L’emulazione socialista dello stalinismo

Nella Russia post-rivoluzione il modo di produzione, dalla NEP in poi, dominante la società, era (meno, solo in parte, che nelle campagne) quello capitalistico, e poiché la Russia in generale mostrava un notevole arretramento, bisognava introdurre quel progresso scientifico-tecnologico che sarebbe poi diventato – con Stalin e mantenendo in vita tutte le categorie del capitalismo – l’imperativo ufficiale. Il prodotto, con la forma di merce, era presentato come “ricchezza sociale, socializzata”, con una ben precisa condizione: deve sempre dare un profitto, il più alto possibile. Ma presto la caduta del saggio di profitto avrebbe cominciato a… mordere anche “il socialismo in un solo paese” nonostante una parte dei mezzi produzione figurasse in proprietà allo Stato.

Ma cosa si “costruisce”? - Lo spaccio del capital-socialismo era aperto ad orario continuato: si nazionalizzavano i principali settori industriali e le banche (capitale finanziario); i prodotti, mantenendo rigorosamente la forma di “merci”, ( i cui prezzi erano determinati dagli organismi della pianificazione) erano venduti negli appositi mercati ( nel mercato gestito dagli organi stali della Pianificazione). S’intende che se i “consumatori” non hanno soldi in tasca, i mercati chiudono… Per questo, Lenin, pur fra le enormi difficoltà del momento, parlava di una prossima “eliminazione della produzione mercantile” che costringe a “modalità bestiali, non umane”. (Mie le sottolineature, più che meritate!)

La “edificazione del socialismo”, di cui parlava anche Lenin, in Russia partiva indubbiamente da una produzione industriale molto debole. Quindi, non si poteva – per il momento – che sviluppare una base economica che nella produttività del lavoro avesse il suo punto cardine, quindi scontrandosi con l’arretratezza dell’industria e della organizzazione della produzione vigente in Russia. Ergo, Lenin si vide costretto ad avviarsi su una strada dove – finché la rivoluzione non si fosse allargata al continente Europa – qualcuno pensava di “imparare il socialismo dai massimi organizzatori del capitalismo”…

Leggendo ciò che anche Lenin allora scriveva, vengono però i brividi, specie là dove ci si appellava ai “vecchi capitani d’industria, vecchi capi e sfruttatori” perché diventino “consulenti e consiglieri”. Addirittura stringendosi in una unione nazionale, quella fra “rappresentanti delle classi sfruttatrici e le masse lavoratrici”. Già, Lenin parlava di “creare il ponte che porta dalla vecchia società capitalistica a quella nuova, socialista”; ma si introduceva sul pericoloso passaggio di una “organizzazione del lavoro” che portava inevitabilmente a forme e contenuti bestiali, ad intensificare lo sfruttamento dei lavoratori per la sopravvivenza – innanzitutto - del capitale. “Assimilandoli”, per aumentare “la produttività del lavoro” (col sistema di Taylor in primis), l’Urss finiva con l’adottare i sistemi di sfrenato sfruttamento che tenevano in vita il capitale nel mondo.

Quanto alle “concessioni”, Lenin stesso ammetteva essere “un contratto, un blocco, un’alleanza del potere statuale sovietico, cioè proletario, col capitalismo di stato”: il capitalismo, tuttavia, ricerca profitti quanto più “eccezionali” siano, e in tale contesto l’Urss si aggrappava alla illusione di vedere sorgere – all’ombra traballante di una successiva… edificazione del nazional-socialismo – “grandi imprese modello che potranno reggere il confronto con quelle del capitalismo moderno progredito”. Lenin giustificava questo con il passaggio (però “fra qualche decina di anni”…) delle imprese al potere sovietico; ma al momento restava il capitalismo con tutti i suoi rapporti di produzione e categorie fondamentali che lo sostengono: merce, denaro, salario, valore di scambio.

