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Home ›Fatti e misfatti del socialismo cinese
L’intreccio di interessi tra una politica (spacciata per “socialista”) e una finanza che altro non può essere che capitalista, sta avendo in Cina ulteriori riflessi negativi sulla stabilità economica del paese e sugli sforzi per conquistare spazi nel mercato internazionale, contrastando il signoraggio del dollaro sulle altre divise internazionali. A suon di plusvalenze e ricorrendo all’uso dei più sofisticati strumenti finanziari, gli Usa hanno manovrato, ben protetti da un imponente apparato militare, razziando ovunque quote di plusvalore. Muovendosi nel girone infernale dell’imperialismo, la Cina presenta ora il suo “sviluppo” mascherato da uno pseudo socialismo in versione nazionalista, con il capitalismo dominante sia in forma privata sia statale e con gli interessi del Partito Cinese e delle sue oligarchie in primo piano. Lo stretto controllo di produzione e traffico delle merci, impone anche quello dei movimenti nel settore finanziario.
Le ultime vicende di Alibaba, la multinazionale cinese privata, vedono Pechino alle prese con il controllo delle piattaforme informatiche e del commercio online (credito agli acquisti online, polizze assicurative, ecc.). In ballo, affidata al digitale e in mano a tre grandi gruppi privati, una “sensibile” massa di big data dal valore di 1.700 mld di dollari. In un vasto intreccio di interessi, Il Partito cinese e lo Stato da esso strettamente controllato, cercano di tenere a bada (a proprio vantaggio e con autoritari interventi politici) le contraddizioni che covano, esplosive, nel sistema. Con l’aggravante di una capillare corruzione diffusa nel Partito e in ogni settore dirigenziale, pubblico e privato.
Il crescente potere di alcuni giganti del web, con forti valutazioni in Borsa, diviene preoccupante. La contesa riguarda anche gestione di dati, controllo di contenuti, questioni fiscali, ecc. La quotazione in Borsa della filiale finanziaria di Alibaba (Ant Financial) è stata per il momento bloccata. Le assicurazioni online, con il settore imprese tech che costituisce circa un terzo dell’intera economia del Paese, rappresentano un ghiotto boccone. Pure negli Usa si prepara un controllo sulle grandi imprese digitali.
Oltre a vendite online, Alibaba offre servizi IT: cloud storage, intelligenza artificiale, pagamenti Alipay (15 trilioni di euro di transazioni elaborate nel 2019), micro-prestiti, assicurazioni, gestione degli asset e carte di credito. L’anno scorso, Ant Group aveva fornito 260 mld di euro di prestiti a piccole imprese e consumatori, in diretta concorrenza con le banche governative e alimentando il pericolo di insolvenze delle obbligazioni, con quelle societarie a quasi 24 mld di dollari). Crescono i debiti e sono molte le imprese in “sofferenza”, con un mercato obbligazionario a circa 4 mila mld di dollari. I rendimenti “socialisti” cominciano a scarseggiare e a non coprire i rischi…
Aumenta lo strapotere di uomini d’affari che – con l’aiuto delle piattaforme digitali – disturbano le “attività” di quanti ora temono una “espansione disordinata del capitale” in contrasto con un potere politico che si accorge di subire il comando delle corporations, cioè la piena dittatura del capitale.
Ora i fari si accendono su Jack Ma, uno dei 93 super-miliardari seduti fra i delegati dell’Assemblea Nazionale del Popolo, il quale col colosso digitale Alibaba controlla il 55% dei pagamenti digitali in Cina, minando la governance del settore bancario “pubblico”. E per di più si apprende che l’imprenditoria privata conta in Cina ben il 60% del Pil nazionale, occupando l’80% dei posti di lavoro: questo non ha entusiasmato la élite governativa, legata soprattutto alle imprese statali.
