Ai "martiri" dell'Afghanistan

La retorica nazional-popolare sta svolgendo appieno il suo compito. Non c'è istituzione nazionale, dal capo dello stato al ministro della difesa, dai presidenti delle camere all'ultimo portavoce di qualsiasi partito che non abbia commentato la morte dei sei parà della Folgore come martiri della libertà caduti sul fronte afgano per difendere la democrazia.

Intanto ci sarebbe da chiedersi di quale democrazia si parla. Se è quella che nel 2001 è stata imposta con l'uso criminale delle armi americane per soddisfare le esigenze energetiche della compagnia petrolifera Unocal. Se invece è quella che è uscita con i conclamati brogli dalle urne che hanno riconfermato alla presidenza Karzai, l'uomo di Washington, oppure se è rappresentata al meglio da quella legge in discussione ora al parlamento di Kabul, che, per quanto riguarda le donne e i “diritti civili”, differisce ben poco rispetto a quelle dei Talebani (1), ci viene da sorridere.

Da un po' di tempo a questa parte la democrazia si esporta, vedi il caso Iraq, si difende, caso Afghanistan, a seconda degli interessi che l'imperialismo, in questo caso americano, deve perseguire ad ogni costo, guerre da combattere comprese.

Ma la retorica nazional-popolare di tutto questo non parla, recita soltanto di come i “nostri” martiri siano caduti nel tentativo di liberare un paese lontano dalla presenza del terrorismo talebano. A questa falsa retorica se ne aggiunge un'altra, quella di “sinistra”, che accusa l'imperialismo americano di esercitare il suo incontrastato potere, configurandosi come l'unico centro imperialistico mondiale, responsabile, quindi, di ogni nefandezza bellica che si produca sul nostro martoriato pianeta. Che la retorica sui martiri sia falsa come la gran parte dei discorsi di circostanza che si sono pronunciati, è talmente evidente che non è nemmeno il caso di essere presa in seria considerazione. Che gli Usa siano, e di gran lunga, il più feroce imperialismo del ventesimo e ventunesimo secolo (almeno, finora) è certamente una verità che, però, va collocata in un contesto di ricomposizione imperialistica internazionale le cui componenti sono numerose, complesse, e di cui abbiamo una evidente dimostrazione proprio nello scenario afgano.

L'imperialismo americano usa la guerra contro il terrorismo talebano, in nome della difesa dei supremi interessi della democrazia, chiamando a sostegno i piccoli contingenti militari della Nato, tra cui quello italiano, per fare dell'asse afgano-pachistano il cuneo geografico e politico necessario per mantenere un ruolo preminente, almeno nella zona a sud del Caspio, sulla questione energetica, sulla costruzione e transito di alcune pipeline da orientare verso il basso Mediterraneo.

L'Iran, e non da adesso, sostiene e arma con equipaggiamento leggero le formazioni talebane con lo scopo di ricavarsi un ruolo centrale nella medesima area di interesse americano. I confini ovest afgani, quelli che sono adiacenti all'Iran, rappresentano una sorta di colabrodo attraverso il quale passa di tutto, dalle armi alla droga, dai profughi ai consiglieri militari. Secondo gli stessi servizi segreti di Kabul, nei mesi scorsi si sono contati più di duecento personaggi esteri, con passaporto diplomatico, che operavano nelle zone sotto il controllo talebano con compiti di intelligence e di consulenza militare che sono passati attraverso le larghe maglie del confine con l'Iran.

Anche Russia e Cina partecipano attivamente a comporre l'intricata matassa afgana. Mosca e Pechino già da tempo hanno firmato contratti con il Kazakistan e con quattro delle cinque ex repubbliche sovietiche asiatiche per lo sfruttamento, la commercializzazione e la costruzione di pipeline gasso-petrolifere che dal Caspio prendono la strada per la Russia e per la Cina. Il governo di Mosca rifornisce direttamente di armi strategiche l'Iran che, a sua volta, ricicla armamenti leggeri ai combattenti del mullah Omar. Il governo cinese invia a quest'ultimo missili a media e lunga gittata high-tech e armi tradizionali le cui tracce (made in Cina) sono riscontrabili sugli scenari bellici sia nella valle di Swat (Pakistan) che nel Waziristan e lungo l'infinita linea di confine tra Afghanistan e Pakistan, nonché negli attentati all'interno delle grandi città, come Herat, Mazar-i-Sharif e la stessa Kabul.

E l'Italia, con il suo piccolo contingente armato, che fa? Semplice. Appartiene ad un fronte imperialistico, quello occidentale, alle dipendenze del grande alleato d'oltre oceano, ma con qualche ambizione in proprio. Il mini imperialismo italiano, in questo caso rappresentato dall'Eni, è perennemente alla ricerca di spazi energetici ai quattro angoli del mondo. Il partecipare alla missione Nato (atto peraltro dovuto) sotto la direzione strategica del Pentagono, è la condizione per accaparrarsi le briciole di quel grande business energetico che è rappresentato dallo scacchiere centro asiatico. Sempre che le strategie americane, riconvertite nella forma dalla nuova Amministrazione, ma ben salde nei contenuti di sempre, abbiano successo.

Fatte le debite differenze cronologiche e di collocazione geografica, ma non di interessi, è come quando, nel 2003, il governo italiano ha aderito alla “campagna” americana in Iraq. All'epoca in premio per l'alleanza con Washington c'erano i pozzi di Nassiriya. Anche in quella occasione il contingente italiano ha dovuto pagare dazio subendo un attentato nella sua base militare con tanto di morti.

Oggi la storia si è ripetuta a Kabul. L'enfasi è stata nettamente superiore ai fatti di Nassiriya ma la lezione è la stessa. I sei caduti sul fronte afgano non sono il simbolo del martirio per una “giusta” causa: la difesa della democrazia, bensì le vittime di una arroganza imperialistica di cui, più o meno inconsapevolmente, loro stessi fanno parte. Carne da cannone da usare contro obiettivi militari avversari, a volte contro obiettivi civili, il tutto all'interno di un involucro imperialistico che vede come attori non solo gli interessi americani, ma anche quelli russi, cinesi, che, a loro volta, qualora capitasse, inscenerebbero altrettante cerimonie commemorative sull'ormai vetusto spartito del martirio per giusta causa.

Nel frattempo si dimentica che la presenza Usa-Nato in Afghanistan ha prodotto mezzo milione di vittime civili, un esodo di due milioni di abitanti, fame e carestie tra la popolazione. Mentre gli imperialismi, grandi e piccoli, celebrano le loro vittime, i morti civili dell'Afghanistan come dell'Iraq o di qualunque altro paese teatro degli scontri imperialistici, sono soltanto degli effetti collaterali.

FD, 2009-09-22

(1) Vedi lettera22.it

Giusto per rinfrescare la memoria: chi non ricorda i furenti discorsi di coloro che, nel 2001, novelli femministi e femministe sostenevano la necessità della spedizione italiana in Afghanistan per liberare le donne dal burqa e dall'oppressione dell'islamismo integralista?

Battaglia Comunista

Mensile del Partito Comunista Internazionalista, fondato nel 1945.