TRUMP E LA NUOVA ETA’ DELL’ORO

Partiamo dalla più tremenda delle metafore che ci racconta dell’investitura di Trump come quarantasettesimo presidente degli Stati Uniti che, circondato da una interessata corte di vassalli miliardari, tanto ricchi quanto opportunisti - erano presenti anche all’incoronazione di Biden - ha solennemente dichiarato di essere stato salvato dal suo dio per compiere due miracoli. Il primo sarebbe quello di riportare l’America ad essere la più grande potenza economica e finanziaria del mondo (America first). Il secondo quello di portare la pace nell’universo intero. Tradotto in termini di geopolitica internazionale, ovvero di rapporti di forza interimperialistici, si ha che il presunto “unto dal signore” continua a fare quello che hanno fatto sino a ieri tutte le Amministrazioni precedenti, sia in versione repubblicana che democratica, ultima in ordine di tempo quella di Biden. Le uniche differenze consistono nella rozzezza del personaggio, nella sua virulenza politica e volgarità personale.

Prima ancora di prendere possesso della Casa Bianca, Trump ha gridato al mondo intero che sarebbe stata sua intenzione favorire l’annessione a cinquantunesimo Stato degli Usa, il vicino Canada. Di sottrarre, anche con la forza, se necessario, alla Danimarca l’isola della Groenlandia, di riappropriarsi del canale di Panama e di cambiare nome al Golfo del Messico ribattezzandolo Golfo d’America. Se disaggregassimo queste dichiarazioni ultra bellicose e le rendessimo in termini semplici, ne risulterebbe che la nuova denominazione del Golfo del Messico si ridurrebbe ad un perentorio monito nei confronti del vicino meridionale in modo che sappia di essere sempre e comunque nel mirino di Washington e non solo per una questione di migranti. Per il Canada l’auspicio è solo quello di avere a disposizione un alleato sicuro, affidabile e subalterno, come se facesse parte della Federazione statunitense. Per le mire sulla Groenlandia le cose sono più preoccupanti. L’interesse dell’imperialismo americano non si limita a fare del territorio autonomo danese un avamposto verso il Polo nord e le sue presunte risorse minerarie e strategiche, bensì è quello di sfruttare subito quelle ingenti dell’isola in questione. Nella terra dei vichinghi è appurata la presenza di gas, di petrolio, delle richiestissime “terre rare” indispensabili alla produzione di microchip ad uso civile e, soprattutto, militare, oltre a oro, litio ecc.. Per cui il neo presidente non ha escluso l’uso della forza pur di entrarne in possesso, alla faccia del diritto internazionale - per quel che può valere quando in ballo c’è la gestione degli interessi imperialistici - e alla faccia dello sbandierato (falso) pacifismo della altrettanto falsa campagna elettorale.

Per i destini del canale di Panama le prospettive sono ancora più tragiche, perché la preda sotto tiro è di una importanza assoluta. Facciamo parlare una nota dell’ANSA:

Il Canale di Panama, una delle opere di ingegneria più impressionanti mai costruite, è lungo 81,1 chilometri e collega l’Oceano Atlantico al Pacifico, offrendo una via di transito marittimo vitale per milioni di tonnellate di merci ogni anno. Ogni anno, più di 14mila navi attraversano il Canale, trasportando beni che rappresentano circa il 6% del commercio globale via mare. Questo traffico include materie prime come petrolio, gas liquefatto, cereali e metalli, vitali per l’economia globale, prodotti principalmente negli Stati Uniti. In effetti, il 73% di questo traffico commerciale è legato al gigante americano, facendo del Canale una risorsa fondamentale per l’economia a stelle e strisce. Ma il Canale non è solo importante per il commercio. Le forze militari statunitensi lo usano anche come rotta strategica per spostamenti rapidi tra i due oceani, rendendolo cruciale anche per la sicurezza”. L’Ansa dimentica una componente importante, ovvero che la Cina ha ottenuto dal governo panamense l’utilizzo di due attracchi strategici in grado di creare un presidio di Pechino sia per la navigabilità commerciale del canale, sia per una questione militare in diretta concorrenza con gli Usa che, non dimentichiamolo, sono ormai da anni, reciprocamente, i rispettivi nemici n°1 della moderna fase imperialistica mondiale.

