I primi cento giorni di lotta in Iran

Nel momento in cui scriviamo, sono da poco passati cento giorni, da quel 16 settembre, in cui fu uccisa la curdo-iraniana Masha Amini, rea di non aver indossato correttamente il velo. Da allora un forte movimento di protesta sta attraversando le strade e le piazze dell’Iran. Il paese non è nuovo a scosse telluriche di questo tipo e negli ultimi quindici anni ne ha attraversate almeno 3 o 4; benché ciascuna scossa abbia avuto caratteristiche peculiari, tutte hanno messo in evidenza l’inadeguatezza e l’anacronismo del regime degli Ayatollah e quest’ultima più delle altre.

Non ci schieriamo tra coloro che pensano che una rivoluzione in senso democratico occidentale - ammesso che sia possibile in questo momento – sia la soluzione dei problemi degli iraniani. Il mondo in cui viviamo soffre innanzitutto dell’esaurirsi di un ciclo di crescita globale del capitalismo e delle recrudescenze sempre maggiori che questo comporta, ma è certo che in alcune aree del mondo all’onnipresente dittatura della borghesia - che si presenta ora in veste di capitale privato, ora di stato, ora gestito dai militari ora dai religiosi - si associano sistemi politici particolarmente odiosi. Sarebbe vano stilare una classifica dei più reazionari, ma di sicuro se una tale graduatoria esistesse la teocrazia iraniana si collocherebbe in ottima posizione. La crisi di valorizzazione colpisce un po’ dappertutto, ma morde di più in quei paesi dove i margini economici di manovra di una società divisa in classi sono ristretti e le tensioni sociali, di conseguenza, più difficili da gestire.

Le ristrettezze in cui si muove quell’agglomerato religioso-militare che è il settore dominante della borghesia iraniana sono note: le sanzioni economiche imposte dagli Stati Uniti hanno limitato l’afflusso di capitali dall’estero, sia sotto la forma di rendita petrolifera, che è diminuita drasticamente, sia sotto forma di investimenti produttivi nelle notevoli risorse naturali ma anche umane che il paese può offrire (le università iraniane, per esempio, forniscono tecnici di ottimo livello).

Una delle conseguenze è stato il rallentamento nello sviluppo tecnologico: per paradosso l’Iran, che è ricchissimo di idrocarburi, ha una ridotta capacità di raffinazione. Con il tempo il blocco a cui gli Stati Uniti (l’Europa anche in questo caso si è dovuta adeguare) hanno sottoposto l’Iran, ha prodotto da un lato una risposta autarchica e dall’altro il reindirizzamento dei legami commerciali verso l’Asia e l’oriente, in modo particolare verso una Cina che non vedeva l’ora di aggiungere altri tasselli al mosaico delle sue vie della seta e di garantirsi forniture energetiche a prezzo di favore(1). La situazione non era rosea neanche prima, ma è peggiorata quando Trump ha annunciato il ritiro dall’accordo sul nucleare (JCPOA): il riyal ha cominciato a perdere valore, l’economia è entrata in affanno anche per effetto della cattiva gestione del Covid, l’inflazione ha raggiunto il 50% e sono aumentate la disoccupazione e la povertà. Il recente fallimento nella ripresa dei negoziati e l’accresciuto isolamento internazionale del paese, frutto dell’avvicinamento alla Russia, a cui fornisce armi, e della repressione brutale delle proteste, hanno avuto come conseguenza un ulteriore deprezzamento della moneta rispetto al dollaro.

Bisogna ricordare che uno dei pilastri su cui si è retto per anni il consenso al regime teocratico è un sistema di welfare diverso dal modello europeo a cui siamo abituati, fatto di sovvenzioni, clientele e assistenzialismo delle fondazioni religiose, ma pur sempre in grado di far sgocciolare quota parte della rendita petrolifera verso gli strati inferiori della popolazione. In maggio il presidente Raisi ha annunciato un taglio alle sovvenzioni su grano e farina e altri prodotti alimentari di base, proprio nel momento in cui il grano sta diventando più caro per effetto del conflitto in Ucraina; a questo aggiungiamo il grado di corruzione ed inefficienza dei potentati economici che compongono il sistema iraniano e il fatto che quota parte della rendita petrolifera viene dirottata dai pasdaran verso il mantenimento di rapporti con quelli che gli analisti chiamano i “proxies” iraniani all’estero, ovvero partiti o movimenti politico-militari legati al regime e operanti in Siria, Iraq, Libano, Palestina, Yemen.

