La crisi nello stretto di Formosa

Da qualche mese a questa parte, con un’accelerazione nelle ultime settimane, l’atmosfera nel tratto di mare che separa la Cina da Taiwan si è fatta assai calda. La Cina continua a far volare aerei nello spazio aereo taiwanese, nel frattempo costruisce senza sosta infrastrutture militari nell’area antistante l’isola. A marzo scorso l’ammiraglio Davidson, responsabile uscente del comando americano per l’Indo-pacifico, ha dichiarato che la guerra con la Cina potrebbe verificarsi nel corso dei prossimi sei anni, e pertanto ha chiesto un rafforzamento del budget economico a disposizione, il suo successore John Aquilino ha ripetuto con parole diverse lo stesso monito (1).

Il Giappone, che teme le ambizioni cinesi sulle isole Senkaku, ricche di gas e di petrolio, ha dichiarato senza mezzi termini per bocca del premier Taro Aso (2) che se la Cina invaderà Taiwan, il Giappone si schiererà con gli Stati Uniti per difendere l’isola e ha aumentato il budget per armamenti, del resto l’arcipelago di isole di Okinawa, ex base USA, è molto vicino a Taiwan.

Gli uni come gli altri continuano a effettuare esercitazioni navali, manovre o semplici passaggi nello stretto il quale, pur essendo un tratto di mare di 180 km di larghezza, sta diventando sempre più “stretto” anche in senso letterale, simbolo di quanto i margini di mediazione fra i contendenti siano angusti.

Taiwan è una piccola isola, grande poco più di un decimo dell’Italia, con 23 milioni di abitanti, un’economia dinamica come tutte quelle che un tempo venivano definite le “tigri asiatiche” e in certi settori all’avanguardia. Viene riconosciuta al momento solo da 14 paesi a livello internazionale, non ha più un seggio all’ONU dal 1971, quando Pechino le è subentrata come rappresentante di tutta la Cina, e non può avere sul suo territorio più che rappresentanti commerciali, perché se qualche paese importante aprisse un’ambasciata, la Cina reagirebbe subito con le più brutali ritorsioni economiche. In compenso ha un posto nel WTO e in alcuni organismi economici internazionali. Gli stessi Stati Uniti dal 1979 non la riconoscono più ufficialmente, avendo accettato il principio “una sola Cina” nel momento in cui era prioritario per la loro politica estera divaricare in modo irreversibile i rapporti tra Cina e Russia. Da allora hanno sempre seguito il principio della cosiddetta “ambiguità strategica”, cioè non riconoscere Taiwan di diritto, ma riconoscerla di fatto, aiutandola ad armarsi.

Cosa rappresenta Taiwan oggi? Due cose soprattutto: in primo luogo una posizione strategica che può comportare il controllo dei mari da cui passano i fondamentali traffici tra il mar cinese meridionale, il mar cinese orientale e il Pacifico. È una zona di interscambio tra Giappone e Corea del Sud, Filippine e Australia, Cina, Vietnam e Indonesia: Taiwan si trova in un punto nevralgico al centro di tutto questo, segnato da un incessante traffico di merci, semilavorati, materie prime, idrocarburi, una parte consistente di tutto il commercio mondiale.

L’altro aspetto che fa di Taiwan un pezzo pregiato è il suo essere uno dei principali produttori al mondo di microchip, circuiti elettronici che sono ormai utilizzati in tutti i settori industriali, dagli elettrodomestici ai sistemi di armamento; la recente crisi da eccesso di domanda per effetto della ripresa post pandemica, ha determinato il blocco della produzione di automobili, dimostrando quanto questo sia un settore chiave, da cui ormai non si può più prescindere per molti settori ad alto contenuto tecnologico. Alcune delle catene globali nella produzione di merci e di plusvalore, insomma, passano per Taiwan e rompere i legami da una o dall’altra parte dello stretto di Formosa non sarebbe indolore per nessuno.

La seconda domanda allora che dovremmo farci è perché mai la Cina dovrebbe scatenare un conflitto dalle conseguenze imprevedibili per un’isola con cui peraltro è già in strettissime relazioni commerciali?