Come corollario, sempre prima dell'insediamento ufficiale alla Casa Bianca, Trump ha reintrodotto la pena di morte per i reati federali, eliminando la moratoria che Biden aveva emesso nel 2021. Ha inoltre ordinato anche al Procuratore generale di richiedere la pena capitale "indipendentemente da altri fattori", quando il caso riguardi l'uccisione di un agente o reati capitali "commessi da uno straniero illegalmente presente" nel Paese, assicurandosi di "intraprendere tutte le azioni necessarie e legali" per garantire che gli Stati abbiano abbastanza farmaci per l'iniezione letale. Un modo barbaro per eliminare i migranti, trattandoli come se fossero soltanto dei feroci assassini.

Tra le altre promesse, c’è quella di garantire da parte dello Stato 500 miliardi per favorire il lancio dell’intelligenza artificiale che, oltre a far decollare la competitività americana nei settori della produzione di merci e servizi, ha il primario scopo di aggiornare l’apparato militare in tutti i settori e, in modo particolare, in quelli che sono ritenuti inferiori alle tecnologie della concorrenza imperialista (ancora Cina, ma non solo). Non certamente per creare le condizioni della pace, ma per prepararsi ad eventuali, e sempre più probabili, confronti bellici. Infatti i commenti che Trump ha pronunciato dopo la telefonata con il presidente Xi Jinping di venerdì 17 gennaio, affermano che una ipotetica tregua nei contrasti con la Cina, qualora ci fosse, sarebbe solo di breve durata. Trump, sempre durante la campagna elettorale, ha minacciato dazi indiscriminati sui Paesi esportatori negli Stati Uniti, tariffe comprese dal 10/25% per i paesi europei e del 60% sui prodotti cinesi. Dopo l’elezione, ha minacciato di imporre un dazio aggiuntivo del 10% sulla Cina, giustificandolo per una questione con la droga che Pechino esporterebbe negli Usa. Inoltre, comminerebbe tariffe del 25% su Messico e Canada, se non aiutassero gli Stati Uniti a proteggere i suoi confini. Non da ultimo, le minacce riguardano anche l’Europa, in modo particolare la Germania, la Francia e l’Italia in testa, con dazi variabili da un minimo del 10% ad un massimo del 20%, salvo incrementi dovuti alla diminuzione del tasso di allineamento politicp dei paesi in questione. Infine ha deciso di smantellare tutte le normative sulla politica “green” sostituendole con la licenza di trivellazione ovunque , persino nelle aree protette. Ha sottoscritto l’uscita dagli Accordi di Parigi sul clima e dall’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) , come dire: “chi se ne frega dell’ambiente e della salute”, prima di tutto vengono gli interessi dell’economia americana poi il resto, anche se sarà una catastrofe annunciata. Gli Stati Uniti vogliono rimanere i più importanti produttori e venditori di gas liquefatto e di petrolio al mondo, semmai consolidare il loro primato, e non saranno certamente degli Accordi ad impedirlo. Sono stati tra i maggiori inquinatori del pianeta e continueranno ad esserlo, in nome del solito dio, in questo caso nella immagine del verde dollaro. Sul lato dell’aiuto alle imprese che sono in sofferenza Trump ha deciso di diminuire le tasse dal 21% al 15%, con lo scopo di renderle più competitive sui mercati internazionali. Ha altresì decretato di diminuire, con l’aiuto di Musk, di 2 mila miliardi di dollari, le spese federali in sede burocratica, con tanto di migliaia di disoccupati. Come al solito, si stanziano soldi per sostenere le banche quando sono in difficoltà, le imprese legate agli armamenti prima di tutto, si tolgono miliardi all’amministrazione, creando un aumento al[aumentando il] già nutrito esercito di disoccupati nella pubblica amministrazione e nei settori del pubblico impiego.. Si penalizzano l’istruzione pubblica, la sanità e le pensioni in nome di una più razionale organizzazione sociale che, in realtà, non è altro che un segnale della crisi economica permanente che impone una economia di preparazione alla guerra, dove le maggiori risorse vanno alla modernizzazione degli armamenti di terra, di mare e di cielo (vedi ancora Musk). La lotta ai clandestini, (saranno milioni!! Non di criminali, ma di poveri lavoratori ridotti alla fame da salari miserevoli che verranno deportati) e infine la lotta all’aborto. Misure che altro non sono che dei corollari dettati da un becero nazionalismo protezionistico e da un buio schema sanitario di tipo feudale, funzionali a tentare di incamminarsi sulla presunta via verso la nuova “età dell’oro”.