E’ quello che sta avvenendo oggi in Cina, anzi già avvenuto (anche se non derivante dal fallimento di una rivoluzione proletaria, ma come copia del capitalismo di stato stalinista dopo la mancata rivoluzione internazionale, che sola avrebbe potuto salvare il progetto rivoluzionario dell’ottobre bolscevico): ed ecco Pechino, in vesti “nazional-socialiste” (ormai anche apertamente imperialiste) che “compete” con le maggiori potenze del capitalismo globale. Ciò che conta – e la sfera finanziaria batte cassa ovunque! – è che la produzione capitalista cresca e i rapporti sociali altro non cambino se non l’etichetta! E lo chiameranno socialismo…

Compiti immediati ma pericolosi - Al potere sovietico in quella fase storica incombevano compiti immediati – sempre in attesa dell’aiuto internazionale - che ancora poco o nulla potevano riguardare (quantomeno dalla sera alla mattina…) gli obiettivi di Lenin e di ogni comunista degno di questo nome. Era semmai il momento di concentrarsi su una più efficace organizzazione dell’emulazione, sotto controllo operaio. Ma era ed è evidente che non si esce dal capitalismo finché si resta all’interno del ciclo di produzione e riproduzione di merci con modi e tempi di sfruttamento del lavoro a essa necessari. Mantenendo quindi tutti i rapporti di produzione e distribuzione derivanti, ed anzi “esaltandoli” come avverrà (morto Lenin) perché aggettivati come “socialisti”. Si sprofonda nel capitalismo e infine nella sua “cultura” nonostante venga tirata in ballo una… “emulazione socialista” che – appunto e contrariamente a ciò che intendeva Lenin – farebbe concorrenza al capitalismo!

Altro non si poteva fare se non un passo indietro, quello della NEP. Ma dalla canna cominciava ad uscire troppo gas; l’accerchiamento capitalistico non consentiva di andare oltre, verso un socialismo impossibile senza una rivoluzione internazionale e senza la presenza attiva di partiti che la guidassero. Si era confinati in un solo paese, e per di più piuttosto arretrato. Solo uno Stalin poteva “costruire” un mostruoso “socialismo in un solo paese”…

E’ vero, si dovevano far funzionare le macchine nelle fabbriche e indubbiamente il capitale ci sapeva fare (e come!). Ma lo faceva per produrre merci che gli procurassero una propria valorizzazione ed una accumulazione di plusvalore. E questo medesimo fine si imponeva ora anche per la Russia dove si movimentava un capitale (sia nazionale sia “straniero”…) e quindi un profitto; dove si producevano merci e quindi i salari e il denaro erano indispensabili. Nulla cambia se valorizzazione e accumulazione si etichettano diversamente e diventano distributori di “benefici” e favori. Per i lavoratori? Già, ma non per tutti: a milioni godranno di un trattamento “riservato” visto che non assecondavano gli appetiti del capitale e il suo ruolo “socialista”! Più di 25 milioni (almeno 20 milioni autentici proletari) rinchiusi nei Gulag, “scuole di lavoro” per le svolte del “socialismo in un solo paese” che con lo stalinismo reclamava “lavoro forzato” per opere pubbliche e “interessanti” estrazioni minerarie… A parte, fucilazioni e terrore (a suon di purghe politiche) per chi dissentiva…

I “bisogni” del lavoro salariato - Aumentare la produttività, a parole per soddisfare i “bisogni” del popolo, ma nei fatti con le debite distinzioni fra le classi - in cui ancora si trovava diviso il popolo - e privilegiando il profitto per il capitale… “socialista”). Non solo, ma anziché indirizzata a diminuire la fatica del lavoro ad uomini e donne, doveva sfornare una quantità maggiore di merci da offrire sui mercati a prezzi “competitivi”. La Nep era certamente una fase ibrida ed il pericolo era enorme: si stavano accettando elementi di capitalismo sperando di neutralizzarne in seguito gli sviluppi, con un successivo controllo in grado di tenere a bada gli spiriti bollenti di un capitale a cui presto sarebbe stato applicato il distintivo della falce e martello. (ma la NEP, come dice Lenin, era il,necessario passo indietro per mantenere il potere politico in attesa della rivoluzione internazionale, che mai arrivò)

