Maastricht e la dannazione del proletariato

A sentirli parlare, i capitalisti italiani, sembrerebbe che la causa prima di tutta quella massa di finanziarie, di provvedimenti economici, di riforme delle pensioni e dello Stato sociale, di pressioni nei confronti del mondo del lavoro abbiano un solo responsabile l’Euro, ovvero la moneta unica europea, con il codazzo di tutti quei parametri che l’economia italiana deve raggiungere, pena l’esclusione dalla festa monetaria.

Certamente nel dominio imperante del neo liberismo, ultima spiaggia del capitalismo putrescente e nello sforzo europeo, sotto l’egida della Germania, di costruire un polo economico e finanziario in grado di competere con quello americano e giapponese, i parametri economici che sono stati fissati quale conditio sine qua non ci sono e devono essere rispettati. In caso contrario lo sforzo di contrapporsi al meglio ai colossi d’oltre oceano risulterebbe vano se non addirittura controproducen-te. Altrettanto certamente per mantenere i deficit statale e pubblico all’interno dei tetti programmati, per contenere l’inflazione al di sotto del 2,5 per cento, per non fare esplodere ulteriormente il problema inflazione, come dice il Presidente Prodi, è necessario fare dei sacrifici, pagare un prezzo oggi per essere al sicuro in Europa domani, anche se chi deve sopportare il peso dei sacrifici e pagare il prezzo della sicurezza capitalistica sono sempre gli stessi, i lavoratori. Ma le ragioni che hanno prodotto lo storico attacco alle condizioni di vita e contrattuali della classe operaia hanno avuto altri percorsi rispetto alle necessità dell’Euro e di cui Maastricht, al massimo, può significare una tappa occasionale. Per la borghesia italiana, come per quelle europee interessate, l’operazione “moneta unica” ha rappresentato l’occasione per spostare all’esterno le cause di politiche sociali ed economiche impopolari ed affamanti. Gioco vecchio come il capitalismo ma sempre efficace se ogni volta viene riproposto, purtroppo con successo. Il fatto è che l’economia italiana, segmento del capitalismo avanzato internazionale, soffre di tutti quei mali che oggi travagliano i rapporti di produzione capitalistici su scala mondiale. Non c’è paese ad alta industrializzazione che non soffra di problemi derivanti dalle difficoltà di valorizzazione del capitale, dai bassi saggi del profitto che accelerano le crisi ed esasperano la concorrenza sul mercato internazionale.

In prima fila l’Italia. Negli ultimi dieci anni il capitalismo italiano ha da un lato prodotto un debito pubblico che non ha riscontri nella storia del capitalismo (120% rispetto al Pil), una disoccupazione al di sopra del 12%, sei milioni di diseredati e, come da facile profezia, ha enormemente aumentato la polarizzazione della ricchezza e della povertà al pari dei fratelli maggiori quali quello americano e giapponese. Dall’altro ha infierito sulla forza lavoro imponendo contratti assolutamente vessatori che vanno dal contratto d’ingresso al lavoro interinale con il dichiarato scopo di abbassare il costo del lavoro. Ha riformato l’età e le modalità pensionabili (dalla pensione di vecchiaia a quelli di anzianità, dal sistema retributivo a quello contributivo) con, anche in questo caso, il più che evidente obiettivo di prolungare il periodo lavorativo e di decurtare del 15-20 per cento la redditività delle pensioni, con il risultato di far lavorare i vecchi, di rendere sempre più difficile un posto di lavoro per i giovani e di mandare in pensione i lavoratori con pensioni decurtate. Ha iniziato lo smantellamento dello Stato sociale contrabbandando l’operazione come se fosse una riforma e non la sua estinzione. Meno soldi alla istruzione, contrazione delle scuole e delle cattedre, meno soldi per la sanità: Già negli ospedali i malati soggiornavano nelle corsie, con la nuove restrizioni non solo si pagheranno di più le medicine e le visite specialistiche, gli esami del sangue e le degenze, ma diventerà norma che chi avrà i soldi per curarsi lo potrà fare, per gli altri, la stragrande maggioranza dei lavoratori, le malattie saranno sempre più a rischio, mentre per i più sfortunati l’impossibilità di curarsi potrebbe trasformarsi in decesso al di fuori delle strutture ospedaliere sia private che pubbliche.

Le cause di un simile imbarbarimento della società non risiedono certamente nelle strettoie economiche imposte da Maastricht, ma sono il frutto di una sempre maggiore difficoltà del capitalismo moderno di soddisfare le necessità di valorizzazione del capitale. Saggi del profitto più bassi impongono al capitale crisi economiche più profonde e più estese sui mercati internazionali. Le riprese economiche sono più brevi, la disoccupazione da fenomeno ciclico e parzialmente riassorbibile è diventato un fattore endemico, ineliminabile e destinato ad aumentare. Il selvaggio assalto alla forza lavoro è diventato una necessità imprescindibile. La perversione economica e sociale che oggi domina la borghesia nostrana fa sì che si contrabbandino le politiche economiche più vessatorie come antidoti contro la disoccupazione giovanile. Mentre si licenziano lavoratori a centinaia di migliaia, si “creano” due o tre migliaia di posti di lavoro a 800 mila lire al mese, si inventano i contratti di area praticando una politica dei salari inferiore fino al 60 per cento. Il tutto, ovviamente, voluto dal grande capitale, dal mondo imprenditoriale e programmato da un governo di centro sinistra con la partecipazione straordinaria di Rifondazione comunista.

Al riguardo, il mondo borghese chiamato a giustificare un simile stato di cose, per bocca dei suoi più rappresentativi esponenti, da Fossa ad Agnelli, da Prodi a D’alema, recita ossessivamente che nella vita del capitalismo moderno i costi dello Stato sociale, della sanità, del costo del lavoro sono insopportabili e quindi incompatibili con i margini di sopravvivenza della società borghese. Ovviamente i tromboni del capitalismo italiano si dimenticano di aggiungere che a fronte di un simile degrado sociale, negli ultimi dieci anni si è avuto un incremento della produttività pari al 30 per cento, ovvero si sono abbattuti i tempi e i costi di produzione in misura notevole, aumentando conseguen-temente la ricchezza sociale.

Ma che razza di società è quella che pur continuando a crescere da un punto di vista produttivo e tecnologico non è in grado di sopportare l’onere di dare una vita decente agli anziani, di preparare un futuro lavorativo per i giovani. Che per sopravvivere a se stessa e alle proprie contrad-dizioni è costretta a prendersela con i vecchi e i malati. Che mostro sociale è quella organizzazione della produzione che non riesce a sopportare salari da fame, per chi li percepisce, che vanno da 800 mila al mese al milione e 600 mila, che produce più disoccupati che occupati, che duplica, triplica le finanziarie come se fossero delle fotocopie, che crea miseria e diseredati inversamente proporzionali alla ricchezza sociale prodotta.

Se una simile società non è in grado di sopportare nemmeno questo, bene sarebbe che si togliesse dai piedi. Ma nessuna organizzazione sociale basata sullo sfruttamento del lavoro e sul conseguente privilegio economico e politico si auto-elimina perché travagliata dalle proprie contraddizioni. L’esperienza inse-gna che più le contraddizioni crescono e più le classi dominanti tentano di farle sopportare alle classi subalterne, ma che mai e poi mai sono disponibili a togliere l’incomodo. Occorre che qualcuno li costringa a fare le valige prima che la degenerazione e la barbarie della società capitalistica riducano la schiavitù del lavoro salariato al livello del più basso girone dell’inferno.

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.