In compenso, a proposito di pace, la nuova Amministrazione mentre sta apparecchiando il tavolo delle trattative con Putin, ha revocato le sanzioni contro i coloni e i gruppi armati dell'estrema destra israeliana che occupano e uccidono palestinesi civili in Cisgiordania, che sta diventando la nuova Gaza, per consentire di ultimare il progetto israeliano in terra di Palestina patrocinato dalla stessa nuova Amministrazione. Le sanzioni erano state imposte dall'ex presidente della Casa Bianca, Joe Biden, nei confronti di persone accusate di violenze contro i palestinesi e di occupazioni illegali in Cisgiordania, Trump le ha cancellate con un colpo di spugna, come la promessa della creazione dei “due popoli e due Stati”.

L'AGENDA DI TRUMP NEL MEDIO PERIODO

Seguendo le orme di Biden, il “padre padrone” del più forte imperialismo mondiale sta concertando il modo migliore per continuare ad esserlo e, se possibile, per avere un controllo ancora superiore rispetto a quello attuale. Un primo obiettivo della sua agenda riguarda la guerra tra Russia e Ucraina. Grazie al suo predecessore, che ha ricoperto di miliardi di dollari la difesa ucraina dagli assalti della Russia, con lo scopo di indebolire i due fronti, quello russo e quello europeo che ne subisce le conseguenze. Così Trump può tentare di dare consistenza ad una delle sua promesse: “con me alla Casa Bianca farò fare la pace ai due contendenti in una settimana”, dichiarazione poi rettificata in 7 mesi, ma si sa che il tycoon ha qualche problema di palese narcisismo. Già aveva dichiarato che gli Usa avrebbero diminuito gli aiuti militari a Zelenskij, perché troppo dispendiosi, e che qualora l’Europa volesse far continuare la guerra lo potrebbe fare sobbarcandosi il peso maggiore dell’onere finanziario, portandolo al 2% e poi al 5% del PIL come contributo per l’Ucraina. Sollevando così gli Usa da un onere economico che cominciava a pesare nei bilanci statali, oltretutto quando i due competitori mostrano di essere alle corde, dopo quasi tre anni di guerra e disponibili a tentare un accordo di pace. Trump vuole solo raccogliere i risultati in tempi utili, proponendo un tavolo negoziale. In questa ipotesi, all'Ucraina rimarrebbe l’indipendenza da Mosca, la sicurezza dei suoi confini, un piano “Marshall” per la ricostruzione, la certezza di entrare nella Comunità europea e poco altro. Prendere o lasciare, e viste le condizioni disastrose di Kiev e l’atteggiamento americano sempre meno disponibile, ci sarebbe poco da sperare in qualcosa di più. A Mosca andrebbero la conferma del possesso della Crimea, il Donbass, le zone russofone e, cosa importantissima, una dichiarazione congiunta (Ucraina-Russia) che Kiev non entrerà nella NATO per i prossimi 20 anni. Comunque vadano a finire le cose sull’apertura di un tavolo di negoziazione, per gli Usa si sono già concretizzati tre importanti frutti strategici, coltivati pazientemente dall’Amministrazione Biden e raccolti da quella di Trump. Il primo è quello di aver indebolito pesantemente l’imperialismo russo, costringendolo ad una guerra di logoramento quando Mosca pensava di risolvere la “campagna” di Ucraina nel giro di qualche mese. La guerra di aggressione, inoltre, ha consentito di penalizzare Mosca con una serie di sanzioni commerciali e finanziarie che hanno disturbato non poco la sua economia, isolandola dal mercato occidentale. Buon ultimo, ma non per importanza, è calata come una mannaia la chiusura dei due Nord Stream e l’inibizione del passaggio del gas e del petrolio russi via Ucraina verso l’Europa. Il secondo è quello di aver indebolito con la Russia l’alleato principale della Cina. Così gli Usa hanno ottenuto lo scopo di indebolire una componente determinante della catena imperialistica avversaria che comprende(va), oltre all’Iran, la galassia dei gruppi jihadisti sciiti in Iraq, Siria, Yemen e Corea del Nord oltre, ovviamente, la Cina, che continua ad essere per Washington l’avversario più importante da colpire.