Questo il contesto delle proteste, il resto è cronaca, nel senso che una popolazione giovane (il 38% degli iraniani ha meno di 25 anni), che vive in modo acuto il problema della disoccupazione e del precariato, che non ha vissuto gli anni della rivoluzione khomeinista, né i successivi sanguinosi anni della guerra contro l’Iraq, che ha di fronte a sé un’élite chiusa in sé stessa e nei suoi privilegi, corrotta, anacronistica, non riesce più a tollerarne i soprusi. Le prime manifestazioni sono state violente soprattutto nelle aree etnicamente miste, in particolare l’area curda e l’area araba al confine occidentale, ma le proteste si sono poi diffuse nelle principali città dell’Iran, a Theran, a Isfahan, a Shiraz. Alla testa della mobilitazione ovviamente le donne in una fase inziale, gli studenti universitari, gli insegnanti e in certi scioperi perfino il Bazar, la piccola e media borghesia commerciale ha chiuso le serrande. Poi anche il mondo operaio ha cominciato a mobilitarsi, in particolare i lavoratori a contratto del settore petrolifero, della raffinazione, dell’acciaio, dello zucchero. Sulla base delle poche informazioni in nostro possesso è difficile capire se la protesta continuerà ad estendersi o se vincerà la repressione da parte del regime, che ha prodotto già centinaia di morti, più di trentamila arresti e recentemente anche impiccagioni eseguite praticamente senza processo. Alcuni esperti giudicano possibile una spaccatura all’interno della classe dominante che riduca il peso del clero sciita, in questo momento forse la parte più odiata del regime, in favore della componente militare, un processo che rievoca purtroppo gli esiti finali del processo avviatosi in Egitto con la primavera araba, ma è sempre rischioso fare previsioni, specie con le poche informazioni disponibili e i continui blocchi di internet imposti dal regime.

Sul fronte delle lotte operaie quello che abbiamo già rilevato in diversi nostri articoli(2), sono i primi preziosissimi embrioni di organizzazioni di difesa economica autonoma da parte dei lavoratori, ci riferiamo per esempio al “Consiglio Organizzatore” delle proteste dei lavoratori petroliferi. Il regime teme particolarmente la mobilitazione operaia e lo sciopero generale perché ricorda che da quest’ultimo venne il colpo di grazia al governo dello Scià. Molto probabilmente farà di tutto per alternare il bastone e la carota e per dividere i lavoratori in settori e aree geografiche: concedere agli uni, reprimere gli altri. Nondimeno la formazione di organismi di difesa degli interessi operai indipendenti da qualunque organizzazione statuale, sindacati ufficiali o “consigli islamici” (il surrogato che ha cercato di introdurre il regime), è un passo importantissimo. È indispensabile creare ambienti separati dall’ambiente politico della classe dominante e dalle sue narrative, ambienti in cui i lavoratori possano produrre ed elaborare delle proprie istanze economiche e politiche. L’altro aspetto, collegato a questo, sarebbe quello di creare, pur nelle difficilissime condizioni imposte dalla repressione, i primi germogli di un’organizzazione rivoluzionaria, per forza di cose clandestina in questo momento, che dia una forma, un significato e una direzione alla combattività diffusa. Non è ancora il tempo per una rivoluzione comunista, che per forza di cose se avverrà non potrà che avvenire su scala internazionale, ma su ciò che si deposita da queste lotte si possono forse prepararne le basi.

MB

Note:

(1) Vedi l’articolo “Gli accordi Cina-Iran” su Prometeo, giugno 2021. leftcom.org

(2) Si vedano per esempio: 1) leftcom.org , 2) leftcom.org , 3) leftcom.org

Giovedì, December 29, 2022