Alibaba, come Amazon, è una società di e-commerce aperta al mercato di privati e piccole imprese, con un enorme crescita di piattaforme internet. Attualmente controlla un terzo degli acquisti online in tutto il mondo, più del doppio rispetto ad Amazon; è inoltre il più grande fondo di mercato azionario del mondo, maggiore dell’americana JPMorgan. Con più di 500 mld di euro nell’ultimo anno fiscale, Alibaba coi suoi servizi di pagamento Alipay (15 trilioni di euro di transazioni nel 2019), gestisce asset e carte di credito, oltre a servizi cloud per le istituzioni finanziarie (Ant Financial Cloud). L’anno scorso, Ant Group aveva fornito 260 mld di euro di prestiti a piccole imprese e consumatori, aggirando le pretese del Governo cinese per un rigido controllo delle aziende industriali e commerciali, e aumentando in prospettiva i rischi di natura finanziaria. La Banca Popolare Cinese è allarmata dalla crescita del credito attraverso prestiti e altri strumenti di mercato, come le obbligazioni e le azioni: queste ultime ammontano a circa 4 mila mld di dollari, col sottofondo di numerose imprese “in sofferenza”, cioè con scarsi rendimenti (da noi volgarmente definiti “profitti”…) e rischi di fallimento. Il tutto mina la costruzione di un “nazional-socialismo” che vorrebbe le aziende di Stato più produttive e innovative, attirando finanziamenti dal privato (oltre 145 mld di dollari raccolti negli ultimi anni): su questo si regge il modello produttivo cinese, coinvolgendo imprese e aziende - sia statali che private - sotto un controllo diretto del partito identificatosi con lo Stato. Una sorveglianza capillare da esercitare sulla intera “catena del valore”, legando tutti ad un unico modo di produzione e distribuzione, quello capitalista mascherato da “capital-socialismo”!
Dunque, produzione e commercializzazione delle merci spinta al massimo sviluppo, con l’intero processo che collega poi costi e ricavi delle singole attività controllandone l’efficienza; queste interdipendenze andrebbero gestite competitivamente sui mercati internazionali con innovazioni tali da diminuire i costi dei cicli produttivi/distributivi. Sempre con un costante miglioramento della produttività-redditività “nazionale”. Nulla di nuovo sotto il sole: i gestori del capitale studiano ovunque tecniche di valorizzazione, da anni mirando a ridefinire i costi delle imprese lungo la catena del valore. Le ultime “novità” sarebbero quelle dell'automazione e della robotica.
Ed eccoci al crescere dello strapotere di uomini d’affari che, con l’aiuto di piattaforme digitali, disturbano la “armonia economico-sociale”: si teme una “espansione disordinata del capitale”. Ministri del Consiglio di Stato, funzionari di alto rango, regolatori finanziari, tutti hanno inizialmente approvato l’affermarsi di questa economia cinese nel settore dei servizi online. Ma ora si teme per la stabilità del sistema a causa dell’eccessivo “sviluppo” delle innovazioni finanziarie.
Le speculazioni finanziarie si aggiungono alla stretta di interessi legati ai movimenti delle rendite fondiarie (anche se mascherate) e dei traffici nell’edilizia. Le preoccupazioni crescono nel ricordo di precedenti crisi finanziarie come quella asiatica anni Novanta e il tracollo della borsa cinese nel 2015. Le banche di Stato si agitano mentre la rete tesa da Alipay ha intrappolato – si legge - 700 milioni di persone (80 milioni di venditori) con 118mila mld di Yuan (più di18mila mld di dollari) di pagamenti nel 2019. In conclusione, i guadagni dei business di Alibaba, pur nel nome della “fedeltà alla linea rossa del socialismo”, ingolosiscono Stato e partito. Le “riforme e le aperture” di Deng Xiaoping miravano alla conquista di un allettante malloppo di affari: con una abbondante dose di ipocrisia “ideologica”, poiché – come diceva ancora Deng – bisogna “accertarsi che la crescita avvenga in modo sano”!
Nel frattempo, Pan Gongsheng, vice-presidente della Banca Popolare Cinese, ha recentemente dichiarato la sua “irremovibilità nell’impegno a tutela dei diritti di proprietà e nella promozione dell’imprenditoria”. Ed è lo stesso Comitato Centrale del Partito che pone come suo principale obiettivo quello di “rendere la Cina un attore di primo piano nell’industria del e-commerce internazionale, della finanza online e del cloud computing”. Testuale.
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