Contemporaneamente all'indebolimento del fronte imperialistico opposto, e siamo al terzo frutto, Washington ha messo in ginocchio anche l’economia “dell’alleato servo” ovvero l’Europa. La “campagna di Ucraina”, nei fatti, è stata una guerra tra Stati Uniti e Russia combattuta sulla pelle degli ucraini e pagata in termini economici, commerciali ed energetici dall’Europa. Tagliata la fonte energetica, staccata l’Europa dalla dipendenza della Russia, bloccati i rapporti commerciali con tanto di sanzioni per quei paesi che non li avessero osservati, la Germania è entrata in recessione, la Francia e l’Italia hanno visto diminuire del 50% gli incrementi del PIL. I loro governi hanno dovuto rivedere al ribasso le prospettive di sviluppo e incidere pesantemente sullo smantellamento del welfare, con le solite ripercussioni sui salari, sulla sanità e sulla scuola. Così gli Usa, indipendentemente dal tipo di Amministrazione, sono riusciti a mettere in difficoltà il nemico russo e a rendere innocuo e ulteriormente subalterno “l’alleato europeo” costringendolo a comprare a prezzi esorbitanti il loro gas e a ridimensionare il ruolo dell’Euro, che qualche fastidio, nel recente passato, ha dato alla supremazia del dollaro. E per l’Europa, in proiezione futura, non mancano, come s'è detto, le minacce di applicare dazi dal 10% al 20% con l’intenzione di colpire in primo luogo Germania, Italia e Francia ossia i paesi UE che concorrono maggiormente al gigantesco deficit nella bilancia dei pagamenti con l’estero americana.

MEDIO ORIENTE E ISRAELE

Lo stesso metodo si è ripetuto nell’area medio-orientale. Lo scontro tra Israele e Hamas, sconfinato poi in Siria, Libano, Iraq e Yemen del Nord, ha devastato la striscia di Gaza prima e la Cisgiordania con una tragica concatenazione di eventi bellici, compiendo un “semi genocidio” nei confronti della popolazione civile palestinese, e ha avuto la solita regia americana. Inizialmente con Biden e successivamente con Trump, l’obiettivo immediato era quello di recidere i tentacoli dello jihadismo sciita legati all’Iran (terzo elemento della catena imperialistica euro- asiatica e nemico principale dell’imperialismo d’area israeliano), per poi passare ad una fase più complessa. In sintesi, il nuovo ordine in Medio oriente è passato dall’appoggio incondizionato degli Usa a Israele, consentendo al governo di Netanyahu di annientare l’avversario contro tutti e tutto sino al punto di rischiare di essere condannato per crimini di guerra. Pena non comminata grazie all’uso del diritto di veto degli Usa all’interno del Consiglio di sicurezza dell’ONU. Al riguardo, si aggiungano le dichiarazioni Trump del 26/01/25 in cui suggerisce di spostare (deportare) due milioni di palestinesi in Giordania o in Siria/Libano per ripulire Gaza, ovviamente non solo dalle macerie. Piano che Netanyahu ha sempre perseguito e che i fatti del 7 ottobre sono stati presi come pretesto per realizzarlo. Con questa complessa operazione il trinomio Biden-Trump-Netanyahu ha potuto isolare il comune nemico iraniano. Ha indebolito ulteriormente la Russia che, suo malgrado, dopo la caduta del regime siriano di Assad, ha perduto l’agibilità navale nei porti di Latakia e Tartus e si è vista costretta a chiedere ospitalità al poco affidabile Haftar nella parte cirenaica della Libia. Peraltro in difficile coabitazione con la Turchia che sostiene il governo “ufficiale” di Tripoli. Sulla questione palestinese Trump si è espresso in continuità con l’approccio di Biden sostenendo i coloni di Cisgiordania e definendo non illegittime le annessioni territoriali palestinesi al di là del muro. I dati statistici recitano che dall’inizio della guerra contro Hamas, l'illegale presenza di coloni israeliani in Cisgiordania è passata da 100 mila unità a 750 mila con tanto di migliaia di vittime civili tra la popolazione palestinese. Questa volta è il binomio Trump- Netanyahu a confezionare un nuovo destino per la Palestina, che non prevede più la fantomatica teoria dei due Stati e due popoli, ma una Stato, un popolo e una “riserva indiana” per i palestinesi che rimarranno. In sintesi, il nuovo Medio oriente dovrebbe prevedere il ridimensionamento del ruolo dell’Iran e dei suoi tentacoli jihadisti, l’emarginazione del ruolo della Russia e l’apoteosi del sionismo quale gendarme armato dell’area sotto il controllo dell’alleato americano.