E poi, inevitabilmente, verrà la pianificazione, puntando ad una (nelle logiche del capitale) maggiore creazione e gestione del valore (non certo d’uso, ma monetizzandolo come valore di scambio), nel rispetto – solo mistificato – delle leggi di movimento del capitale. Un capitale “socializzato” (in seguito con l’apporto “geniale” di Stalin) che lo Stato gestirà con la scusa di porlo al servizio del “produttore-consumatore”. Già, ma con nel mezzo lo sfruttamento del lavoro, la produzione di merci,i relativi prezzi funzionali al capitale investito per produrle, il mercato e, alla fine con la verifica del conto delle entrate-uscite… e dell’andamento del saggio di profitto.

Quanto alla famosa “emulazione”, per Lenin non era certamente da intendersi come la “concorrenza” (“tipica della società capitalistica, che consiste nella lotta fra singoli produttori per un tozzo di pane e per avere maggiore influenza, o fette di mercato” – scriveva). Non aveva alcuna “correlazione col mercato dei produttori, secondo le modalità bestiali del capitalismo”. (Lenin, I compiti immediati del potere sovietico, Vol. 36, p. 150-1)

L’organizzazione che Lenin proponeva era principalmente quella di un sistema di contabilizzazione e controllo riguardante le quantità di lavoro, la produzione e la ripartizione dei prodotti finiti; un impegno, questo controllo, svolto dagli stessi lavoratori, “prestato volontariamente, energicamente, con entusiasmo rivoluzionario”. (Lenin, Come organizzare l’emulazione).

Nulla a che vedere – siamo nel 1929 – con le brigate d’assalto composte dagli assaltatori, quasi tutti provenienti dalle ultime leve operaie, quelle più giovani (centinaia di migliaia di iscritti al partito ogni anno) che guardavano ad un socialismo ormai profondamente manipolato e travisato. Quasi sempre mal visti dalla maggioranza dei lavoratori preoccupati per una eventuale riduzione della paga oraria e un maggiore carico di lavoro. Ma le accuse contro i “nemici del popolo, di classe, del socialismo; ai sabotatori, alla cattiva fede” di chi disapprovava quel “modo socialistico di produzione” e la sua “legge fondamentale”, mistificavano soltanto un presunto nuovo “atteggiamento comunista verso il lavoro”.

Rafforzavano – come Stalin comandava – quel feticismo della merce davanti al quale si dovevano inginocchiare produttori e consumatori. Il traguardo era quello – attraverso il piano quinquennale – di raggiungere “una velocità di produzione tale da non poter essere raggiunta nemmeno dal capitalismo. La nostra industria socialista, raggiunge e supera lo sviluppo dei Paesi capitalisti...”. E, soprattutto, si “fanno soldi”, pacchi di rubli che – in qualità di plusvalore strappato dallo sfruttamento (rigorosamente “socialista”!) della forza-lavoro dei proletari russi – giustificheranno la forma merce dei prodotti sovietici nel modo di produzione che caratterizzava il “socialismo in un solo paese”.

Così si forgiava l’uomo nuovo, schiavo di una valorizzazione economica che – come in ogni altro paese (e Stato) capitalista – monetizzava bisogni, desideri e attività di ogni tipo. A condizione – sine qua non – che i produttori garantissero un flusso ininterrotto di profitto, innanzitutto con una costante “riduzione dei costi di produzione”. E dovevano essere tali da raggiungere e superare ciò che ottenevano “gli Stati capitalisti avanzati”. Questa era l’emulazione stalinista che doveva abbassare i costi di produzione delle merci, facendo “nascere un nuovo tipo di operaio socialista nelle fabbriche e negli stabilimenti sovietici. Cresce il ruolo e la partecipazione delle masse operaie nella gestione dello Stato”. Soprattutto sostenendo il piano quinquennale come principale strumento di lotta contro i sopravvissuti elementi capitalistici e la stabilizzazione delle basi – si raccontava - per la società socialista. Spacciando la dittatura del partito (comandato da Stalin) per una dittatura del proletariato e contrabbandando le categorie economiche capitalistiche come elementi del costruendo socialismo in un solo paese.

