione di una esigenza di compromesso che poteva accontentare il centro della Internazionale e quindi lo Stato russo, ma in nessun modo poteva sanare il dissidio di fondo ancora latente e che sarebbe riaffiorato pochi mesi dopo ed in modo assai più drammatico, specie nella esperienza della sezione italiana:

  1. La frazione terzinternazionalista (i cosiddetti terzini) sarebbe entrata nel partito di Livorno con armi e bagagli, cioè con tutte le pretese proprie dei neofiti che si ritengono indispensabili come portatori di una nuova politica e accampano il diritto ad una loro presenza negli organi dirigenti, non esclusa la direzione del quotidiano del partito avvalendosi di ogni forma d’influenza, diretta o indiretta che sia, dando l’impressione, e non solo in apparenza, di essere un partito in potenza nell’ambito del P.C. d’Italia, in virtù e gloria della globalità e monoliticità del partito rivoluzionario.
  2. La frazione astensionista conclude a Livorno la sua vicenda politica in quanto frazione, sciogliendo ufficialmente la propria organizzazione, relegando in soffitta la teoria dell’astensionismo, tanto teorico e di principio che tattico, in nome di una disciplina formale accettata con serietà e consequenzialità politica, ma senza convinzione.
  3. Il gruppo dell’«Ordine Nuovo», praticamente assente dai lavori del Congresso di Livorno perché Gramsci, mentre giocava a nascondiglio dietro le spalle di Bordiga, ben calcolava il ruolo di dirigenza che sarebbe stato assegnato al suo gruppo le cui formulazioni teoriche e la cui assoluta disponibilità costituivano una base valida quale il nuovo corso dello Stato russo e del centro della Internazionale si attendevano per allontanare Bordiga e la «sinistra italiana» da ogni responsabilità direttiva.

Lo smantellamento della rete organizzativa della sinistra da parte del trinomio Gramsci, Togliatti, Scoccimarro avverrà con metodo, gradualità e senza esclusione di colpi; il peso determinante della solidarietà assicurata alle spalle, dal gruppo dirigente della Internazionale, garantiva, in prospettiva, la riuscita dell’operazione contro la sinistra.

Con la critica «a posteriori» alla scissione di Livorno perché il taglio era stato fatto troppo a sinistra; con l’accettazione acritica della bolscevizzazione imposta a tutte le sezioni della Internazionale che mirava a spiantare l’organizzazione territoriale e sostituirla con quella cellulare, di fabbrica e di quartiere; con la politica del fronte unico si chiudeva, di fatto, l’epoca del partito di Livorno che porta l’impronta di Bordiga e della sinistra italiana e se ne apriva un’altra, quella del Congresso di Lione [1926, ndr] da cui avrà inizio l’era di Gramsci e di Togliatti e della capitolazione totale di fronte al Cremlino; la parola d’ordine stalinista: «il socialismo in un solo paese» si tradurrà, nella versione del P.C.I., in «via italiana democratica e parlamentare al socialismo».

L’affossamento degli ideali del marxismo rivoluzionario di Imola e di Livorno era così un fatto compiuto.

Onorato Damen, gennaio 1971

(1) Per approfondire le questioni trattate, rimandiamo all'opuscolo «Dal Convegno di Imola al Congresso di Livorno nel solco della “Sinistra Italiana”», presente sul nostro sito: leftcom.org

Domenica, January 10, 2021