Questo è il nuovo ordine mondiale che va costruendosi a colpi di guerre dirette e per procura. Al momento, l’imperialismo americano ha ottenuto i suoi obiettivi di breve periodo. Ha indebolito la Russia in Medio oriente e in Europa, ha indebolito l’Europa a livello internazionale in termini economici ed energetici, ma, soprattutto, le ha impedito di crescere come terzo polo imperialistico. Se fosse rimasta attaccata al petrolio russo, avrebbe potuto assumere altre posture di allineamento politico. Invece, staccata dall'ombelico energetico russo, ridotta ai minimi termini nello sviluppo economico e costretta ad accettare “l’offerta” del gas americano, oltretutto carissimo, per l’Europa, si sono chiuse tutte le possibilità di giocare un ruolo autonomo. A queste condizioni, per la strategia americana sarebbe più facile esercitare un controllo nei confronti di una quasi ex alleato ridotto ai minimi termini. Ma può esserci il rovescio della medaglia, ovvero che questa umiliante sudditanza nei confronti degli Usa, condita di sanzioni e di minacce per chi non rispettasse il ruolo di subalternità e la “gabella” dei dazi, potrebbe sortire l’effetto opposto: il non allineamento europeo. Certamente prospettiva di difficile realizzazione nelle condizioni attuali, ma non impossibile per il futuro, tuttavia anche se partisse avrebbe un percorso contrastato, lento, a tempi biblici. La stessa von der Leyen ha lanciato un grido di allarme per l’unità europea e per la constatazione che gli Usa non sono più un alleato affidabile. Ma siamo all’interno di questioni politiche inter- imperialistiche che si muovono in un limbo di ipotesi che, al momento, esulano dalla nostra analisi.