Ovunque si esaltava la maggiore efficienza produttiva possibile (e lungo l’arco di tutte le 8 ore della giornata lavorativa e di tutti i 6 giorni della settimana lavorativa). Un quadro economico “socialista” perché – appunto - “economicamente vantaggioso” per il capitale! Soprattutto – illusione comune ad Oriente ed a Occidente, sostenuta dal modo di produzione dominante – perché modificava la composizione organica delle principali strutture produttive…

Produrre e commerciare - Con i programmi di pianificazione si accentuò il controllo dell’intero processo produttivo, il cui fine - moltiplicare letteralmente gli indici di produzione industriale - darà inizialmente risultati “positivi”, vista l’arretratezza iniziale. Ma colmata questa, inevitabilmente si sarebbe dimostrato (a ciechi e sordi!) quali erano i limiti (e i crimini!) di quello specifico modo di produzione e distribuzione. Col quale si superano, indubbiamente, le condizioni altrettanto bestiali del modo di produzione medioevale, ma poi fermarsi al capitalismo significa condannare la specie umana ad un ritorno alla barbarie. Quella barbarie di cui stiamo avvertendo – ad Oriente e ad Occidente – le minacce e gli annunci, anzi gli effetti in molti casi già reali e molto concreti.

Intanto, in Russia, si diffondeva ovunque il motto “più produci, più guadagni”, celebrando con tutti gli onori il modello Stachanov. Il partito di Stalin lo sosteneva e glorificava, a spada tratta in tutte le sedi e le “cinghie di trasmissione”, come i sindacati che a loro volta sostenevano le “direttive socialiste”…

L’economia deve economizzare: questa è l’esigenza del tempo attuale” (incitavano gli articoli della Pravda). Sarebbe così aumentato il reddito nazionale, a migliaia e migliaia di rubli. E qui, soprattutto, contava il “risparmio del tempo lavorato”, da ottenersi con ogni mezzo. Zdanov, braccio destro di Stalin, sentenziava: “Gli stacanovisti sono autentici bolscevichi della produzione”. Si accelerava una accumulazione originaria, ancora da completare, ammantandola di “socialismo” per meglio nascondere quel “sangue e sporcizia” (Marx) che ogni movimento del capitale, qualunque sia la propria aggettivazione (privata o statale), porta con sé.

Anche in Russia (come avviene oggi in Cina) tutte le produzioni andavano strutturate ad alta intensità di capitale costante, con la illusione di incrementare al massimo il saggio di profitto, poiché ogni prodotto veniva considerato come una merce da vendere. Ne conseguiva l’imperativo: produrre, produrre e ancora produrre, sviluppando non solo il commercio interno, nazionale, ma anche quello estero. Solo così – coi mercati in sviluppo – si sarebbero portati avanti i re-investimenti di capitale, e quindi una sempre maggiore espansione economica-commerciale col contorno di una galoppante mentalità borghese

Occorreva però perseguire una continua riduzione dei costi di produzione, una direttrice – questa- che si impone a tutti gli pseudo socialisti, affinché i bilanci aziendali siano sostenibili (in attivo). Abbandonato il mito integrale della pianificazione, ora (in Cina) ci si concentra sulla produzione-distribuzione di ogni tipo di merce, aumentandone la quantità per contrastare la caduta dei saggi di profitto. Con l’imperativo della valorizzazione di tutto ciò che si produce e si consuma, per poterlo vendere nei mercati.

Ma ogni direttore di questa orchestra – sia essa privata o statale - controlla una partitura musicale per tutti comune: aumentano le stonature accompagnanti la sempre più difficile, anzi impossibile, gestione di un’opera che anziché riempire i teatri, li fa crollare. Sugli stessi, attoniti e confusi orchestrali e spettatori; quest’ultimi costretti a pagare anche un salato biglietto…

DC
Domenica, January 2, 2022

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.