La cosa sarebbe inspiegabile se il sistema capitalistico non versasse in uno stato di crisi, evidente persino nelle sembianze del pur giovane e rampante capitale cinese, e pur di uscire dalle contraddizioni di questa crisi non fosse disposto ad alzare sempre di più la posta. Per settant’anni Taiwan è stata indipendente dalla Cina ed è andato bene a tutti, se ora è diventato un problema la lotta per la democrazia o per il diritto dei popoli non c’entrano nulla, anche se sono queste le argomentazioni che verranno fornite sull’uno e l’altro fronte. C’entra invece la lotta per la sopravvivenza del capitalismo nazionale più forte, quello che potrà dettare le nuove regole a sua misura: un paradosso in un certo senso per una classe globalizzatrice e a suo modo rivoluzionaria come la borghesia. Rivoluzionaria nel senso che è costretta a rivoluzionare di continuo le forze produttive e i rapporti sociali esistenti, ma profondamente ancorata ai circuiti di potere e di controllo che trovano la loro radice, in ultima analisi, nel proprio Stato di origine.

Il punto di vista della classe dominante cinese

È dalla sua riconferma al vertice del PCC nel 2017 che Xi Jinping, con la scusa della lotta contro la corruzione, ha eliminato la maggior parte dei suoi avversari politici (anche se altri se n’è fatti). Si è proposto come il padre della patria, come il nuovo Mao Tze Tung, ma per far questo ha dovuto puntare sull’orgoglio nazionale, sull’unità patriottica in cambio della promessa di portare a compimento il risorgimento della nazione cinese e la sua consacrazione nel mondo (3). Tutto ciò passa necessariamente per la riconquista di Taiwan. Ha giurato pubblicamente di ottenerla entro la metà del secolo anche se è certo in realtà che punta ad ottenerla prima, ovvero entro il suo mandato, per ora senza limiti se non quelli anagrafici.

Molto dipenderà probabilmente dalla dinamica della crisi economica, cioè se dovesse avvenire o meno una sua accelerazione nel breve periodo con la crescita dei tassi di interesse, che sarebbe insostenibile per un’economia mondiale indebitata come mai, o magari può anche dipendere dalle scelte della leadership USA, che potrebbe essere tentata di giocare d’anticipo sui tempi necessari al suo antagonista per colmare il divario militare.

Molto potrebbe dipendere in ultima analisi dalla traiettoria di una singola imprevedibile scintilla, anche se bisogna dire che fin qui i vertici cinesi hanno dimostrato di non voler lasciare nulla al caso. Quello che è certo è che le condizioni per il divampare di un incendio si stanno già ponendo tutte ora con una corsa agli armamenti impressionante e una sequenza di prese di posizione sempre più aggressive da parte dei due contendenti. Già da diversi anni dietro i piccoli o meno piccoli conflitti in giro per l’Africa e il Medio Oriente si muovono i reali antagonisti, sotto mentite spoglie. Il blocco Cina-Russia-Iran da una parte, e gli Stati Uniti e il loro alleati dall’altra. Lo stesso continuerà probabilmente ad accadere lungo le linee di sviluppo potenziali o già operative della Belt and Road Initiative, la vasta iniziativa cinese per la formazione di una rete di infrastrutture che permetta al suo surplus commerciale di indirizzarsi con maggiore efficienza verso tutto il continente euroasiatico, sancendo la sua supremazia economica e finanziaria.

Il punto di vista della classe dominante a stelle e strisce

Da parte loro gli USA vogliono contenere l’espansionismo cinese entro quella che si definisce “la cerchia delle prime isole”, cioè impedire a Pechino di diventare a tutti gli effetti non solo quella superpotenza economica che è già nei fatti, ma anche una superpotenza politica e militare nell’area; se ciò accadesse, sarebbe l’inizio della fine della loro storia come “paese guida dell’Occidente” in senso lato.