SEGNALI DI DEBOLEZZA DIETRO L’ARROGANZA

Si potrebbe pensare che i comportamenti dell’Amministrazione Biden e le arroganti esternazioni di Trump sui futuri destini del Canada, del Messico, della Groenlandia e del canale di Panama, su cui già ci sono state alzate di scudi da parte russa, e non mancheranno quelle cinesi, siano un segno di potenza, quando invece nascondono i sintomi di una intrinseca debolezza derivante da una crisi strutturale che ha investito da decenni l’intero mondo capitalistico, a partire dagli Stati Uniti. Senza dilungarsi troppo sull’aspetto della crisi economica che affligge gli Usa, valgano pochi dati di riferimento. Il debito pubblico americano è pari a 35 mila miliardi di dollari, con un servizio sul debito di 1,2 mila miliardi all’anno e, secondo attendibili proiezioni nei prossimi dieci anni se ne aggiungeranno altri 20 mila, raggiungendo la faraonica cifra di 56 mila miliardi di dollari (Per contestualizzare, il debito mondiale totale ammonta ora a circa 310.000 mld di dollari, mentre dieci anni fa era di 210.000 mld di dollari). Solo quello contratto dalle famiglie per far studiare i propri figli è di 1,7 mila miliardi. La bilancia dei pagamenti con l’estero è in rosso di 1,2 mila miliardi e fonti ufficiali degli Istituti di ricerca americani con sede a N.Y. - che di solito si interessa prevalentemente di questioni finanziarie, ma in questo caso anche di imprenditoria produttiva - dichiara che il 50 % delle imprese americane non sono redditizie. Detto in altri termini, negli Usa la caduta del saggio medio del profitto è in progressione quasi inarrestabile. Lo sviluppo tecnologico aumenta lo sfruttamento e la massa dei profitti ma penalizza il saggio. Ovvero i capitali investiti nella produzione hanno sempre maggiori difficoltà a valorizzarsi quando il rapporto tra la massa dei capitali investiti e il numero degli addetti alla produzione (proletari) vanno in direzioni opposte. Questa modificazione del rapporto organico è alla base della crisi permanente dei capitali a cui non sfuggono quelli americani. Anche in questo caso qualche dato esemplificativo. Secondo i profitti medi lordi delle imprese Usa dopo il 1940 evidenziano una costante diminuzione: fino al 1956 il saggio di profitto risulta del 28%, diminuisce al 20% fino al 1980 e poi scende al 14% fino al 2014. , si segnala tra fine anni Novanta del secolo scorso e primi Duemila (1997/2008) un aumento del capitale (nella sua composizione organica) del 22%. Tra il 1963 e il 2008 a fronte di un saggio di profitto diminuito del 21%, la composizione organica sarebbe aumentata del 51%.

I dati più recenti, pur con oscillazioni, quelli fino al 2020, confermano la tendenza. Ma com'è possibile che la più forte potenza imperialistica al mondo possa sopravvivere sotto una valanga di debiti e di deficit finanziari? La risposta è semplice: è la supremazia del dollaro che convoglia verso gli Usa un fiume enorme di capitali e di l’essere, grazie a questi capitali egemone anche da un punto di vista militare. Ecco perché la debolezza può diventare un fattore di uso della forza e di aggressività su tutti i fronti. La bilancia dei pagamenti è in passivo? “No problem” direbbe Trump, ci sono le tasse sull’importazione, i famigerati dazi. Tra i vari esempi, oltre quelli già citati contro Cina, Russia ed Europa, si potrebbe citare quelli minacciati nei confronti del Canada e del Messico. In entrambi i casi la minaccia sarebbe del 25%. Nel caso del Canada la mannaia cadrebbe se il suo governo, debole e in crisi politica, non accettasse “l’invito” a diventare il 51 esimo Stato degli Usa. In quello messicano la minaccia incomberebbe nel caso in cui il suo governo non tentasse di riequilibrare gli inter-scambi a favore degli Usa e non si mobilitasse a dovere sulla questione migranti. La recente deportazione di migliaia di schiavi messicani, oltretutto non più nemmeno salariati, trasmessa in tutto il mondo, ne è un barbaro avvertimento. Gli imperialismi concorrenti vanno in cerca delle materie prime funzionali strategicamente? Noi conquistiamo con la forza, se necessario, la Groenlandia che ne è piena. Gas e petrolio sono ancora fondamentali per un progetto energetico? Noi siamo i maggiori produttori e combattiamo,per procura, la Russia che è una dei massimi produttori concorrenti invischiandola nella guerra di Ucraina. Qualche potenza concorrente o nemica (Russia, Cina, Iran, Brasile) cerca di combattere il ruolo del dollaro quale moneta universale negli scambi internazionali, soprattutto sui mercati delle materie prime e della tecnologia? Gli faremo fare la fine di Gheddafi e di Saddam Hussein, quando hanno minacciato di farlo. Le imprese americane sono in difficoltà competitiva con quelle europee e cinesi? Sempre “no problem”, finanziamo le loro attività aumentando il debito pubblico e aumentiamo il numero dei dazi. I nostri capitali ad investimento produttivo hanno difficoltà a remunerarsi e un'importante quota parte fugge nelle torbide acque della speculazione (causa la prima ed effetto la seconda della legge della caduta del saggio del profitto). Faremo una politica finalizzata ad attrarre capitali esteri invogliando ad investire negli Usa, abbassando le tasse e garantendo un atteggiamento “comprensivo” da parte dei Sindacati, cosa peraltro già ampiamente praticata nel mondo del lavoro americano e non solo.... Un tempo erano i paesi poveri o in “via di sviluppo” che praticavano politiche di questo tipo per essere appetibili all’introduzione ai capitali esteri per “sostenere” la propria economia, anche a costo di costringere i propri proletari a vivere con salari di fame e a rinunciare alla più elementari sicurezze sindacali in termini di aumenti retributivi e di acquiescenza alle compatibilità dei capitali investiti. Se oggi Trump arriva a questi livelli, e lo fa con la brutale arroganza che lo contraddistingue, sta a significare la debolezza del sistema economico americano che annaspa in un mare di debiti e di deficit e che solo la potenza militare (uno dei pochi settori che produce e che funziona a gonfie vele) e la supremazia del dollaro lo tengono in piedi. Conclusione: guai a chi compete commercialmente con gli Usa, guai a chi ostacola il ruolo del dollaro, guai a chi tenta di mettere in gioco la sua supremazia imperialistica, altrimenti l’uso della forza scatterebbe automaticamente.

