Almaviva : qualche riflessione

L'esito della vertenza Almaviva, con i 1666 licenziamenti nella sede di Roma della società di telecomunicazioni, merita sicuramente una più attenta riflessione sulla sostanza di tutta la vicenda.

A seguito della massa dei licenziamenti, è iniziato subito dopo il gioco del cerino in mano dei diversi attori che sul proscenio della vicenda hanno avuto un ruolo nel determinare questo sbocco: azienda, governo, sindacati.

Ma al di là delle recriminazioni reciproche, dello scarico di responsabilità, di basso tono bisogna dire, la questione centrale su cui giravano le considerazioni dei diversi attori si basava sostanzialmente intorno al nodo dell'accettazione delle necessità aziendali come uno terreno dirimente a cui fare riferimento nella propria azione di rappresentanza ed istituzionale.

La polemica “antisindacale” contro le RSU romane del giorno dopo rimanda fondamentalmente a questo nodo: il richiamo a fare propri i termini di compatibilità aziendali anche lì dove queste segnavano un netto peggioramento delle condizioni salariali e normative dei lavoratori.

Se Almaviva ha posto sul piatto della trattativa la fine della procedura di mobilità e il ricatto delle lettere di licenziamento, il governo ha fatto proprie in tutto e per tutto le necessità aziendali -- con un lodo che dava solo ulteriori 3 mesi (coperti dalla cassa integrazione per i lavoratori) per definire un accordo più compiuto intorno alla piattaforma aziendale che nulla toglievano ai piani di ristrutturazione di Almaviva -- l'atteggiamento sindacale non poteva che riflettere in termini di contraddizione questo “salto in avanti” che l'assunzione delle compatibilità aziendali ponevano e pongono all'ordine del giorno. E ciò perché il livello delle compatibilità è aumentato e porta con sé un diverso assetto del quadro di mediazione e ruolo di rappresentanza che a livello istituzionale si deve mettere in opera. Il rifiuto prima e la ricerca affannosa di un esito referendario poi, che smentisse il proprio operato, basandolo sulla paura, la divisione, il ricatto e la disperazione dei lavoratori, senza nessuna volontà di lotta ma che girasse intorno all'aut-aut dell'azienda: prendere o morire, è lo specchio di questa contraddizione.

Per questo la vertenza Almaviva, al di là della sua particolarità, è, come si dice, lo specchio dei tempi della condizione operaia e dei lavoratori di fronte ai processi di ristrutturazione padronali.

Chi avesse memoria di cosa è sempre stato il settore dei call-center ricorderebbe come, nel tempo, fosse il settore che fra i primi ha sperimentato la precarietà spalmata come architrave del rapporto di lavoro. Solo dopo dure lotte si è arrivati ad una relativa stabilizzazione dei rapporti di lavoro ed ad un inquadramento nel CCNL, non senza deroghe, che non hanno impedito anche in altri momenti licenziamenti di massa, se non sacrifici con cassa integrazione, contratti di solidarietà, part-time, con tagli salariali di notevole portata a cui ha sempre corrisposto un clima aziendale, un'organizzazione e dei ritmi di lavoro non certo invidiabili.

Ciò che in fondo chiedeva Almaviva non era che la ratificazione di uno stato di fatto che non solo vedesse i lavoratori totalmente funzionali al loro ruolo di variabile dipendente delle necessità aziendali, con il massimo di flessibilità salariale al ribasso e funzionale nell'organizzazione del lavoro, ma desse mano libera nei processi di riassetto aziendale.

Il “lodo” governativo nella trattativa, in fondo, di questa esigenza si faceva carico, facendo proprie le necessità aziendali. Gli ulteriori tre mesi alla trattativa, non senza lacrime e sangue per i lavoratori, non avrebbero per nulla fermato la ristrutturazione. Forse, alla fine, rispetto alla chiusura della sede di Roma si sarebbe optato solo per un suo drastico ridimensionamento accompagnato dal peggioramento delle condizioni di lavoro, ma la sostanza sarebbe rimasta quella.

Anche perché Almaviva si è fatta interprete dentro questo passaggio di tutte le proposte che per parte padronale spingono per il rinnovo del contratto di lavoro del settore, facendo propri e sfruttando tutti i varchi dati dal riassetto delle relazioni capitale-lavoro che la legislazione borghese ha ratificato in questi anni di crisi.

Il licenziamento in massa dei 1666 lavoratori di Roma porta con sé anche un segno di classe chiarissimo da parte di Almaviva e che va ben oltre la sfera delle necessità di ristrutturazione aziendale e degli aspetti contrattuali in gioco: il chiaro segno della ritorsione verso chi non si piega ai diktat dell'azienda.

Questo il messaggio terroristico che va veicolato, volendo aprire scontri e contraddizioni sul fronte dei lavoratori a partire dalla sconfitta subita.

Almaviva ci dice quindi parecchie cose sul nostro tempo.

La resistenza messa in piedi dalla parte più combattiva dei lavoratori è stato un chiaro NO! ad ulteriori sacrifici, accettando il terreno di scontro posto dall'azienda, nella consapevolezza che arretrare sempre vuol dire alla fine perdere tutto comunque.

Questa consapevolezza, oltre ad esprimersi come rifiuto contingente dell'azione padronale e di categoria, spontaneo o organizzato che fosse, poteva superare il suo carattere immediato ed episodico se fosse stato l'anello di una strategia di lotta di lungo periodo tesa ad organizzare le proprie forze e a contrastare i fattori negativi di divisione, passività e dispersione fra i lavoratori.

L'atteggiamento delle RSU romane è stato anche il riflesso del maturare di questa condizione di opposizione spontanea fra i lavoratori alle esigenze padronali, ma la delega riflessa e passiva che ne è scaturita si è tradotta sul piano della mediazione istituzionale nella tomba di questa spinta di opposizione.

E non poteva essere altrimenti per le contraddizioni che sopra dicevamo.

Se oggi come oggi è difficile già capitalizzare una vittoria , estremamente rara, diventa quasi impossibile capitalizzare una sconfitta, o meglio tutto quel patrimonio di idee e soggettività che comunque si sono spese per una diversa prospettiva sul terreno di lotta e di resistenza. Sia per difficoltà materiali, che per l'ulteriore arretramento e passivizzazione che una sconfitta produce nell'ambito dei lavoratori stessi.

Il nodo che i lavoratori si trovano sempre più spesso davanti è questo: o accettare le brutali compatibilità capitalistiche e aziendali, sapendo che comunque alla fine saranno “vuoti a perdere”, o mettere in gioco tutto in una azione di costruzione di forza e di organizzazione di lungo periodo che superi i limiti di azienda, categoria, corporativi, a cui il rapporto immediato capitale-lavoro li lega, per puntare all'unità della classe sfruttata contro il sistema capitalistico.

EG
Domenica, January 8, 2017