Benché in effetti la conquista dell’isola significhi molto di più per Pechino di quanto non significhi nell’immediato per Washington, molti dei paesi dell’area che ora si schierano contro l’intraprendenza cinese, temendone gli effetti, si vedrebbero presto costretti a venire a patti con il nuovo “dominus” di fatto. Il dollaro perderebbe nel giro di qualche tempo l’attuale egemonia come moneta di riferimento, egemonia che è già sotto attacco sul piano finanziario in particolare per opera della Cina (4), e di conseguenza la sua rendita di posizione a livello internazionale. I creditori non si accontenterebbero più di cambiali e il re rimarrebbe nudo in pubblico. Già la mesta fuga dell’esercito americano dall’Afghanistan è stata utilizzata dalla propaganda filocinese per mostrare le crepe sempre più evidenti nel sistema di controllo militare USA sulle aree strategiche, e probabilmente ha fatto fibrillare più di un alleato, perché quella è la fine che rischia di fare se gli USA facessero un altro passo indietro nei mari orientali.

Bisogna considerare che un’eventuale occupazione di Taiwan da parte cinese sarebbe molto difficile da contrastare sul piano militare per gli USA, ma segnerebbe probabilmente il passaggio dall’attuale “guerra fredda” al conflitto aperto o semi-aperto, con il conseguente riallineamento sui due fronti di tutti quei paesi che per ora cercano di mantenersi in una posizione di relativa equidistanza.

L’aspetto paradossale, se così vogliamo dire, è che tutto ciò ha avuto un’accelerazione in particolare a partire da Barack Obama, cioè quello che viene descritto come il più democratico e presentabile dei presidenti americani negli ultimi anni – anche se per essere più presentabile a paragone degli ultimi 5 o 6 presidenti USA, in un certo senso, bastava anche poco. Con la teoria del Pivot to Asia (perno verso l’Asia) gli Stati Uniti hanno cominciato a trasformare contese locali, in particolare rivendicazioni nazionali sugli svariati isolotti sperduti nel mare che separa i grandi paesi dell’area, in schieramenti di contrapposizione frontale all’interno di uno scenario più ampio. Ed è stato Obama a cominciare a tessere la tela dell’area di libero scambio detta Trans Pacific Partnership (in seguito CPTPP) da cui poi Trump ha ritirato gli Stati Uniti perché temeva il crescere dei deficit commerciali; con il risultato di spingere la Cina, all’inizio volutamente esclusa, a chiedere di entrarvi. L’accordo è stato sottoscritto nel 2018 dai governi di Canada, Cile, Australia, Brunei, Giappone, Malesia, Messico, Nuova Zelanda, Singapore, Perù e Vietnam, e recentemente hanno fatto richiesta di ingresso Gran Bretagna, Cina e paradossalmente proprio Taiwan, con grande irritazione ovviamente da parte di Pechino.

Il punto di vista di Taipei

Ciò detto, per quanto riguarda i due paesi che fanno la parte del leone nell’area, proviamo a guardare le cose dal punto di vista di Taiwan. Sotto l’aspetto culturale la formula “un paese, due sistemi” non piace ovviamente ai taiwanesi che l’hanno vista applicata ad Hong Kong. Il processo di “normalizzazione” di Hong Kong è stato un clamoroso autogol sul piano politico, perché ha favorito molto le correnti anticinesi, in una popolazione, quella di Taiwan che è sempre stata tendenzialmente agnostica rispetto alle relazioni con la madrepatria, anzi fino a tempi anche recenti gli eredi politici del Kuomintang al governo si erano apertamente schierati per un riavvicinamento.

Il fatto è che l’isola è ovviamente in strette relazioni non solo economiche ma anche culturali e linguistiche con la madrepatria. Negli ultimi trent’anni però gli investimenti occidentali hanno spinto molto sulla specializzazione produttiva. I colossi tecnologici USA in particolare hanno capito che era più profittevole limitarsi a progettare i circuiti elettronici, i transistor e i microchip e affidarne la produzione agli attori locali, in particolare alla TSMC (Taiwan Semiconductor Manifacturing Company) che produce da sola una quota tra il 40% e il 50% del mercato globale. Nel frattempo, si sono sviluppate anche le competenze degli ingegneri e dei tecnici locali e ad oggi solo le aziende Sudcoreane e in particolare la Samsung possono competere con le aziende di Taiwan sui prodotti a tecnologia più avanzata, che sono quelli in cui la miniaturizzazione dei circuiti che sfruttano le proprietà dei materiali semiconduttori, ha raggiunto livelli impressionanti. Ovviamente tutte le aziende concorrenti della Samsung, da Apple a Microsoft fino ai marchi europei di smartphone, si affidano ai produttori di Taiwan.