In questo quadro di crisi permanente del capitalismo, quello americano compreso, ciò che va assolutamente affrontato è, lo ribadiamo, il rapporto con la Cina, con quel l'imperialismo che ha nei suoi programmi non solo l'obiettivo di diventare il primo paese al mondo da un punto di vista produttivo, mercantile (Via della Seta), ma di competere con gli Usa sul terreno dell’alta tecnologia (robotizzazione, intelligenza artificiale, conquista dello spazio, strumentazione militare di nuova generazione ecc.). Oltre, naturalmente, a competere sui mercati finanziari tentando di infastidire il dollaro con la propria divisa, lo yuan, per le transazioni di gas e petrolio e delle materie prime strategiche. Se ciò avvenisse minerebbe una delle due colonne portanti dell’imperialismo americano, cosa che Washington non potrebbe mai permettere, a costo anche di uno scontro diretto. Il che farebbe precipitare il mondo in una inimmaginabile catastrofe.

Oltre ai dati di conflittualità citati, vanno presi in considerazioni altri due fattori. Quello del dominio delle vie di comunicazione commerciale, dei presidi portuali strategici, degli stretti che immettono o bloccano, a seconda delle circostanze, come, per esempio, lo stretto di Hormuz, il Bad el Mandeb, il porto di Gibuti e il canale di Panama. In aggiunta, c’è l’annosa questione del Mar cinese, il controllo delle isole dell’Indo-pacifico e, problema dei problemi, il destino di Taiwan. Nessuna delle ultime Amministrazioni americane ha sottovalutato la Cina e tutti i problemi che la sua esistenza imperialistica comporta, tanto meno Trump. Già l’Amministrazione Biden si era mossa con determinazione. Da almeno sei- sette anni attorno alla contesa isola si è mossa la marina militare americana, con l’aggiunta recente di quella sudcoreana, che hanno incrociato quella cinese.

Nelle vicinanze dalla cerimonia d'insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca, la Cina, a mo' di avvertimenti non casuali, ha effettuato ingenti pattugliamenti ai fini di possibili scontri nel sempre più conteso Mar Cinese Meridionale. Il Comando dell'Esercito Popolare di Liberazione cinese ha dichiarato che le sue forze navali e aeree hanno effettuato le necessarie "operazioni di pattugliamento". Precedentemente, l’Amministrazione Biden, come lascito testamentario a Trump, aveva inviato un rifornimento di materiali ad alta tecnologia e servizi militari per l’addestramento dell’esercito taiwanese per un totale di 571 milioni di dollari, a cui si sommano altri 295 milioni stanziati autonomamente dal Dipartimento della Difesa. In ulteriore aggiunta, il budget del Pentagono per il 2025 (arrivato a 895 miliardi di dollari) istituisce un ulteriore fondo che verrebbe usato per inviare altri rifornimenti militari, qualora necessari, all’alleato Taiwan in modo continuativo, come quello usato per sostenere militarmente l’Ucraina. Ma la Cina non è stata da meno, inviando cinque aerei e sei navi da guerra nello Stretto di Taiwan (primi di dicembre). Il Ministero della Difesa di Taipei ha però precisato che, alla fine dello stesso mese, Pechino, che continua a rivendicare la sua giurisdizione su Taiwan, ha ulteriormente inviato nello Stretto 400 aerei e 276 navi. La tensione è alta come non mai e il rischio di un “incidente” è all’ordine del giorno, con devastanti conseguenze per l’umanità e il già degradato ambiente.

Per concludere, ci serviamo di un nostro documento del 2024 che pone il problema della necessità di una risposta a questa nefasta prospettiva che la crisi permanente del capitalismo mondiale sta criminalmente preparando: il rischio di una guerra generalizzata

“Di fronte a tanta barbarie, più scientificamente distruttiva che nel passato, una sola forza sarebbe in grado di opporsi significativamente alla prospettiva di una guerra generalizzata. Questa forza è quella degli sfruttati, del proletariato internazionale, delle enormi masse di diseredati prodotte dalla crisi del capitalismo. E’ quella degli schiavi salariati che rappresentano con la loro forza lavoro la ricchezza sociale dei loro paesi e di cui raccolgono faticosamente le briciole, quando va bene, altrimenti sono disoccupati, sotto-occupati e sopravvivono in qualche modo ai margini di questa iniqua società fatta a immagine e somiglianza dalle esigenze borghesi. Questa forza che viene sfruttata in tempi di pace e usata come carne da macello in tempi di guerra può essere il più potente antidoto alla barbarie dell’imperialismo, a condizione di comportarsi come classe che combatte sì una guerra, ma la sua, contro il capitalismo, le sue insanabili contraddizioni, le sue crisi economiche e le devastazioni delle sue guerre. Ma per fare ciò questa forza dal potenziale immenso deve innanzitutto uscire dal pensiero dominante della classe dominante. Le guerre vengono imposte dalle crisi del capitale, vengono gestite dalle borghesie per difendere i propri interessi economici, condizione prima dei propri privilegi politici e sociali, ma combattute dai proletari succubi delle ideologie della classe dominante. Ideologie che, a seconda dei casi, si paludano di democrazia da difendere o da esportare, di interessi nazionali da salvaguardare, di principi religiosi “universali”, anche a costo di usare la forza per imporli. Per non parlare di tutte quelle ideologie razziste ed omofobe vecchie e nuove che teorizzano la guerra come strumento di “purificazione” dall'invasione dei nuovi “barbari”. Il bagaglio ideologico delle borghesie per legare i proletariati al carro dei loro interessi sin sul terreno della guerra non ha limiti. Per queste ragioni è imprescindibile che la classe debba dotarsi di una guida politica, di una tattica e di una strategia internazionali come internazionale è il modo di essere dell’imperialismo e del suo agire mortale. Ovvero di un partito internazionale - la nuova Internazionale - che coinvolga tutte queste energie verso un unico obiettivo: la lotta contro il capitalismo in tutte le sue manifestazioni economiche e sociali, a partire dalle singole borghesie nazionali, qualunque ruolo abbiano nello scenario della guerra imperialista. In conclusione, non si difendono gli interessi proletari lasciando i destini degli schiavi salariati nelle mani delle loro borghesie jihadiste o laiche, “democratiche” o fascistoidi (il sovranismo). Non si contribuisce alla rinascita di un internazionalismo rivoluzionario schierandosi su di un fronte della guerra imperialista. Non si combatte la guerra entrandovi a farne parte, qualunque sia la giustificazione. Né vale difendere un imperialismo solo perché più debole di un altro. Al contrario, il primo compito delle avanguardie politiche internazionaliste è quello di sottrarre le masse proletarie ai mille tentacoli delle borghesie nazionali e degli imperialisti internazionali, unica condizione per essere contro tutti i nazionalismi e contro tutte le guerre per un'alternativa rivoluzionaria al capitalismo, altrimenti è politica controrivoluzionaria e di conservazione dello status quo”. NWBCW, No alla guerra imperialista, sì alla lotta di classe.

Tendenza Comunista Internazionalista, 28 gennaio 2025

Lunedì, February 10, 2025