La Cina, che pure guida il mercato della lavorazione delle terre rare per l’elettronica, sta cercando di concentrare investimenti in questo settore, ma non è ancora riuscita a recuperare il divario tecnologico ed è ben lontana dalla autosufficienza produttiva. Huawei è stata colpita su richiesta degli americani dalla sospensione di alcune forniture, e TSMC si è impegnata a costruire un nuovo impianto in Arizona, ma di fatto l’azienda ha stabilimenti anche in Cina e dal suo punto di vista preferirebbe non dover scegliere uno dei due campi in lotta, potendo fare lucrosi affari con entrambi.

Il governo di Taipei, nel frattempo, ha proposto di aumentare di 17 miliardi di dollari il budget militare per il 2022, pur sapendo che non potrebbe mai competere militarmente con la Cina. L’idea è quella di trasformarsi nel boccone più amaro possibile da masticare, secondo la teoria che viene detta del “porcospino”, cioè di una guerra asimmetrica che renda gravosa l’invasione e complicato il controllo, in attesa del soccorso USA. A questo fine Taipei sta cercando di dotarsi di tutte quelle tecnologie militari atte a sabotare un’eventuale invasione: sistemi antisbarco, missili a corto raggio, mine antinave e così via.

L’esito è difficile da prevedere: non bisogna dimenticare che questa è un’epoca in cui le guerre possono essere combattute anche solo paralizzando le difese dell’avversario attraverso attacchi ai suoi sistemi informatici e di comunicazione. Oggi per ipotesi si può bloccare un aeroporto, una centrale elettrica, un sistema di trasporti o di comunicazioni anche senza bombardarlo e in questo la Cina ha già dimostrato di essere all’avanguardia con dimostrazioni di forza sia nei confronti di Taiwan che, recentemente, dell’Australia.

Il punto di vista di Bruxelles

La linea politica dell’Unione Europea nell’Indopacifico, peraltro abbastanza fumosa, stava per essere presentata in pompa magna in un vertice, lo scorso settembre, proprio quando i paesi anglosassoni hanno rivelato al mondo la nascita dell’alleanza AUKUS, tra Stati Uniti, Gran Bretagna e Australia. La rottura degli accordi economici e strategici tra Australia e Francia, la quale si ritiene, a torto o a ragione, un paese protagonista nell’area, avendo circa due milioni di cittadini e una presenza anche militare, benché non paragonabile a quella degli Stati Uniti, ha dato la misura dell’accelerazione nel processo di crisi. Gli accordi come si sa prevedevano la fornitura di sottomarini convenzionali e sono stati disattesi in favore di un contratto con la marina americana per la costruzione di sottomarini nucleari, più veloci di quelli a gasolio, capaci di una maggiore autonomia in mare aperto senza bisogno di rifornimenti, più difficili da individuare e spesso armati con testate nucleari.

La Francia come si diceva vorrebbe giocare un ruolo di primo piano e pretenderebbe di dividere la Russia dalla Cina, mentre la linea della CDU di Angela Merkel è sempre stata più orientata ad un pragmatico basso profilo nei confronti di Pechino per non compromettere i ricchi e reciproci interessi commerciali. Ora qualcosa potrebbe cambiare, sia perché è finita l’era Merkel, sia perché gli Stati Uniti non tollerano più l’ambiguità strategica europea; chiedono alleati solleciti e affidabili, non sono più nella condizione di fare sconti e favoritismi.

Dunque, come sempre, la linea europea è il risultato del compromesso di basso profilo tra posizioni e interessi diversi, francesi e tedeschi in primis, a cui sul tema si aggiunge l’iniziativa olandese. L’intenzione dichiarata è quella da un lato di dar vita entro qualche anno ad una forza di pronto intervento europea, parzialmente autonoma, ma non in contrapposizione con la NATO, dall’altro è quella di preservare nella zona un ordine multilaterale difendendo gli interessi e i “valori” europei (difficile anche semanticamente distinguere tra i due). La prima urgenza è quella di ridurre la dipendenza del proprio sistema industriale dai prodotti di Taiwan che potrebbero venire meno o essere forniti solo a discrezione degli americani o dei cinesi a seconda di chi dovesse prevalere e, in questo senso, l’Unione europea sta avviando contratti di partnership con Giappone, Corea del Sud, Singapore e lavora alla creazione di un polo dei microprocessori europeo.

La seconda direttrice lungo la quale si vorrebbe sviluppare la politica estera comunitaria è quella di contrapporre alla Belt and Road Initiative cinese un’analoga iniziativa europea di segno contrario che punti alla promozione e alla facilitazione dell’export e degli investimenti europei, con quale esito è ancora difficile dire visto che tutti gli investimenti ora sono concentrati sul recovery plan.

Gli altri attori in gioco

Un altro sistema di alleanze in quest’area poi è stato riattivato per l’occasione, il cosiddetto QUAD, che vede associati sotto la leadership americana l’Australia e due colossi quali il Giappone e l’India. Anche qui fioccano vertici, esercitazioni militari congiunte e colloqui diplomatici continui. In questo momento gli Stati Uniti preferiscono evidentemente sviluppare diversi sistemi di alleanze a geometrie variabili, a seconda del grado di coinvolgimento dei paesi implicati, piuttosto che un’unica linea Maginot, benché sia evidente anche ad un bambino da che parte stia il nemico e quale sia l’oggetto di tanta solerte iniziativa diplomatica.

In particolare, tra Cina e Australia negli ultimi due anni c’è stato un crescendo di contrapposizione diplomatica e commerciale. In Australia a partire da marzo 2021 (5) è stata promulgata una legge per cui ogni contratto firmato da singoli Stati, comuni, università, enti pubblici o privati deve essere approvato dal governo federale, il quale ha già messo il veto sul contratto che era stato fatto nel 2018 per la Belt and Road Initiative e si è fatto alfiere di un’inchiesta internazionale sulla gestione cinese del coronavirus. La Cina ha reagito con l’innalzamento di tariffe commerciali su una serie di prodotti provenienti dall’Australia: carne, orzo, vino, ma non sul ferro, di cui è tra i principali esportatori al mondo. Canberra sta inoltre stringendo una serie di accordi sul piano militare e della cyber-sicurezza con la Corea del Sud.

In conclusione

Risulta evidente come il capitalismo prepari un nuovo conflitto di portata mondiale e non tema di spingere il pianeta sull’orlo di un precipizio non solo sul piano ambientale, ma ormai apertamente anche sul piano economico e sociale. L’idea delle macerie che ogni essere umano assennato istintivamente odia e respinge, il capitalismo invece la insegue, anche se inconsciamente, come la sua salvezza, la sua resurrezione. Svalutando capitale e ottenendo la tanto agognata “distruzione creativa” secondo la famosa definizione Schumpeter, il capitale avrebbe la strada spianata per far ripartire un nuovo ciclo di accumulazione come dopo le precedenti guerre, incurante degli effetti che questa sua “rigenerazione” avrebbe sul pianeta e sulla sua popolazione.

Il capitalismo ha avuto il “merito innegabile” di rendere la terra e tutto quanto vi accade una sola storia, un solo destino valido per tutti anche se in forme diverse, ci auguriamo che possa venire il momento in cui questa storia sia strappata dalle sue mani avide e incoscienti e riconsegnata in quelle di una specie umana che abbia saputo emanciparsi dal suo controllo, cosa che non può avvenire senza una rivoluzione proletaria.

MB

(1) Peter Symonds. US, UK, Australia military pact threatens war against China. Consultato il 13/11/2021 al link wsws.org

(2) Marco Lupis. Tokyo provoca la Cina su Taiwan, scivolone diplomatico che può destabilizzare l'Asia. Consultato il 13/11/2021 al link huffingtonpost.it

(3) China openly declares its imperialist ambitions. Consultato il 13/11/2021 al link leftcom.org

(4) China: Long Held US Fears Becoming Reality? Consultato il 13/11/2021 al link leftcom.org

(5) AUKUS: Another Preparation for Imperialist War. Consultato il 13/11/2021 al link leftcom.org

Martedì, December 28, 2021

Prometeo

Prometeo - Ricerche e battaglie della rivoluzione socialista. Rivista semestrale (giugno e dicembre) fondata nel 1946.